Abusivismo finanziario e valute virtuali: limiti di legalità in una recente pronuncia della Cassazione Penale

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Abusivismo finanziario e valute virtuali: limiti di legalità in una recente pronuncia della Cassazione Penale

da | Mag 15, 2025 | Diritto Penale

Tra le più recenti pronunce della Corte di Cassazione Penale in materia di abusivismo finanziario, figurano casi relativi all’offerta e gestione di criptoattività in assenza delle prescritte abilitazioni. Con il presente articolo ci proponiamo di delineare i criteri interpretativi adottati dal giudice penale per ricondurre le operazioni aventi a oggetto valute virtuali nell’ambito applicativo dell’art. 166 del D. Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo Unico della Finanza – TUF), norma incriminatrice dell’esercizio abusivo di servizi e attività di investimento.

La complessità della materia – che intreccia diritto penale dell’economia e diritto dei mercati finanziari – impone una lettura coordinata delle fonti interne ed europee, nonché un confronto con le definizioni elaborate dalla giurisprudenza di legittimità, anche in ambito civilistico.

In tale prospettiva, particolare rilievo assume la sentenza della Corte di Cassazione, Sezione V Penale, 19 luglio 2024, n. 29649, che ha affrontato in modo approfondito il tema della riconducibilità delle criptovalute alla nozione di prodotto finanziario.

Il commento alla decisione è stato oggetto di una nostra nota pubblicata nel fascicolo 2/2025 della rivista “Diritto di Internet”, nella quale sono stati esaminati gli approdi ermeneutici della Suprema Corte e le possibili ricadute in termini di responsabilità penale.

L’articolo che segue si propone dunque di riprendere e sviluppare ulteriormente tali profili, mettendo in luce i criteri giuridici attraverso cui l’abusivismo finanziario viene riconosciuto anche nei confronti di soggetti operanti nel mercato delle valute virtuali.

Tassatività penale e abusivismo finanziario: il caso giudiziario affrontato dalla Corte

La vicenda affrontata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 29649 del 19 luglio 2024 prende le mosse dalla condanna riportata da un soggetto ritenuto responsabile del reato di abusivismo finanziario per aver svolto, in maniera sistematica e senza alcuna abilitazione, attività di investimento e offerta fuori sede di prodotti e strumenti finanziari, tra cui figuravano anche investimenti in criptovalute.

Il Tribunale di Verona, con sentenza confermata in appello, aveva accertato che l’imputato aveva gestito capitali per oltre due milioni di euro, promuovendo operazioni rivolte a un numero rilevante di risparmiatori.

In sede di legittimità, la difesa ha invocato il principio di tassatività della norma penale, sostenendo l’insussistenza del reato di cui all’art. 166 TUF in quanto i prodotti finanziari offerti risultavano, salvo che per le criptovalute, del tutto inesistenti nella realtà fenomenica e giuridica. Secondo tale impostazione, la condotta avrebbe dovuto essere sussunta – eventualmente – sotto altre fattispecie, come quella di truffa, ma non sarebbe stata idonea a integrare il reato di abusivismo finanziario, il quale richiederebbe l’offerta o la gestione di prodotti effettivamente esistenti e riconducibili all’ordinamento di settore.

La Corte ha tuttavia rigettato tale ricostruzione, rilevando come l’essenza dell’infrazione consista nell’esercizio non autorizzato di attività riservate, indipendentemente dalla liceità o dalla validità intrinseca dei prodotti prospettati.

Anche qualora l’attività concretamente svolta si riveli priva di valore economico reale, ciò che rileva è la percezione da parte del pubblico e la funzione economica assunta dall’operazione, se connotata da aspettativa di rendimento e da un rischio di investimento. L’interpretazione offerta dalla Cassazione si muove dunque lungo una linea di continuità con la funzione protettiva dell’art. 166 TUF, intesa a tutelare non soltanto l’interesse individuale del risparmiatore, ma anche l’integrità e il corretto funzionamento del mercato finanziario.

In questa prospettiva, l’abusivismo finanziario può configurarsi anche in relazione ad asset privi di valore oggettivo, laddove il promotore ne abbia fatto oggetto di un’attività riconducibile ai servizi di investimento disciplinati dal Testo Unico della Finanza.

Abusivismo finanziario e criptovalute: natura dell’asset e criteri interpretativi

L’art. 166, comma 1, del D. Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (TUF) prevede che: «È punito con la reclusione da uno a otto anni e con la multa da euro quattromila a euro diecimila chiunque, senza esservi abilitato ai sensi del presente decreto: a) svolge servizi o attività di investimento o di gestione collettiva del risparmio; […] c) offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento». La norma incriminatrice individua quindi due diverse tipologie di condotte penalmente rilevanti: da un lato, l’esercizio abusivo di servizi di investimento; dall’altro, l’offerta, promozione o collocamento di prodotti finanziari senza abilitazione, anche tramite tecniche di comunicazione a distanza.

Nel caso deciso dalla Cassazione con la sentenza n. 29649/2024, l’imputato era accusato di aver posto in essere condotte riconducibili alle ipotesi di cui alle lettere a) e c) dell’art, 166, avendo promosso operazioni speculative in criptovalute, ricevendo direttamente le somme dai risparmiatori e gestendo portafogli digitali per loro conto, pur essendo privo delle necessarie autorizzazioni.

Il ricorrente ha contestato la configurabilità del reato, sostenendo che le criptovalute non potessero essere ricondotte né alla nozione di prodotto finanziario né a quella di strumento finanziario, in quanto non espressamente menzionate nel TUF.

La Suprema Corte ha respinto tale impostazione, sottolineando che ciò che rileva, ai fini dell’integrazione del reato di abusivismo finanziario, è la funzione economica concretamente assunta dall’operazione. In particolare, la Corte ha accertato che l’imputato non si limitava a facilitare l’acquisto di criptovalute come mezzo di scambio, bensì gestiva portafogli virtuali riconducibili ai clienti, perseguendo un obiettivo di rendimento finanziario. Tale modalità operativa consente di qualificare le valute virtuali come strumenti impiegati con finalità di investimento e, pertanto, suscettibili di essere ricondotti nell’ambito applicativo dell’art. 166 TUF.

La Corte valorizza, in questo senso, una nozione funzionale del prodotto finanziario, ponendo al centro dell’analisi la finalità economica dell’operazione e la percezione che ne ha il pubblico, piuttosto che la tassatività della tipologia contrattuale o la denominazione dello strumento. In questa prospettiva, la condotta contestata rientra appieno nella disciplina penale dell’abusivismo finanziario, anche in assenza di un’espressa tipizzazione delle valute virtuali come strumenti regolamentati.

Abusivismo finanziario e criteri civilistici di finanziarietà

L’inquadramento delle criptovalute tra i prodotti finanziari rilevanti ai fini dell’art. 166 TUF presuppone una riflessione sul concetto di investimento finanziario, che non può esaurirsi in un elenco tassativo di strumenti normativamente tipizzati.

In tal senso, la giurisprudenza civile ha progressivamente elaborato una nozione “aperta” di prodotto finanziario, capace di adattarsi alle continue evoluzioni del mercato. Ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. u), del Testo Unico della Finanza, i prodotti finanziari sono definiti come «gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria».

Tale formula evidenzia un approccio funzionale e non formale alla nozione di prodotto, volto a ricomprendere tutte quelle operazioni che, pur prive di una veste giuridica codificata, presentano elementi oggettivi di finanziarietà.

Secondo un consolidato orientamento della Corte di Cassazione civile (v. Sez. I, sent. n. 10598 del 19 maggio 2005; Sez. II, sent. n. 2736 del 5 febbraio 2013), costituisce investimento di natura finanziaria ogni operazione nella quale ricorra un conferimento di denaro da parte del risparmiatore, un’aspettativa di rendimento o di utilità, e l’assunzione di un rischio, rispetto all’impiego delle disponibilità in un determinato intervallo temporale.

L’effetto economico dell’operazione, e non la forma contrattuale utilizzata, rappresenta il criterio guida per accertare la sussistenza della “finanziarietà”. Tale impostazione consente di includere nella disciplina di protezione anche le operazioni atipiche o innominate, in linea con le esigenze di tutela degli investitori nei confronti di iniziative di mercato sempre più articolate e tecnologicamente avanzate.

Nel solco di tale interpretazione, la Cassazione penale, nella sentenza n. 29649/2024, ha valorizzato proprio questi indici civilistici per affermare la sussumibilità delle operazioni aventi a oggetto criptovalute nella nozione di investimento finanziario penalmente rilevante.

È la stessa Corte a richiamare, in motivazione, il principio secondo cui il prodotto finanziario costituisce una categoria aperta, elaborata dal legislatore per rispondere alla creatività del mercato e alla necessità di intercettare tutte le forme, anche non convenzionali, di offerta al pubblico del risparmio.

L’abusivismo finanziario, pertanto, può configurarsi anche in relazione a strumenti non espressamente elencati dal TUF, purché sussistano gli elementi oggettivi dell’investimento secondo i criteri funzionali indicati dalla giurisprudenza civile. Tale convergenza interpretativa tra i giudici civili e penali rafforza la coerenza sistematica dell’ordinamento e consente di attribuire rilievo penalistico anche a condotte che si pongono al di fuori dei modelli contrattuali tradizionali, ma che realizzano di fatto una gestione speculativa del risparmio.

Valute virtuali, abusivismo finanziario e limiti di legalità nell’offerta di cryptoasset

L’estensione della fattispecie di abusivismo finanziario alle condotte aventi a oggetto le criptoattività solleva interrogativi rilevanti sotto il profilo della legalità penale e della prevedibilità del precetto. In effetti, la tipologia eterogenea delle valute virtuali, la mancanza di un’espressa ricomprensione delle stesse nella nozione codificata di strumento finanziario e l’assenza, fino a tempi recenti, di una disciplina armonizzata sul piano europeo, rendono necessario un esercizio interpretativo particolarmente rigoroso da parte dell’interprete.

La Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, affronta tali criticità chiarendo che l’elemento decisivo non risiede nella classificazione astratta dell’asset, bensì nella finalità economica dell’operazione e nella percezione che ne deriva in capo agli investitori.

Secondo il principio affermato dalla Suprema Corte, l’abusivismo finanziario ex art. 166, comma 1, TUF, si configura ogniqualvolta un soggetto, senza autorizzazione, offra al pubblico strumenti o servizi che si presentano come investimenti di natura finanziaria. Ciò include le ipotesi in cui l’offerta sia effettuata al di fuori della sede legale o attraverso tecniche di comunicazione a distanza, anche mediante canali digitali o piattaforme telematiche.

La Cassazione ha più volte chiarito che, qualora l’attività di vendita di valute virtuali sia accompagnata dalla prospettazione di rendimenti attesi, obblighi di riacquisto, strategie di valorizzazione o altre forme di sollecitazione del risparmio, essa assume natura finanziaria e ricade nel perimetro delle condotte sanzionate dall’art. 166, lett. c).

L’offerta di cryptoasset diventa, quindi, penalmente rilevante non in ragione della nomenclatura dell’oggetto scambiato, ma della struttura economica e comunicativa dell’operazione, che deve essere valutata caso per caso.

Ciò impone al giudice penale un’attenta verifica in ordine alla concreta destinazione del capitale, alla presenza di una prospettiva di rendimento, al rischio assunto dall’investitore e alla modalità con cui l’operazione è stata promossa. Tale verifica, ispirata ai criteri civilistici della finanziarietà, permette di rispettare il principio di legalità senza sacrificare l’effettività della tutela del mercato.

Assistenza legale qualificata sul tema Blockchain&Cryptoasset: l’esperienza dello Studio Legale D’Agostino

La crescente diffusione delle valute virtuali come strumenti di investimento e la progressiva affermazione di un’interpretazione estensiva della nozione di prodotto finanziario pongono rilevanti esigenze di orientamento e tutela per operatori economici, investitori, start-up tecnologiche e piattaforme attive nell’ambito delle criptoattività.

La disciplina dell’abusivismo finanziario è soltanto un esempio. Emergono diversi ambiti e profili di responsabilità per soggetti che – spesso in buona fede – svolgano attività di promozione, intermediazione o gestione di valori virtuali, senza considerare la necessità di abilitazioni o iscrizioni presso le autorità di vigilanza .

Il nostro Studio Legale, grazie alla guida dell’Avv. Luca D’Agostino, ha maturato una consolidata esperienza nella valutazione di progetti imprenditoriali relativi a criptoasset, assistendo imprenditori, società fintech, sviluppatori di piattaforme nella valutazione di legalità dei modelli operativi, nella predisposizione di documentazione conforme alla normativa vigente e nella difesa tecnica in procedimenti presso la Consob e altre autorità pubbliche di vigilanza. L’attività si estende anche al contenzioso amministrativo e all’interlocuzione con le autorità competenti per l’adeguamento ai requisiti autorizzatori, alla trasparenza dell’offerta e alla prevenzione di possibili illeciti.

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Immagine di mani di un uomo d'affari in manette con documenti finanziari e computer sullo sfondo, rappresentante i reati aziendali e il diritto penale d'impresa.

Diritto penale d’impresa e white-collar crimes – Studio Legale Luca D’Agostino, Roma.