Nomina dell’Organismo di Vigilanza ex art. 6 D. Lgs. 231/2001: requisiti, compiti e funzioni

Nomina dell’Organismo di Vigilanza ex art. 6 D. Lgs. 231/2001: requisiti, compiti e funzioni

La nomina dell’Organismo di Vigilanza garantisce l’effettività del Modello organizzativo 231, nell’ambito delle strategie aziendali di prevenzione dei reati all’interno dell’ente. L’Organismo di Vigilanza (OdV) è un organo di controllo indipendente, previsto dal D.lgs. 231/2001, con il compito di vigilare sull’efficace attuazione e aggiornamento del modello, segnalando eventuali irregolarità e proponendo misure correttive.

L’introduzione della responsabilità amministrativa degli enti ha determinato la necessità, per le imprese e le organizzazioni, di adottare strumenti di compliance aziendale in grado di ridurre il rischio di coinvolgimento in procedimenti sanzionatori.

Il modello organizzativo 231, se adeguatamente implementato e aggiornato, può costituire una causa esimente dalla responsabilità dell’ente, ma solo a condizione che sia stata la nomina dell’Organismo di Vigilanza, dotato dei requisiti di autonomia, indipendenza e professionalità.

L’OdV svolge quindi un ruolo chiave nel garantire che il modello non si riduca a un mero apparato formale, ma sia concretamente applicato nella gestione aziendale. La sua istituzione e il suo funzionamento devono essere regolati da criteri rigorosi, in modo da assicurare una vigilanza efficace sui processi interni e sugli obblighi di prevenzione dei reati.

Nei paragrafi successivi verranno approfonditi i criteri di nomina dell’Organismo di Vigilanza 231, i requisiti necessari per i suoi componenti, le sue principali funzioni e l’importanza dei flussi informativi come strumento essenziale per il corretto svolgimento della sua attività di controllo.

Nomina dell’Organismo di Vigilanza 231: criteri e modalità

La Nomina dell’Organismo di Vigilanza è un atto di fondamentale importanza per l’efficace attuazione del Modello organizzativo 231. Solitamente essa viene deliberata dal Consiglio di Amministrazione, sentito il Collegio Sindacale, con l’obiettivo di garantire che il soggetto o i soggetti designati abbiano i requisiti di autonomia, indipendenza e competenza richiesti dalla normativa. L’OdV può avere una composizione monocratica o collegiale, a seconda delle dimensioni e della complessità organizzativa dell’ente.

Per le imprese di piccole dimensioni e per le start-up, l’art. 6, comma 4 del D.lgs. 231/2001 prevede che i compiti dell’OdV possano essere svolti direttamente dall’organo dirigente, senza la necessità di un organismo separato. Questa soluzione, sebbene legittima, solleva criticità in termini di indipendenza e obiettività del controllo, motivo per cui molte aziende, anche di ridotte dimensioni, preferiscono istituire un OdV autonomo. Abbiamo trattato il tema in un precedente articolo, al quale facciamo rinvio.

Per le imprese di medie e grandi dimensioni, invece, la composizione collegiale è generalmente preferibile, in quanto consente una maggiore distribuzione delle competenze e una più efficace gestione dei controlli.

L’OdV può essere composto sia da componenti interni all’ente (ad esempio il responsabile dell’internal audit o della funzione legale) sia da esperti esterni con competenze specifiche in diritto penale d’impresa, sistemi di controllo e compliance aziendale. La scelta tra un modello monocratico o collegiale dipende dalla necessità di assicurare l’effettività e l’efficacia del controllo, evitando qualsiasi interferenza con le attività operative dell’ente.

Una particolare attenzione deve essere posta nella definizione dei criteri di nomina. Per garantire l’autonomia dell’OdV, è necessario che i componenti non abbiano conflitti di interesse, vincoli di subordinazione o ruoli operativi che potrebbero comprometterne l’imparzialità. Inoltre, il loro mandato deve essere stabilito per un periodo di tempo definito, con possibilità di rinnovo, e deve essere prevista una procedura di revoca solo per giusta causa, evitando la possibilità di pressioni o interferenze indebite.

La nomina dell’Organismo di Vigilanza rappresenta, dunque, una fase delicata che incide direttamente sull’efficacia del modello organizzativo. Un OdV correttamente selezionato, e dotato dei requisiti richiesti dalla normativa, permette di garantire la corretta funzionalità del sistema di prevenzione dei reati e per conferire all’ente un’effettiva protezione dalla responsabilità amministrativa dipendente da reato.

Requisiti per la Nomina dell’Organismo di Vigilanza 231

Guardano alla prassi e alle best practices di settore, i principali requisiti per la Nomina dell’Organismo di Vigilanza sono tre: autonomia e indipendenza, professionalità e continuità di azione. Tali caratteristiche non solo assicurano il corretto funzionamento dell’OdV, ma sono anche decisive per dimostrare l’effettività del modello 231, evitando che esso venga considerato un mero strumento formale privo di reale applicazione.

a) Autonomia e indipendenza

Il principio di autonomia e indipendenza dell’OdV è essenziale affinché l’organismo possa esercitare il proprio ruolo senza subire pressioni o interferenze da parte degli organi di gestione dell’ente. Il D.lgs. 231/2001 non fornisce una definizione puntuale di tali requisiti, ma la prassi e la giurisprudenza hanno chiarito che l’OdV deve essere dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo, senza essere soggetto a vincoli di subordinazione gerarchica o funzionale.

Affinché sia garantita l’autonomia decisionale, la nomina dell’Organismo di Vigilanza deve riguardare soggetti che non siano coinvolti nelle attività operative dell’ente e che non abbiano interessi economici rilevanti nell’organizzazione. Questo significa, ad esempio, che un dirigente con poteri esecutivi o un membro del Consiglio di Amministrazione non può essere nominato come OdV, in quanto la sua funzione di controllo potrebbe risultare compromessa dalla partecipazione alle decisioni gestionali.

L’indipendenza dell’OdV deve essere valutata sia a livello oggettivo che soggettivo. Sul piano oggettivo, l’OdV deve essere collocato in una posizione di livello, ma senza essere sottoposto a direttive o condizionamenti operativi.

Sul piano oggettivo, i componenti dell’OdV devono essere privi di conflitti di interesse con l’ente e con le società collegate o controllate. Non devono inoltre esistere vincoli di parentela o affinità con i vertici aziendali, né partecipazioni azionarie o interessi economici significativi nell’ente.

L’atto di nomina dell’Organismo di Vigilanza deve inoltre prevedere garanzie di stabilità e protezione nei confronti dei componenti, evitando che possano essere rimossi o sostituiti senza una giusta causa. Il loro incarico deve avere una durata definita e la revoca deve essere giustificata esclusivamente in presenza di comprovate inadempienze o conflitti di interesse sopravvenuti.

b) Professionalità

La competenza professionale dei componenti dell’OdV è un requisito essenziale per la sua efficacia. La nomina dell’Organismo di Vigilanza deve riguardare soggetti con un elevato livello di specializzazione, in grado di effettuare verifiche ispettive, analizzare i processi aziendali e individuare eventuali criticità nei sistemi di prevenzione dei reati.

Le Linee Guida di Confindustria raccomandano che i componenti dell’OdV abbiano conoscenze approfondite in materia giuridica, economica e gestionale, con particolare attenzione al diritto penale d’impresa, ai sistemi di controllo interno, alla corporate governance e ai meccanismi di compliance aziendale.

Le principali competenze richieste per la nomina dell’Organismo di Vigilanza riguardano:

  • Diritto penale e amministrativo, con particolare riferimento ai reati previsti dal D.lgs. 231/2001 e ai criteri di imputazione della responsabilità amministrativa dell’ente.
  • Attività ispettiva e di audit, con capacità di condurre verifiche, ispezioni interne e analisi documentali per garantire il rispetto del Modello organizzativo 231.
  • Analisi dei processi aziendali, attraverso la mappatura delle aree sensibili e la valutazione dei rischi connessi alla possibile commissione di reati.
  • Metodologie di risk assessment, per individuare e monitorare le criticità nel sistema di gestione e controllo dell’ente.

Per assicurare un adeguato livello di competenza, la nomina dell’Organismo di Vigilanza può prevedere una composizione collegiale, includendo soggetti con professionalità complementari, come avvocati esperti di diritto penale, revisori contabili, esperti di compliance aziendale e specialisti di risk management.

c) Continuità di azione

La continuità operativa dell’OdV è fondamentale affinché il controllo sulla corretta attuazione del modello organizzativo 231 non si riduca a un’attività episodica o meramente formale. La nomina dell’Organismo di Vigilanza deve quindi cadere su soggetti in grado di garantire un impegno costante nell’attività di vigilanza, con un programma di verifiche periodiche e un monitoraggio sistematico dei processi aziendali.

L’OdV deve disporre di un budget autonomo, approvato dal Consiglio di Amministrazione, per svolgere le proprie attività in maniera indipendente, avvalendosi, se necessario, di consulenti esterni per approfondimenti specialistici. È inoltre essenziale che l’OdV abbia accesso a tutta la documentazione aziendale rilevante per l’esercizio delle sue funzioni, senza restrizioni o vincoli operativi.

Un ulteriore aspetto che incide sulla continuità d’azione è la previsione di flussi informativi costanti tra l’OdV e le funzioni aziendali sensibili, al fine di garantire che tutte le segnalazioni di eventuali irregolarità vengano tempestivamente analizzate e gestite. L’OdV deve inoltre redigere report periodici, da trasmettere agli organi apicali dell’ente, nei quali riferire sulle attività svolte, sulle criticità riscontrate e sulle eventuali misure correttive da adottare.

Atto di nomina dell’Organismo di Vigilanza: compiti e poteri

I compiti dell’Organismo di Vigilanza possono essere distinti in tre aree principali: verifica dell’efficacia del modello, controllo sull’osservanza delle procedure e aggiornamento continuo del sistema di prevenzione. Tali attività sono disciplinate dall’art. 6 del D.lgs. 231/2001 e dalle Linee Guida di Confindustria, che hanno delineato una serie di funzioni essenziali per il corretto funzionamento dell’OdV.

1) Vigilanza sull’effettività del modello organizzativo: l’OdV verifica della coerenza tra i comportamenti aziendali e le prescrizioni del modello, attraverso un’analisi costante delle procedure adottate e un controllo sulle aree sensibili individuate nella mappatura dei rischi. L’atto di nomina dell’Organismo di Vigilanza deve prevedere che le misure preventive siano concretamente attuate e che non si verifichi un rispetto soltanto “cartolare” del modello.

2) Analisi dell’adeguatezza del modello: l’OdV deve verificare che il modello organizzativo sia idoneo a prevenire i reati presupposto previsti dal D.lgs. 231/2001, individuando eventuali criticità e proponendo azioni correttive. Questo richiede un’analisi approfondita della struttura organizzativa dell’ente, con particolare attenzione ai meccanismi di controllo interni, alle deleghe di poteri e ai protocolli decisionali adottati dall’azienda.

3) Monitoraggio del mantenimento nel tempo dei requisiti di solidità e funzionalità del modello: l’OdV non può limitarsi a un’analisi statica, ma deve garantire che il modello organizzativo venga costantemente aggiornato in base alle evoluzioni normative, ai cambiamenti organizzativi e agli esiti delle verifiche interne. La sua funzione è quindi dinamica e proattiva, orientata a migliorare costantemente il sistema di prevenzione dei rischi.

Per assolvere ai propri compiti, l’OdV deve essere dotato di poteri autonomi di iniziativa e controllo. Ai sensi dell’art. 6 del D.lgs. 231/2001 l’OdV dovrebbe accedere senza restrizioni a tutti i documenti aziendali rilevanti, effettuare verifiche ispettive e condurre indagini interne per accertare eventuali violazioni del modello.

Inoltre, l’OdV deve avere la possibilità di raccogliere informazioni da tutte le funzioni aziendali, interagendo con i responsabili delle aree più sensibili e richiedendo chiarimenti su operazioni o decisioni rilevanti ai fini della compliance.

L’autonomia di spesa è un altro aspetto essenziale per garantire l’indipendenza dell’OdV. La nomina dell’Organismo di Vigilanza deve prevedere l’assegnazione di un budget autonomo, che consenta all’OdV di avvalersi, se necessario, di consulenti esterni per approfondimenti specialistici e di condurre verifiche indipendenti senza interferenze da parte del management aziendale.

Infine, un ulteriore compito dell’OdV è la promozione della cultura della compliance aziendale. Ciò significa che l’Organismo di Vigilanza deve diffondere la conoscenza del modello 231 attraverso attività formative rivolte a dipendenti e dirigenti, al fine di sensibilizzare tutto il personale sull’importanza delle regole di prevenzione e sulle conseguenze della violazione delle normative di riferimento.

Nomina dell’Organismo di Vigilanza e flussi informativi

Nel trattare della nomina dell’Organismo di Vigilanza, non potrebbe tacersi l’importanza che rivestono i flussi informativi nell’effettività dei controlli demandati a quest’ultimo. Il D.lgs. 231/2001, all’art. 6, comma 2, lettera d), stabilisce che il modello di organizzazione e gestione deve prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’OdV, al fine di consentire un controllo costante e approfondito sulle aree aziendali più esposte al rischio di commissione di reati.

I flussi informativi si articolano in due direzioni: da un lato, vi sono le comunicazioni che l’Organismo di Vigilanza deve ricevere, ossia i report periodici, le segnalazioni di anomalie e le informazioni riguardanti eventi di rilievo; dall’altro, vi sono i flussi in uscita, ovvero le relazioni che l’OdV trasmette agli organi societari, in particolare al Consiglio di Amministrazione e al Collegio Sindacale, per evidenziare criticità e proporre eventuali aggiornamenti del modello.

Le informazioni trasmesse all’OdV devono riguardare tutti gli aspetti rilevanti per la vigilanza sull’effettività e sull’adeguatezza del modello, compresi gli esiti delle attività di audit interno, le verifiche sugli strumenti di controllo e il rispetto dei protocolli aziendali. È essenziale che i responsabili delle funzioni aziendali più esposte ai rischi 231 trasmettano con regolarità report dettagliati all’OdV, segnalando eventuali situazioni anomale o potenzialmente critiche.

In questo contesto, assume particolare rilievo la gestione delle segnalazioni whistleblowing, che consente ai dipendenti e ai collaboratori di riferire eventuali violazioni delle procedure senza timore di ritorsioni, garantendo l’anonimato e la riservatezza.

Oltre ai flussi informativi interni, la nomina dell’Organismo di Vigilanza implica anche l’istituzione di un sistema di reporting periodico verso il Consiglio di Amministrazione e il Collegio Sindacale. L’OdV deve redigere relazioni periodiche – solitamente su base semestrale o annuale – in cui illustra le attività svolte, evidenzia eventuali violazioni e propone misure correttive. Questo meccanismo consente alla governance aziendale di monitorare l’efficacia del sistema di controllo interno e di intervenire tempestivamente in caso di necessità.

Un aspetto critico per l’effettività dei flussi informativi è la qualità e la tempestività delle comunicazioni. È fondamentale che le informazioni trasmesse all’OdV siano chiare, complete e tempestive, affinché l’Organismo possa intervenire con tempestività e adottare le misure necessarie per prevenire situazioni di rischio.

Per questo motivo, molte aziende formalizzano le modalità di comunicazione attraverso procedure interne e regolamenti specifici, che disciplinano la periodicità, i contenuti e i canali attraverso cui devono essere trasmesse le informazioni.

Infine, la nomina dell’Organismo di Vigilanza deve prevedere una specifica disciplina delle responsabilità in caso di omissione dei flussi informativi. L’omessa trasmissione di dati rilevanti all’OdV può costituire una grave violazione del modello e comportare conseguenze disciplinari per i soggetti responsabili.

L’efficacia dell’OdV dipende in gran parte dalla collaborazione dell’intera struttura aziendale, motivo per cui è fondamentale che i vertici societari – dopo la nomina dell’Organismo di Vigilanza – promuovano una cultura della trasparenza e della comunicazione interna, al fine di garantire il corretto funzionamento del sistema di prevenzione dei rischi previsto dal D.lgs. 231/2001.

Segnalazioni e whistleblowing: dalla nomina dell’Organismo di Vigilanza alle attività operative

La sola nomina dell’Organismo di Vigilanza può non essere sufficiente ad assicurare l’emersione di condotte illecite all’interno della società. La possibilità di segnalare violazioni del modello 231 e di eventuali condotte illecite costituisce un pilastro della corporate compliance e rappresenta un elemento imprescindibile per garantire l’effettività del controllo esercitato dall’OdV.

Il D.lgs. 231/2001, integrato dalle disposizioni del D.lgs. 24/2023 in attuazione della Direttiva (UE) 2019/1937, ha rafforzato il ruolo del whistleblowing, introducendo specifiche disposizioni a tutela dei segnalanti. La normativa impone agli enti di adottare canali di segnalazione riservati e sicuri, in grado di garantire la riservatezza dell’identità del whistleblower, nonché di predisporre misure di protezione nei confronti di chi denuncia condotte illecite, al fine di evitare ritorsioni o discriminazioni.

Nell’ambito della nomina dell’Organismo di Vigilanza, risulta quindi essenziale disciplinare in modo chiaro i flussi informativi relativi alle segnalazioni, definendo procedure interne che consentano di ricevere, analizzare e gestire le comunicazioni pervenute.

L’OdV deve essere in grado di valutare le segnalazioni con piena autonomia e indipendenza, adottando le misure necessarie per approfondire le anomalie riscontrate ed eventualmente attivare i meccanismi sanzionatori previsti dal modello.

Le aziende devono istituire canali di segnalazione adeguati, che possano includere piattaforme digitali protette, indirizzi e-mail riservati, cassette postali fisiche o altre modalità che garantiscano l’anonimato del segnalante. La nomina dell’Organismo di Vigilanza prevede che l’OdV abbia accesso diretto a queste segnalazioni, senza interferenze da parte della direzione aziendale, e che possa gestirle con criteri di trasparenza, imparzialità e riservatezza.

Si dovrebbe prevedere un sistema di verifica e monitoraggio delle segnalazioni ricevute, in modo da poter tracciare le attività di indagine svolte e le eventuali azioni correttive adottate. La registrazione e l’archiviazione delle segnalazioni devono avvenire nel rispetto della normativa sulla protezione dei dati personali, garantendo che le informazioni siano trattate con il massimo livello di riservatezza e che i principi di proporzionalità e necessità siano rispettati in ogni fase della gestione delle segnalazioni.

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Modello organizzativo 231: struttura, contenuto e allegati. Come si elabora un modello efficace?

Modello organizzativo 231: struttura, contenuto e allegati. Come si elabora un modello efficace?

Il Modello organizzativo 231 è lo strumento cardine per le imprese che vogliano conformarsi alla disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti, prevista dal D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Come noto, tale normativa prevede una responsabilità diretta delle persone giuridiche per determinati reati commessi, nell’interesse o a vantaggio dell’ente, da soggetti in posizione apicale o sottoposti alla loro direzione e vigilanza. L’adozione di un Modello organizzativo 231 idoneo consente all’impresa di prevenire tali reati e di escludere (o, in certi casi, attenuare) la propria responsabilità. Abbiamo trattato dell’argomento anche in precedenti articoli, con focus specifico su alcune categorie di reati e sulla compliance per enti di ridotte dimensioni o in fase di start-up.

Con questo articolo intendiamo fornire ai lettori una guida sui principi normativi, la struttura del modello, i reati presupposto, le fasi di elaborazione e gli allegati fondamentali per la costruzione di un sistema di gestione della compliance conforme al D.lgs. 231/2001.

Il Decreto 231 si inserisce in un più ampio quadro normativo volto a rafforzare la legalità e la trasparenza nelle attività economiche, recependo obblighi derivanti da convenzioni internazionali, tra cui la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione e la Convenzione di Bruxelles sulla tutela degli interessi finanziari della Comunità Europea. L’obiettivo del legislatore non è solo repressivo, ma fortemente preventivo, imponendo alle imprese l’adozione di un sistema di regole e procedure interne per ridurre il rischio di commissione di reati.

Un Modello organizzativo 231 adeguato e ben strutturato consente all’ente di dimostrare la propria estraneità alla condotta illecita, a condizione che siano rispettati alcuni requisiti fondamentali, tra cui:

  • la mappatura delle attività a rischio reato, identificando le aree aziendali più esposte;
  • l’adozione di protocolli interni per regolamentare i processi decisionali e di gestione;
  • la predisposizione di un sistema disciplinare che sanzioni eventuali violazioni del modello;
  • l’istituzione di un Organismo di Vigilanza (OdV) indipendente, con poteri di iniziativa e controllo;
  • l’implementazione di un sistema di formazione e comunicazione volto a diffondere la cultura della compliance aziendale.

La mancata adozione di un Modello organizzativo 231, ove si verifichi la commissione di un reato presupposto, può comportare per l’ente l’applicazione di sanzioni pecuniarie, interdittive, la confisca dei beni e persino la pubblicazione della sentenza di condanna. Risulta, pertanto, imprescindibile che le imprese adottino un Modello organizzativo 231 idoneo ed efficace, personalizzato in base alla propria struttura e alle proprie attività.

Modello organizzativo 231 e esonero da responsabilità

Il Modello organizzativo 231 trova la sua principale ragion d’essere nella prevenzione dei reati che possono determinare la responsabilità amministrativa dell’ente. Il legislatore, attraverso il D.lgs. 231/2001, ha progressivamente ampliato l’elenco dei reati presupposto, includendo fattispecie sempre più eterogenee che spaziano dai delitti contro la pubblica amministrazione, ai reati societari, ai delitti ambientali e tributari, fino alle più recenti incriminazioni in materia di cybercrime e riciclaggio.

Il decreto non si limita ad introdurre e disciplinare il regime di responsabilità a carico delle persone giuridiche ed il relativo apparato sanzionatorio, ma consente alle stesse di esserne esentate nel caso in cui provino:

  • di aver adottato ed attuato in modo efficace un modello organizzativo 231, idoneo a prevenire il reato della specie di quello commesso;
  • di aver affidato il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza del modello, sul suo aggiornamento ad un organismo dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo (Organismo di Vigilanza);
  • che il reato è stato commesso eludendo fraudolentemente il modello di organizzazione e gestione
  • che non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’Organismo di Vigilanza.

Nucleo della disciplina, pertanto, è proprio la predisposizione e l’attuazione di detto modello, finalizzato ad impedire la commissione di certi reati nell’ambito dell’impresa da cui può dipendere la responsabilità dell’ente, il cui accertamento è demandato alla competenza del giudice penale.

In altre parole, la responsabilità per illeciti amministrativi dipendenti da reato viene quindi imputata all’ente in presenza delle seguenti condizioni:

  1. commissione dei reati presupposto nell’interesse o a vantaggio dell’ente (anche se non esclusivo). La valutazione dell’interesse va compiuta ex ante, mentre la sussistenza di un vantaggio concreto va accertata ex post;
  2. mancata adozione, prima della commissione del reato, da parte dell’ente di un adeguato ed efficace modello di organizzazione finalizzato a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi, ovvero mancata attuazione dello stesso ove esistente;
  3. mancata istituzione dell’organismo di vigilanza (OdV) e omessa o insufficiente vigilanza, da parte dello stesso, sul funzionamento e l’osservanza del modello organizzativo e sui comportamenti dei dipendenti.

Struttura e contenuti del Modello organizzativo 231

Il Modello organizzativo 231 è un sistema strutturato di misure, procedure e controlli volto a prevenire la commissione dei reati presupposto previsti dal D.lgs. 231/2001. La sua efficacia dipende dalla corretta implementazione e personalizzazione in base alle caratteristiche specifiche dell’ente.

La struttura del modello, secondo le best practices di settore, si articola in due sezioni principali:

Parte Generale: definisce i principi fondamentali, le finalità del modello e il funzionamento degli strumenti di prevenzione e controllo;

Parte Speciale: disciplina in modo dettagliato i protocolli operativi relativi alle attività aziendali esposte a rischio reato.

Nella Parte Generale, vengono delineati gli elementi essenziali del Modello organizzativo 231, tra cui:

  • Mappatura delle attività a rischio: l’ente deve identificare le aree aziendali esposte al rischio di commissione di reati, adottando strumenti di analisi per valutare i processi interni.
  • Principi e protocolli di prevenzione: devono essere predisposte regole generali volte a ridurre il rischio di illeciti, improntando quali sono i processi decisionali e le attività operative a rischio reato.
  • Sistema disciplinare: è necessario introdurre sanzioni nei confronti di chi non rispetta le misure previste dal modello, garantendo un’effettiva deterrenza.
  • Ruolo dell’Organismo di Vigilanza (OdV): il modello deve prevedere un OdV autonomo e indipendente, con il compito di monitorare l’effettiva applicazione delle misure preventive e proporne l’aggiornamento.

La Parte Speciale del Modello organizzativo 231 è dedicata alla regolamentazione delle singole aree aziendali a rischio e alla predisposizione di procedure operative specifiche. Essa include:

  • l’analisi dettagliata dei processi presidiati in base ai reati presupposto rilevanti per l’ente;
  • l’individuazione dei protocolli operativi e delle misure di controllo per ciascun processo aziendale esposto al rischio di illecito;
  • Le modalità di segnalazione delle violazioni e le misure di intervento in caso di non conformità.

L’efficacia del Modello organizzativo 231 dipende dalla sua concreta attuazione e dal monitoraggio continuo da parte dell’ente. Un modello formalmente corretto, ma non applicato in modo effettivo, non ha alcun valore ai fini dell’esonero da responsabilità. Pertanto, la formazione del personale, la diffusione delle procedure e l’attività di controllo dell’OdV risultano essenziali per garantirne la validità e l’aggiornamento costante.

Le fasi di elaborazione del Modello organizzativo 231

L’elaborazione di un Modello organizzativo 231 efficace richiede un processo strutturato e metodologico che garantisca la sua adeguatezza rispetto alle specificità dell’ente. Tale processo – come suggerito dallo standard comunemente osservato – si articola in diverse fasi, ciascuna delle quali è funzionale alla creazione di un sistema di prevenzione realmente efficace.

La prima fase consiste nell’analisi del contesto aziendale, attraverso un’indagine approfondita delle attività svolte dall’ente, della sua struttura organizzativa e dei processi operativi. Questo passaggio è essenziale per comprendere le dinamiche decisionali interne e individuare le aree potenzialmente esposte al rischio di commissione di reati presupposto.

Successivamente, si procede – in via preliminare rispetto alla concreta elaborazione del modello organizzativo 231 – con la mappatura delle attività a rischio (risk assessment), che consente di identificare le funzioni aziendali maggiormente vulnerabili e di delineare gli scenari in cui potrebbero verificarsi condotte illecite. Tale analisi deve essere condotta con un approccio sistematico e basato su criteri oggettivi, al fine di individuare le criticità e predisporre misure preventive adeguate.

L’ente deve quindi definire una serie di protocolli e procedure interne volte a regolamentare i processi decisionali e operativi (risk management), in modo da ridurre al minimo la possibilità che vengano commessi reati. Questi protocolli devono essere costruiti in modo tale da garantire la tracciabilità delle operazioni, il controllo incrociato delle decisioni e l’individuazione di eventuali anomalie.

Un ulteriore passaggio fondamentale è la nomina dell’Organismo di Vigilanza (OdV), organo indipendente deputato al controllo sull’effettiva applicazione del modello e sul rispetto delle misure di prevenzione adottate. L’OdV deve essere dotato di autonomia e poteri di iniziativa e controllo, affinché possa esercitare le proprie funzioni in modo efficace e imparziale. La definizione di flussi informativi obbligatori nei confronti dell’OdV è altresì cruciale, poiché consente all’organo di monitorare le attività sensibili e di intervenire tempestivamente in caso di irregolarità.

L’implementazione del Modello organizzativo 231 non si esaurisce con la sua adozione formale, ma richiede un’attività costante di formazione e sensibilizzazione del personale. Tutti i soggetti coinvolti nei processi aziendali devono essere adeguatamente informati sui principi del modello e sulle relative misure di prevenzione, affinché ne comprendano l’importanza e ne rispettino le prescrizioni. La formazione deve essere continua e adattata alle esigenze dell’ente, prevedendo sessioni periodiche di aggiornamento in funzione dell’evoluzione normativa e organizzativa.

Infine, per garantire l’idoneità del modello, è necessario un monitoraggio costante e un processo di revisione periodica. L’ente deve prevedere meccanismi di verifica e audit finalizzati a valutare l’effettiva applicazione del modello e la sua capacità di prevenire i reati. L’efficacia del Modello organizzativo 231 dipende dunque dalla sua capacità di adattarsi alle dinamiche aziendali e di rispondere in modo tempestivo alle nuove sfide in materia di compliance e gestione del rischio penale.

Focus sulla mappatura dei rischi nel Modello organizzativo 231

L’identificazione dei reati rilevanti per ciascun ente dipende dalla natura delle sue attività e dal contesto operativo in cui esso si inserisce, rendendo indispensabile un’analisi approfondita delle aree di rischio.
La costruzione di un Modello organizzativo 231 efficace presuppone la preliminare individuazione delle attività aziendali potenzialmente esposte al rischio di commissione dei reati presupposto. La cosiddetta mappatura dei rischi rappresenta un passaggio imprescindibile nella predisposizione del modello, poiché consente di definire con precisione le aree operative maggiormente vulnerabili e di calibrare le misure di prevenzione in modo mirato ed efficace.

Tale analisi deve essere condotta con un approccio metodologico rigoroso, attraverso un’indagine dettagliata dei processi interni e delle dinamiche decisionali che caratterizzano l’attività dell’ente.

L’individuazione delle attività sensibili implica uno studio approfondito della struttura aziendale, delle relazioni con terzi, della gestione delle risorse finanziarie e dei rapporti con la pubblica amministrazione.

È necessario esaminare il sistema dei poteri e delle deleghe, le procedure di controllo interno e i protocolli operativi esistenti, al fine di individuare eventuali vulnerabilità che potrebbero agevolare la commissione di reati. La mappatura deve essere aggiornata periodicamente, tenendo conto delle evoluzioni normative e organizzative, nonché dell’emergere di nuove tipologie di rischio connesse ai mutamenti del contesto economico e regolatorio.
Un’adeguata attività di risk assessment costituisce il presupposto essenziale per la definizione delle misure di prevenzione e per l’efficacia complessiva del modello. La mera predisposizione di un documento formale, privo di un’effettiva analisi delle criticità aziendali, non è sufficiente ad escludere la responsabilità dell’ente in sede giudiziaria.

Affinché il modello possa essere ritenuto idoneo a prevenire la commissione dei reati, è indispensabile che la mappatura dei rischi sia integrata da un sistema di controlli interni coerente e proporzionato rispetto alle specificità dell’ente.

Allegati del Modello organizzativo 231: quali documenti sono fondamentali?

L’efficacia del Modello organizzativo 231 dipende non solo dalla corretta strutturazione della sua parte generale e speciale, ma dal corredo degli allegati che valgono a dimostrare che l’ente ha correttamente svolto le attività di risk-assessment e risk-management. Gli allegati completano il quadro per l’applicazione concreta del modello e agevolano il compiti dell’Organismo di Vigilanza (OdV).

Uno degli allegati principali è l’elenco dei reati presupposto, che riporta tutte le fattispecie di reato che possono determinare la responsabilità dell’ente ai sensi del D.lgs. 231/2001. Questo documento deve essere costantemente aggiornato alla luce delle modifiche normative e delle nuove disposizioni legislative, in modo da garantire che il modello sia sempre conforme alla normativa vigente.

Un altro documento essenziale è la mappatura delle attività a rischio, che individua le aree aziendali potenzialmente esposte alla commissione di reati e ne analizza le vulnerabilità. La mappatura consente di stabilire le misure di prevenzione più adeguate e di implementare controlli efficaci per minimizzare il rischio, contenuti nella parte speciale. Essa deve essere redatta con criteri metodologici rigorosi e basarsi su un’analisi dettagliata dei processi aziendali, tenendo conto della struttura organizzativa dell’ente e delle sue dinamiche operative.

Non di minore importanza è il Codice etico e di comportamento, che definisce i valori e i principi fondamentali ai quali l’ente e i suoi collaboratori devono attenersi nello svolgimento delle attività aziendali. Il codice etico costituisce il riferimento primario per la costruzione della cultura aziendale in materia di compliance e legalità, fornendo indicazioni chiare sui comportamenti da adottare e sulle condotte da evitare per prevenire illeciti e situazioni di rischio.

Last but not least, il sistema disciplinare che prevede le misure sanzionatorie applicabili in caso di violazione delle disposizioni del modello. Il sistema disciplinare deve essere strutturato in modo da garantire un’efficace deterrenza e deve prevedere sanzioni proporzionate alla gravità delle infrazioni commesse. Esso deve inoltre essere coerente con la normativa giuslavoristica e con il contratto collettivo applicato dall’ente, al fine di assicurarne la legittimità e l’effettiva applicabilità.

Al sistema disciplinare fa spesso da pendant la procedura di whistleblowing, strumento essenziale per garantire la segnalazione di condotte illecite o irregolarità all’interno dell’ente. Tale procedura consente ai dipendenti e ai collaboratori di segnalare, in modo riservato e protetto, eventuali violazioni del modello o della normativa, senza il timore di subire ritorsioni.

La gestione delle segnalazioni deve essere conforme alla normativa vigente e prevedere meccanismi che assicurino l’anonimato del segnalante, nonché un sistema di verifica e gestione delle segnalazioni da parte dell’Organismo di Vigilanza (OdV). L’inserimento di una procedura di whistleblowing tra gli allegati del modello organizzativo 231 rafforza il sistema di controllo interno, incentivando la cultura della compliance e contribuendo alla tempestiva individuazione di comportamenti a rischio.

L’insieme degli allegati costituisce dunque un complemento essenziale al modello e ne determina l’efficacia pratica. La loro corretta predisposizione e il loro costante aggiornamento consentono di rafforzare il sistema di prevenzione del rischio penale e di dimostrare, in caso di contestazioni, che l’ente ha adottato tutte le misure necessarie per prevenire la commissione di reati nell’ambito della propria attività.

La nostra esperienza al tuo servizio per elaborare un Modello organizzativo 231 efficace

L’adozione di un Modello organizzativo 231 non rappresenta un mero adempimento formale, ma costituisce uno strumento strategico per la tutela dell’ente e per il rafforzamento della sua governance. La predisposizione di un modello adeguato ed efficace consente di ridurre significativamente il rischio di commissione di reati, garantendo un sistema di prevenzione, controllo e responsabilizzazione interna.

Affinché il modello assolva alla sua funzione esimente, è indispensabile che venga attuato in modo concreto e costante, evitando che si riduca a una documentazione priva di applicazione pratica. La sua efficacia dipende dall’integrazione con le attività aziendali, dalla formazione del personale e dall’attività di verifica e aggiornamento da parte dell’Organismo di Vigilanza (OdV).

In un contesto normativo in continua evoluzione, adottare e aggiornare un Modello organizzativo 231 risulta essenziale per le imprese che intendono operare in conformità alla legge e proteggere il proprio assetto organizzativo.

Per questo motivo, è consigliabile affidarsi ad avvocati specialisti in diritto penale ed esperti in diritto d’impresa e compliance, in grado di garantire un’implementazione personalizzata ed efficace del modello. Siamo a vostra disposizione per un confronto sulle strategie di compliance aziendale.

 

Consulenza legale per la responsabilità degli enti secondo il D.Lgs. 231/2001. Modello organizzativo e gestione del rischio per aziende.

Responsabilità amministrativa degli enti e D.Lgs. 231/2001. Lo Studio Legale D’Agostino offre supporto alle aziende per adottare un modello organizzativo 231 idoneo e supportare l’Organismo di Vigilanza.

Sospensione condizionale della pena ed estinzione del reato (art. 167 c.p. e 676 c.p.p.): il ruolo dell’avvocato nell’esecuzione penale

Sospensione condizionale della pena ed estinzione del reato (art. 167 c.p. e 676 c.p.p.): il ruolo dell’avvocato nell’esecuzione penale

La sospensione condizionale della pena è un istituto assai rilevante nella prassi processuale, concepito per perseguire un obiettivo di proporzionalità e adeguatezza in concreto della risposta punitiva dello Stato. Questo istituto, disciplinato principalmente dagli artt. 163 e seguenti del Codice Penale, si configura come un beneficio per il condannato. In questo articolo, afferente alla rubrica sull‘esecuzione penale, saranno esaminati brevemente i profili processuali e sostanziali dell’istituto.

Il giudice, ricorrendo determinati presupposti, potrà sospendere l’esecuzione di una pena detentiva o pecuniaria, a condizione che il condannato rispetti determinati requisiti e obblighi previsti dalla legge. Tale sospensione non elimina la condanna, ma ne differisce gli effetti, subordinandoli alla condotta futura del condannato.

L’essenza della sospensione condizionale risiede dunque nella valutazione prognostica che il giudice è chiamato a compiere al momento della sentenza. La concessione del beneficio presuppone che il soggetto condannato sia considerato meritevole di un’opportunità per dimostrare il proprio ravvedimento, evitando così l’applicazione concreta della pena. In tal senso, l’istituto rappresenta un punto di equilibrio tra la funzione retributiva e quella rieducativa della pena, ponendosi come strumento utile per prevenire la recidiva e favorire il reinserimento sociale.

Per garantire un’applicazione rigorosa e conforme ai principi di giustizia, la sospensione condizionale della pena può essere concessa solo in presenza di specifici requisiti, sia oggettivi che soggettivi. Essa si applica, infatti, a pene non superiori a determinati limiti temporali stabiliti dalla legge e richiede che il condannato non abbia già beneficiato in passato dello stesso istituto, salvo particolari eccezioni.

La misura, dunque, non costituisce un diritto automatico per il condannato, ma una facoltà discrezionale attribuita al giudice, il quale deve valutare caso per caso l’idoneità della sospensione a realizzare le finalità di rieducazione e prevenzione previste dall’ordinamento.

Sospensione condizionale della pena: requisiti e condizioni

La sospensione condizionale della pena, disciplinata dall’art. 163 del Codice Penale, può essere concessa esclusivamente in presenza di requisiti specifici, sia oggettivi che soggettivi, il cui accertamento è demandato al giudice al momento della sentenza.

In primo luogo, la pena inflitta non deve superare determinati limiti temporali, che variano in base alla natura del reato e alle caratteristiche del soggetto condannato. Per le pene detentive, il limite massimo è fissato generalmente a due anni; tuttavia, per i minori di diciotto anni o per i soggetti di età compresa tra i diciotto e i ventuno anni, il limite è elevato a tre anni, come previsto dal secondo comma dell’art. 163 c.p. Analogamente, per gli ultrasettantenni, la sospensione può essere applicata per pene detentive non superiori a due anni e sei mesi.

Oltre ai limiti di pena, la concessione della sospensione condizionale richiede che il condannato non abbia beneficiato dello stesso istituto in precedenza. La legge, infatti, consente una seconda sospensione soltanto qualora la pena da infliggere, cumulata con quella irrogata con la precedente condanna anche per delitto, non superi i limiti stabiliti dall’articolo 163.

In ogni caso, il giudice deve valutare la gravità del reato, l’indole del condannato e le circostanze che caratterizzano il fatto, al fine di determinare se il beneficio possa favorire un’effettiva reintegrazione sociale del soggetto.

Nell’applicazione della sospensione condizionale è fondamentale chiarire la durata del periodo di prova, durante il quale il condannato dovrà astenersi dal commettere nuovi reati e rispettare gli eventuali obblighi imposti dal giudice. Tale periodo, fissato in cinque anni per i delitti e in due anni per le contravvenzioni, costituisce un banco di prova per il condannato, il cui comportamento durante questo lasso di tempo è determinante ai fini dell’estinzione del reato ai sensi dell’art. 167 c.p. In caso di violazione delle condizioni imposte o di commissione di nuovi reati, la sospensione viene revocata e la pena diventa esecutiva.

Obblighi connessi alla sospensione condizionale della pena

La sospensione condizionale della pena, oltre a essere subordinata alla sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 163 c.p., può comportare specifici obblighi per il condannato, delineati nell’art. 165 c.p. Questi obblighi sono finalizzati a garantire che il beneficio non si traduca in una mera sospensione della pena, ma in un percorso che favorisca la riparazione del danno causato e il reinserimento sociale del condannato.

Il giudice, nell’esercizio del proprio potere discrezionale, potrà subordinare la concessione della sospensione condizionale all’adempimento di determinati obblighi. Tra questi rientrano il pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno o di una somma provvisoriamente assegnata, nonché l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato.

In aggiunta, il condannato può essere chiamato a prestare un’attività non retribuita a favore della collettività, a condizione che tale obbligo non superi la durata della pena sospesa e che il condannato vi acconsenta espressamente.

L’art. 165 c.p. prevede inoltre che, nel caso in cui il condannato abbia già beneficiato di una sospensione condizionale precedente, la concessione di un ulteriore beneficio sia obbligatoriamente subordinata all’adempimento di uno degli obblighi sopra descritti. Questa previsione mira a rafforzare il carattere rieducativo della misura, assicurando che il condannato si impegni concretamente per attenuare le conseguenze del reato.

Il termine per l’adempimento degli obblighi è stabilito dal giudice nella sentenza, ed è fondamentale che il condannato li rispetti nei tempi indicati. Il mancato rispetto degli obblighi imposti comporta infatti la revoca della sospensione condizionale, come previsto dall’art. 168 c.p., con la conseguente esecuzione della pena sospesa.

Effetti e revoca della sospensione condizionale della pena

La sospensione condizionale della pena, come sancito dall’art. 166 c.p., si estende alle pene accessorie, salvo i casi in cui il giudice (per determinati reati) disponga diversamente. Ciò garantisce al condannato la possibilità di non subire ulteriori conseguenze negative derivanti dalla condanna, favorendo il suo reinserimento nella società.

Tuttavia, gli effetti benefici della sospensione condizionale possono venir meno nel caso in cui il condannato non rispetti le condizioni imposte. Ai sensi dell’art. 168 c.p., la sospensione è revocata di diritto qualora, durante il periodo di prova, il condannato commetta un delitto o una contravvenzione della stessa indole per cui venga inflitta una pena detentiva, o qualora non adempia agli obblighi stabiliti dal giudice. La revoca si applica anche nel caso in cui il condannato riporti una condanna per un delitto commesso anteriormente, qualora la pena cumulata superi i limiti previsti dall’art. 163 c.p.

È inoltre prevista la possibilità di una revoca discrezionale da parte del giudice, qualora la nuova condanna per un delitto anteriormente commesso non superi i limiti di pena stabiliti dalla legge, ma la gravità del reato o le circostanze facciano ritenere che il condannato non sia più meritevole del beneficio.

L’estinzione del reato dopo la sospensione condizionale della pena

Uno degli aspetti più significativi della sospensione condizionale della pena è la possibilità, al termine del periodo di prova, di ottenere l’estinzione del reato. Questo beneficio è disciplinato dall’art. 167 c.p., che sancisce l’estinzione del reato qualora il condannato, nei termini previsti, non commetta nuovi delitti o contravvenzioni della stessa indole e adempia agli obblighi imposti dal giudice nella sentenza.

Ad ogni modo, l’effetto estintivo dovrà essere dichiarato dal giudice dell’esecuzione, previo accertamento di tutti i presupposti di legge. Invero, una volta decorso il termine del periodo di prova, occorre una dichiarazione formale di estinzione del reato ai sensi dell’art. 676 c.p.p. Tale giudice, su istanza del condannato redatta per il tramite di un avvocato, verifica il rispetto delle condizioni previste e, in caso di esito positivo, emette un’ordinanza che attesta l’estinzione del reato.

Come presentare l’istanza di estinzione del reato dopo la sospensione condizionale

La procedura per ottenere la dichiarazione formale di estinzione del reato a seguito della sospensione condizionale della pena è disciplinata dall’art. 676 del Codice di Procedura Penale. Una volta decorso il periodo di prova, spetta al giudice dell’esecuzione il compito di accertare il rispetto delle condizioni previste dalla legge e di dichiarare, tramite apposita ordinanza, l’estinzione del reato. Questo passaggio, pur essendo di carattere prevalentemente formale, è fondamentale per il condannato.

Per avviare la procedura, il reo – generalmente tramite il proprio difensore – deve presentare un’apposita istanza al giudice dell’esecuzione competente. L’istanza deve contenere tutti i riferimenti necessari per identificare il procedimento penale di condanna, come il numero di registro generale e il numero di sentenza, e deve essere corredata dai documenti che dimostrano il rispetto delle condizioni previste.

Tra questi rientrano il certificato del casellario giudiziale, da cui deve risultare l’assenza di nuovi reati commessi durante il periodo di prova, e la documentazione che attesti l’adempimento degli obblighi imposti dal giudice ai sensi dell’art. 165 c.p.

Una volta ricevuta l’istanza, il giudice dell’esecuzione procede senza formalità e, sulla base degli atti, emette un’ordinanza che dichiara l’estinzione del reato, purché siano soddisfatte tutte le condizioni richieste. Ai sensi dell’art. 667, comma 4, c.p.p., l’ordinanza deve essere comunicata al pubblico ministero e notificata al condannato e al suo difensore. Contro tale provvedimento è possibile proporre opposizione entro quindici giorni, ma solo nel caso in cui vi siano contestazioni sulla sussistenza dei presupposti per l’estinzione.

È importante sottolineare che l’istanza deve essere presentata al più presto e corredata di tutta la documentazione necessaria, poiché eventuali lacune potrebbero ritardare il riconoscimento dell’estinzione del reato.

Per questo motivo, il supporto di un legale esperto è essenziale, sia per assicurare il corretto adempimento degli obblighi durante il periodo di prova, sia per curare con precisione la fase finale del procedimento esecutivo.

Sospensione condizionale ed estinzione del reato: perché rivolgersi a un avvocato penalista

L’estinzione del reato, conseguente al decorso positivo del termine di sospensione, sancisce l’esito del processo “riabilitativo” del condannato. Questo risultato, però, non è automatico: richiede una condotta rigorosamente conforme alle prescrizioni di legge e un’attenta gestione delle formalità necessarie per ottenere la dichiarazione di estinzione. In questo senso, l’ordinanza del giudice dell’esecuzione rappresenta l’atto conclusivo di un percorso che valorizza la condotta del reo conforme alle prescrizioni impartite.

La corretta applicazione della sospensione condizionale della pena e la conseguente estinzione del reato necessitano di una conoscenza approfondita delle norme e di una gestione accurata dei passaggi processuali. Il supporto di un avvocato esperto è essenziale per garantire il rispetto delle condizioni imposte dal giudice e per assistere il condannato nelle fasi conclusive del procedimento esecutivo, assicurando così che i diritti e le opportunità offerte da questo istituto siano pienamente tutelati.

Per ulteriori informazioni o per ricevere assistenza specifica in materia, non esitate a contattare il nostro Studio Legale.

 

Immagine di una prigione moderna con un documento su cui è scritto 'Post-Conviction Relief', rappresentante l'assistenza legale nell'esecuzione penale, condanna, appello e annullamento della condanna.

Esecuzione penale, assistenza legale negli incidenti di esecuzione – Studio Legale Avvocato Luca D’Agostino a Roma.

Nuovo Codice della Strada 2025: guida in stato di ebbrezza e stupefacenti

Nuovo Codice della Strada 2025: guida in stato di ebbrezza e stupefacenti

La Legge 25 novembre 2024 n. 177 di riforma del Codice della Strada segna un cambiamento significativo nell’ambito della circolazione stradale, introducendo nuove disposizioni in materia di sicurezza e responsabilità degli utenti della strada. Questo intervento legislativo, entrato in vigore il 14 dicembre 2024, mira a rafforzare il sistema sanzionatorio e a promuovere un approccio più rigoroso alla prevenzione degli incidenti stradali.

Tuttavia, tale riforma del Codice della Strada ha già suscitato ampie discussioni, lasciando adito a molti dubbi sia sul piano applicativo che su quello sostanziale. Secondo alcuni, le nuove disposizioni presentano profili di eccessivo rigore. Sebbene l’obiettivo dichiarato sia quello di incrementare la sicurezza sulle strade, non manca chi ritiene che alcune delle novità possano risultare sproporzionate rispetto alle situazioni che intendono disciplinare.

L’intero impianto normativo si fonda su un concetto chiave: incrementare il livello di sicurezza sulle strade italiane mediante strumenti più efficaci e sanzioni più incisive. In particolare, le modifiche al Codice della Strada intervengono su una vasta gamma di aspetti, che spaziano dalla guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, alle nuove regole per i neopatentati, fino a discipline specifiche per la micromobilità e l’utilizzo dei monopattini elettrici.

In questo articolo ci proponiamo di offrire una panoramica ragionata delle principali novità che riguardano la guida in stato d’ebbrezza e/o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.

Codice della Strada e guida in stato di ebbrezza: obblighi, dispositivi e sanzioni

La Legge 25 novembre 2024 n. 177 di riforma del Codice della Strada ha inasprito le misure volte a contrastare la guida in stato di ebbrezza e il consumo di sostanze stupefacenti da parte dei conducenti.
Una delle misure più significative è l’introduzione obbligatoria del dispositivo alcolock, che impedisce l’accensione del veicolo qualora il conducente presenti un tasso alcolemico superiore allo zero. Questo dispositivo, già ampiamente utilizzato in altri ordinamenti europei, viene ora prescritto anche dal Codice della Strada italiano per i conducenti recidivi, ossia coloro che sono stati condannati per guida in stato di ebbrezza.

L’obbligatorietà dell’alcolock si accompagna all’inserimento di codici unionali sulla patente di guida, come il “Codice 68” (divieto di consumo di alcol) e il “Codice 69” (obbligo di guida di veicoli dotati di alcolock). Tali prescrizioni restano valide per un minimo di due anni nei casi meno gravi e di tre anni per le infrazioni più gravi, salvo indicazioni diverse della commissione medica.

La mancata osservanza di queste disposizioni comporta sanzioni molto severe. Le pene previste per i reati di guida in stato di ebbrezza sono aumentate di un terzo per i conducenti obbligati all’uso dell’alcolock e raddoppiate in caso di manomissione o rimozione del dispositivo. Il Codice della Strada prevede, inoltre, la revisione della patente in tutti i casi di manomissione, a conferma della volontà del legislatore di adottare un approccio zero-tolerance nei confronti di tali comportamenti. La revisione è disposta dal Prefetto ai sensi dell’articolo 128, con l’obiettivo di garantire l’adeguamento delle patenti alle prescrizioni imposte.

In generale, resta invariata la classificazione delle violazioni in base al tasso alcolemico rilevato, articolata in tre fasce: da 0,5 a 0,8 g/l, da 0,8 a 1,5 g/l, e oltre 1,5 g/l. Tuttavia, la riforma del Codice della Strada ha aumentato le sanzioni pecuniarie e accessorie previste per ciascuna fascia, aggiungendo un ulteriore aggravio per i conducenti obbligati all’alcolock. Le multe sono aumentate di un terzo per chi è soggetto a tale obbligo, mentre il mancato rispetto delle prescrizioni o la manomissione del dispositivo comportano un raddoppio delle sanzioni e l’immediata revisione della patente ai sensi dell’articolo 128 del Codice della Strada.

Un altro elemento di continuità riguarda l’obbligo di sottoporsi agli accertamenti etilometrici in caso di sospetto da parte degli organi di polizia. La riforma non ha modificato le modalità operative dei controlli, che continuano a prevedere l’utilizzo di strumenti certificati per la rilevazione del tasso alcolemico. Restano invariate anche le conseguenze per il rifiuto di sottoporsi al test, assimilata quoad poneam alla guida con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l (art. 186, comma 7, Codice della Strada).

Permane l’obbligo per i conducenti professionali e per i neopatentati di mantenere un tasso alcolemico pari a zero, senza alcuna tolleranza. Questo principio, introdotto nelle precedenti riforme del Codice della Strada, è stato confermato e ulteriormente rafforzato attraverso l’incremento delle sanzioni pecuniarie e delle pene accessorie per le violazioni commesse da queste categorie di conducenti.

Codice della Strada e guida sotto l’effetto di stupefacenti: obblighi e sanzioni

Oltre alle disposizioni relative all’alcol, la riforma introduce cambiamenti significativi per la guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, intervenendo sull’articolo 187 del Codice della Strada. La nuova normativa elimina il riferimento allo “stato di alterazione psicofisica” del conducente, basandosi esclusivamente sulla positività agli accertamenti tossicologici.

Questa modifica, volta a semplificare l’applicazione delle sanzioni, ha suscitato critiche in quanto potrebbe portare a contestazioni fondate su dati meramente oggettivi, senza una valutazione completa dello stato del conducente. La revoca della patente è automatica per chi risulta positivo ai test, senza la necessità di dimostrare un’effettiva compromissione della capacità di guida.

La riforma introduce, inoltre, una procedura dettagliata per gli accertamenti tossicologici, basata sull’utilizzo di tecniche non invasive, come il prelievo di campioni dal cavo orale. Gli esami devono essere effettuati in laboratori certificati, garantendo così la massima affidabilità dei risultati. In caso di esito positivo al test preliminare, gli organi di polizia possono disporre il ritiro immediato della patente, vietando al conducente di continuare a guidare per un periodo massimo di dieci giorni, in attesa dei risultati definitivi.

Non mancano, infine, le misure accessorie. Il Prefetto può disporre la sospensione cautelare della patente e l’obbligo di visita medica entro sessanta giorni. Qualora l’esito della visita confermi l’idoneità alla guida, la validità della patente sarà limitata a un anno, con possibilità di rinnovo per periodi successivi di tre e cinque anni. Nei casi di inidoneità, invece, è prevista la revoca definitiva della patente.

Questa disciplina, pur riconoscendosi come rigorosa e innovativa, solleva interrogativi circa la proporzionalità delle pene e l’efficacia pratica delle misure adottate. Sebbene il legislatore abbia inteso rafforzare la prevenzione, non sono mancati rilievi critici, soprattutto per quanto riguarda l’impatto sulle libertà individuali e la gestione delle contestazioni. Resta da vedere se queste disposizioni contribuiranno effettivamente a una riduzione degli incidenti stradali, come auspicato, o se sarà necessario un ulteriore intervento normativo per correggere eventuali criticità emerse nella fase applicativa.

Codice della Strada e sostanze stupefacenti: accertamenti tossicologici e revoca della patente

La riforma del Codice della Strada introdotta dalla Legge 25 novembre 2024 n. 177 apporta significative modifiche alle disposizioni riguardanti la guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, con particolare riferimento all’articolo 187 Codice della Strada. Come premesso, la nuova normativa si distingue per la semplificazione del quadro sanzionatorio e per l’introduzione di procedure più stringenti e dettagliate volte ad accertare il consumo di tali sostanze da parte dei conducenti. Il legislatore, infatti, ha scelto di eliminare il riferimento allo “stato di alterazione psicofisica”, prevedendo che la positività agli accertamenti tossicologici sia sufficiente per l’applicazione delle sanzioni previste dalla legge.

In particolare, la nuova disciplina introduce una procedura di accertamento articolata in più fasi. Gli organi di polizia stradale possono sottoporre i conducenti a test qualitativi preliminari non invasivi, eseguibili anche tramite apparecchi portatili. Qualora questi test diano esito positivo, o qualora vi siano ragionevoli motivi per ritenere che il conducente abbia assunto sostanze stupefacenti, è previsto il prelievo di campioni dal cavo orale.

Gli esami successivi devono essere condotti esclusivamente in laboratori certificati, conformi agli standard forensi, per garantire la validità e l’affidabilità dei risultati. Questa attenzione alla qualità e alla sicurezza degli accertamenti riflette la necessità di tutelare i diritti del conducente, pur in un contesto di rigore crescente.

La riforma introduce anche un’importante novità in caso di accertamenti positivi. Gli organi di polizia possono disporre il ritiro immediato della patente, che rimarrà sospesa per un massimo di dieci giorni, in attesa degli esiti definitivi degli accertamenti. Durante questo periodo, è vietato condurre veicoli, e il mezzo sarà trasferito a spese del conducente presso una località indicata o un’autorimessa. Qualora non sia possibile completare gli accertamenti, il Prefetto dispone comunque la sospensione cautelare della patente e impone al conducente di sottoporsi a una visita medica entro sessanta giorni.

Le sanzioni previste per la guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti sono severe e comprendono la revoca automatica della patente in caso di esito negativo degli accertamenti medici. In tali circostanze, il conducente non potrà richiedere una nuova patente prima di tre anni. Per i conducenti che risultano idonei alla guida, invece, la patente avrà una validità limitata a un anno, con successive estensioni per periodi di tre o cinque anni.

La disciplina è particolarmente rigorosa per i conducenti minori di ventuno anni, che non potranno conseguire la patente fino al compimento del ventiquattresimo anno di età qualora abbiano commesso reati legati alla guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.

Queste disposizioni, pur rispondendo all’esigenza di garantire maggiore sicurezza sulle strade, sollevano dubbi in merito alla loro rigidità e alla proporzionalità delle sanzioni. In particolare, la possibilità che la sola positività ai test tossicologici sia sufficiente per l’applicazione delle pene pone interrogativi sul rispetto dei principi di tutela delle libertà individuali e di giustizia sostanziale.

Modifiche al codice penale: omicidio e lesioni stradali aggravati dalla guida sotto l’effetto di stupefacenti

Con la Legge 25 novembre 2024 n. 177, il legislatore è intervenuto sul testo degli articoli 589-bis e 590-bis c.p., relativi ai reati di omicidio e lesioni personali stradali, per adeguarli alle modifiche apportate all’articolo 187 del Codice della Strada. Quest’ultimo, infatti, non contiene più alcun riferimento allo stato di “alterazione psicofisica” conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti, eliminando tale requisito per l’applicazione delle sanzioni amministrative.

Nel nuovo quadro normativo, per configurare le aggravanti previste dai commi 2 degli articoli 589-bis e 590-bis c.p., è necessario provare che il conducente fosse in uno stato di alterazione psicofisica effettiva, determinato dall’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope. Questo implica che, a differenza di quanto richiesto per l’applicazione delle sanzioni amministrative, la mera positività agli accertamenti tossicologici non è sufficiente per contestare l’aggravante penale: occorre dimostrare l’effettiva alterazione delle capacità psicofisiche del conducente al momento del sinistro.

Al contrario, per l’applicazione delle sanzioni amministrative, l’accertamento della positività a sostanze stupefacenti è di per sè sufficiente, indipendentemente dall’effettivo stato di alterazione. In definitiva, la dimostrazione del concreto stato di alterazione psicofisica rileva soltanto per la contestazione della circostanza aggravante nei casi di omicidio o lesioni stradali, mentre non è necessaria per l’applicazione delle sanzioni amministrative.

Questa distinzione tra sanzioni amministrative e aggravanti penali mira a bilanciare esigenze preventive e garanzie costituzionali, ma solleva anche diversi dubbi.

Profili di incostituzionalità nella riforma del Codice della Strada

Invero, la Legge 25 novembre 2024 n. 177, che ha riformato il Codice della Strada, ha suscitato un ampio dibattito in dottrina riguardo a possibili profili di incostituzionalità. Le critiche si concentrano su alcune disposizioni che, secondo i detrattori, violano principi costituzionali fondamentali quali l’uguaglianza, la ragionevolezza delle norme, la tutela delle libertà individuali e il diritto al lavoro.

Un primo aspetto riguarda il principio di uguaglianza, sancito dall’articolo 3 della Costituzione. L’imposizione automatica del dispositivo alcolock per i conducenti condannati per guida in stato di ebbrezza non consente di valutare caso per caso la gravità dell’infrazione o le circostanze personali del trasgressore. La rigidità della norma potrebbe comportare un trattamento non proporzionato tra soggetti che, pur trovandosi in situazioni personali differenti, subiscono le medesime sanzioni, in contrasto con il principio di equità.

Altre critiche si concentrano sul principio di ragionevolezza, anch’esso tutelato dall’articolo 3. La revoca automatica della patente per positività ai test tossicologici, senza accertare uno stato di alterazione psicofisica o un’effettiva pericolosità alla guida, introduce una presunzione assoluta che alcuni ritengono eccessiva. La Corte Costituzionale ha in passato ribadito che le sanzioni devono essere proporzionate e collegate a comportamenti concreti, per evitare violazioni del principio di giustizia sostanziale.

La riforma solleva dubbi anche in relazione alla libertà personale, garantita dall’articolo 13 della Costituzione. Sebbene le misure come la revoca della patente o il ritiro immediato non configurino una privazione della libertà in senso stretto, esse incidono significativamente sull’autodeterminazione individuale, soprattutto se applicate in modo automatico senza possibilità di difesa preventiva.

Un ulteriore elemento di criticità riguarda il diritto al lavoro, tutelato dall’articolo 4 della Costituzione. La revoca della patente può avere conseguenze particolarmente gravi per i lavoratori che utilizzano il veicolo come strumento essenziale per la propria attività professionale. L’assenza di deroghe per specifiche categorie di conducenti potrebbe determinare una compressione del diritto al lavoro, con ripercussioni economiche e sociali rilevanti.

Ricordiamo peraltro che la Corte Costituzionale si è recentemente pronunciata (v. sentenza n. 52/2024) dichiarando l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni del Codice della Strada che sancivano automatismi applicativi. Ciò lascia supporre che, anche le novellate disposizioni, si espongono a censure di incostituzionalità.

In conclusione, sebbene la riforma del Codice della Strada miri a rafforzare la sicurezza stradale attraverso misure innovative e severe, essa pone interrogativi sul bilanciamento tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali. Una corretta applicazione delle norme, accompagnata da eventuali interventi correttivi del legislatore o della Corte Costituzionale, potrebbe essere necessaria per evitare tensioni con i principi costituzionali, garantendo così un’efficace protezione degli utenti della strada e il rispetto delle libertà individuali.

Neopatentati e il Codice della Strada: nuove restrizioni e obblighi formativi

La riforma introdotta dalla Legge 25 novembre 2024 n. 177 dedica particolare attenzione alla categoria dei neopatentati, modificando in modo significativo l’articolo 117 del Codice della Strada. L’obiettivo del legislatore è di aumentare la sicurezza stradale attraverso l’imposizione di limitazioni più stringenti e l’introduzione di obblighi formativi che mirano a garantire una maggiore consapevolezza e preparazione dei conducenti più giovani. Queste disposizioni, entrate in vigore il 14 dicembre 2024, rispondono all’esigenza di contrastare la frequenza degli incidenti stradali che coinvolgono conducenti inesperti.

Tra le novità principali, spiccano i nuovi limiti di potenza per i veicoli guidabili dai neopatentati. Per i primi tre anni dal conseguimento della patente di categoria B, è vietata la guida di veicoli con una potenza specifica superiore a 75 kW per tonnellata, salvo alcune eccezioni per i veicoli elettrici o ibridi plug-in, per i quali il limite è fissato a 105 kW. Questa limitazione si pone l’obiettivo di ridurre il rischio di condotte di guida pericolose, evitando che i neopatentati possano mettersi alla guida di mezzi particolarmente potenti o difficili da gestire.

Un altro aspetto innovativo della riforma riguarda l’obbligo di effettuare esercitazioni pratiche specifiche, come previsto dall’articolo 122, comma 5-bis del Codice della Strada. L’aspirante conducente dovrà svolgere esercitazioni su autostrade, strade extraurbane principali e in condizioni di visione notturna. Tali esercitazioni, che dovranno essere certificate da una scuola guida accreditata, costituiscono un prerequisito essenziale per ottenere l’idoneità alla guida. Questa misura mira a preparare i neopatentati a gestire situazioni di traffico complesse e condizioni di guida impegnative, riducendo così il rischio di incidenti.

La riforma introduce anche una maggiore severità nelle sanzioni per i neopatentati che violano le norme del Codice della Strada. In caso di trasgressioni gravi, come il superamento dei limiti di velocità o la guida sotto l’effetto di alcol o sostanze stupefacenti, le pene accessorie, quali la sospensione della patente, risultano aggravate rispetto a quelle previste per i conducenti più esperti. Questa differenziazione, basata sul principio di maggiore responsabilità proporzionale all’esperienza di guida, intende agire come deterrente per comportamenti pericolosi.

Le nuove disposizioni per i neopatentati, pur essendo accolte positivamente per il loro intento di promuovere una guida più sicura, non mancano di suscitare critiche. In particolare, alcuni osservatori hanno evidenziato che l’obbligo di esercitazioni pratiche potrebbe rappresentare un onere economico significativo per le famiglie, penalizzando soprattutto chi dispone di risorse limitate. Inoltre, i limiti di potenza sono stati talvolta considerati troppo restrittivi, limitando la possibilità di scegliere veicoli adeguati alle esigenze quotidiane, come l’utilizzo familiare. Tuttavia, il legislatore sembra aver adottato un approccio prudenziale, valutando prioritario l’interesse collettivo alla sicurezza rispetto a eventuali difficoltà individuali.

Conclusioni: un Codice della Strada più severo, ma con margini di criticità

La Legge 25 novembre 2024 n. 177 di riforma del Codice della Strada, ha inasprito le sanzioni per promuovere una maggiore sicurezza stradale. Con l’introduzione di nuove regole sulla guida in stato di ebbrezza, sugli accertamenti tossicologici, sulle limitazioni per i neopatentati, il legislatore ha inteso adattare la normativa alle esigenze di un sistema in costante evoluzione.

Le modifiche apportate evidenziano un approccio improntato al rigore e alla prevenzione. Si tratta, tuttavia, di una riforma che non va esente da criticità. In particolare, alcune delle nuove disposizioni sono state giudicate da più parti eccessivamente rigide, sollevando dubbi sulla proporzionalità delle sanzioni e sull’impatto sociale di alcune regole. Inoltre, il successo della riforma dipenderà in larga misura dalla capacità di garantire una corretta informazione e sensibilizzazione degli utenti della strada.

In conclusione, il nuovo Codice della Strada segna un passaggio significativo verso una mobilità più sicura e responsabile, ma richiede una riflessione costante per bilanciare rigore e proporzionalità. Gli utenti della strada sono chiamati a un ruolo attivo nel recepire e rispettare le nuove regole, contribuendo così a rendere le strade italiane un luogo più sicuro per tutti.

Per qualsiasi chiarimento o per ricevere assistenza legale sul Codice della Strada o su sinistri, lo Studio Legale D’Agostino è a disposizione per fornire consulenze personalizzate, affiancando gli utenti nella comprensione e nell’applicazione delle normative, tutelando i loro diritti con competenza e professionalità.

 

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Art. 131 bis: particolare tenuità del fatto e ruolo dell’avvocato

Art. 131 bis: particolare tenuità del fatto e ruolo dell’avvocato

La particolare tenuità del fatto, disciplinata dall’art. 131-bis del codice penale, costituisce una causa di non punibilità ispirata ai principi di proporzionalità, offensività e sussidiarietà del diritto penale. Introdotto con il D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, e successivamente riformato dalla Riforma Cartabia (D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150), l’istituto mira a escludere la punibilità di condotte che, pur configurando astrattamente un reato, presentano un grado minimo di offensività.

L’obiettivo principale è deflattivo, essendo volto a razionalizzare il carico giudiziario concentrando l’intervento penale sui casi realmente gravi e meritevoli di sanzione. Tale approccio, ispirato alla concezione gradualistica del reato, si traduce in un’applicazione del diritto penale come extrema ratio.

In questo contesto, il ruolo dell’avvocato è di centrale importanza. Grazie alla sua competenza, l’avvocato può evidenziare, sia al pubblico ministero sia al giudice, gli elementi che dimostrano la particolare tenuità dell’offesa, promuovendo così provvedimenti di archiviazione o di proscioglimento. L’intervento dell’avvocato è essenziale per assicurare che il caso concreto venga analizzato nella sua specificità, valorizzando tutte le circostanze che possono condurre all’applicazione di quest’istituto.

L’obiettivo del presente articolo è fornire una panoramica esaustiva della disciplina relativa alla tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.), analizzandone i principi fondamentali, i presupposti di applicazione e le principali novità introdotte dalla Riforma Cartabia. Inoltre, saranno approfonditi i più rilevanti orientamenti giurisprudenziali e i profili processuali legati all’istituto.

L’intento è quello di evidenziare non solo le peculiarità normative dell’art. 131-bis, ma anche le sue implicazioni pratiche per il difensore, che svolge un ruolo determinante nel garantire una corretta applicazione della norma a tutela degli interessi del proprio assistito.

L’art. 131-bis, nella sua originaria formulazione, prevedeva l’applicabilità della causa di non punibilità ai reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni o con pena pecuniaria, sola o congiunta. La Riforma Cartabia ha ampliato tale ambito di applicazione, spostando l’attenzione sul limite minimo della pena, ora fissato a due anni.

Ulteriore elemento di innovazione è rappresentato dal rilievo attribuito alla condotta susseguente al reato, considerata dal legislatore un ulteriore criterio per la valutazione della tenuità dell’offesa. Questi interventi normativi riflettono una concezione più equilibrata del diritto penale, che valorizza la specificità del caso concreto.

La tenuità del fatto (art. 131-bis): nozione e principi generali

L’istituto della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) è il precipitato di un approccio moderno al diritto penale, che mira a modulare l’intervento repressivo in base alla concreta offensività della condotta. Esso rappresenta una causa di non punibilità che si applica quando, pur essendo integrati gli elementi costitutivi del reato, l’offesa risulta di minima gravità, sia per le modalità della condotta sia per l’esiguità del danno o del pericolo, come previsto dall’art. 133, primo comma, del codice penale.

La particolare tenuità del fatto consente, in sostanza, di escludere la punibilità per condotte che, pur essendo astrattamente rilevanti, non raggiungono una soglia di gravità tale da giustificare l’irrogazione di una pena.

In origine, l’art. 131-bis c.p. limitava l’applicabilità dell’istituto ai reati puniti con una pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, oppure con pena pecuniaria, sola o congiunta. Tuttavia, con la Riforma Cartabia, il legislatore ha rimodulato la portata della norma, introducendo il criterio del minimo edittale. Attualmente, la causa di non punibilità può essere applicata ai reati puniti con una pena detentiva non superiore nel minimo a due anni.

Di particolare rilievo è anche la natura giuridica dell’istituto, su cui si sono a lungo confrontate dottrina e giurisprudenza. Mentre una parte della dottrina lo considerava una condizione dell’azione penale, l’orientamento prevalente ne ha riconosciuto la natura sostanziale, qualificandolo come una vera e propria causa di non punibilità.

Questo inquadramento è stato ribadito dalla giurisprudenza, che ha sottolineato come l’applicazione della norma richieda un accertamento rigoroso sia sulla commissione del fatto sia sulla sussistenza dell’elemento soggettivo.
In questo quadro, il ruolo dell’avvocato emerge come centrale. Egli è chiamato a dimostrare l’insussistenza di comportamenti abituali e a valorizzare gli aspetti della condotta che possano qualificare l’offesa come di particolare tenuità. Attraverso un’analisi dettagliata del caso concreto, il difensore contribuisce a garantire che la norma venga applicata in modo coerente con i principi fondamentali dell’ordinamento, rappresentando un fondamentale baluardo contro l’eccessiva criminalizzazione di fatti di minima rilevanza.

Ambito di applicazione della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis)

L’ambito di applicazione della tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) è stato delineato dal legislatore tenendo conto sia della tipologia dei reati sia delle circostanze che possono escludere la configurabilità della causa di non punibilità.

La valutazione circa la particolare tenuità del fatto è rimessa al potere discrezionale del giudice, che deve verificare, in relazione al caso concreto, se le modalità della condotta e l’entità del danno o del pericolo siano tali da rendere l’offesa particolarmente tenue. Questo giudizio richiede un esame attento delle modalità esecutive del fatto, come il luogo, il tempo e i mezzi impiegati, nonché il grado della colpevolezza. Tuttavia, la norma esclude l’applicabilità dell’istituto in presenza di condotte particolarmente gravi, come quelle caratterizzate da crudeltà, sevizie o approfittamento di condizioni di minorata difesa della vittima.

L’istituto della particolare tenuità del fatto trova applicazione non solo nei reati consumati, ma anche in quelli tentati, purché sia accertata l’esiguità dell’offesa nel caso in cui il reato avesse raggiunto il compimento. Analogamente, i reati di pericolo astratto o presunto non sono esclusi a priori dall’ambito di applicazione, poiché anche in tali ipotesi è possibile riscontrare una minima offensività dell’azione. Tuttavia, la norma non si estende ai giudizi dinanzi al Giudice di Pace, per i quali permangono discipline specifiche, sebbene su questo punto vi siano state interpretazioni divergenti in giurisprudenza.

Il ruolo dell’avvocato si dimostra centrale nella valorizzazione degli elementi che possono condurre all’applicazione della tenuità del fatto (art. 131-bis). Attraverso una puntuale rappresentazione delle peculiarità del caso concreto, il difensore può agevolare una decisione favorevole, dimostrando che l’offesa risulta effettivamente priva di un significativo disvalore penale. L’analisi attenta e approfondita di tutte le circostanze, comprese quelle relative all’eventuale non abitualità del comportamento, consente al giudice di valutare con maggiore precisione l’idoneità del fatto ad essere considerato di particolare tenuità.

Reati esclusi dall’applicazione della tenuità del fatto (art. 131-bis)

Nonostante la sua ampia applicabilità, l’istituto della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) prevede importanti limitazioni, escludendo la possibilità di dichiarare la non punibilità per una serie di delitti specificamente individuati dalla legge. Queste esclusioni riflettono la volontà del legislatore di riservare l’applicazione della norma a condotte realmente prive di significativa offensività, escludendo quei comportamenti considerati ex lege intrinsecamente gravi o lesivi di interessi fondamentali.

In primo luogo, l’art. 131-bis c.p. non si applica ai delitti puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, se commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive. Tale previsione risponde alla necessità di contrastare con fermezza episodi di violenza o disordini in un contesto che coinvolge un’ampia partecipazione pubblica.

Sono altresì esclusi i delitti previsti dagli articoli 336, 337 e 341-bis c.p., quando commessi nei confronti di pubblici ufficiali o agenti di polizia nell’esercizio delle loro funzioni. La norma si estende anche al delitto di cui all’art. 343 c.p., rafforzando la tutela dell’autorità pubblica contro comportamenti che ne minano la credibilità e il regolare funzionamento.

Un ulteriore gruppo di esclusioni riguarda delitti particolarmente gravi, sia consumati che tentati, tra cui figurano quelli previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319 e seguenti, che disciplinano reati contro la pubblica amministrazione, come la corruzione e la concussione, nonché delitti contro la persona aggravati (artt. 582, aggravato dagli artt. 576 e 577, e 583-bis). Sono inclusi anche reati sessuali (artt. 609-bis e seguenti) e delitti contro il patrimonio aggravati, come la rapina (art. 628, comma 3) e l’estorsione (art. 629 c.p.).

Rientrano nelle esclusioni i delitti previsti dall’art. 19, quinto comma, della legge n. 194/1978, e dall’art. 73 del D.P.R. n. 309/1990, tranne quelli specificati al comma 5 dello stesso articolo, così come i delitti di rilevanza finanziaria disciplinati dagli articoli 184 e 185 del D.Lgs. n. 58/1998. Infine, non è applicabile ai reati di contraffazione previsti dalla sezione II del capo III del titolo III della legge n. 633/1941, salvo per le fattispecie più lievi di cui all’art. 171 della medesima legge.

Queste esclusioni confermano l’intento del legislatore di riservare l’applicazione dell’art. 131-bis ai casi in cui il disvalore del fatto sia effettivamente lieve, escludendo reati che, per la loro gravità intrinseca o per l’interesse protetto, richiedono una risposta penale più rigorosa. Anche in questo contesto, il ruolo dell’avvocato è essenziale per valutare con precisione l’applicabilità dell’istituto e tutelare al meglio gli interessi del proprio assistito, assicurando che ogni esclusione sia interpretata in coerenza con i principi fondamentali del diritto penale.

Le novità introdotte dalla Riforma Cartabia e la tenuità del fatto (art. 131-bis)

La Riforma Cartabia ha apportato modifiche significative all’istituto della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.), modificandone l’ambito di applicazione e introducendo nuovi criteri di valutazione. Una delle innovazioni principali riguarda il limite edittale della pena: la norma, nella sua versione originaria, prevedeva l’applicabilità dell’istituto ai reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni. La riforma, intervenendo sull’art. 131-bis, ha sostituito tale parametro con quello del minimo edittale, fissandolo a due anni di reclusione.

Un altro elemento innovativo introdotto dalla riforma riguarda il rilievo attribuito alla condotta susseguente al reato. Il legislatore ha espressamente previsto che il giudice debba tener conto anche del comportamento dell’autore successivo alla commissione del fatto, come ulteriore criterio per valutare la tenuità dell’offesa.
Sebbene il testo normativo non specifichi quali condotte post delictum debbano essere considerate, tale indeterminatezza consente al giudice di apprezzare una vasta gamma di elementi, quali eventuali iniziative riparatorie, il risarcimento del danno o l’impegno a limitare le conseguenze pregiudizievoli del reato.

La riforma ha dunque abbandonato una visione statica della norma, che in passato correlava l’esiguità dell’offesa unicamente alle modalità della condotta e all’entità del danno o del pericolo, valorizzando invece un approccio globale e dinamico. Il riferimento alla condotta susseguente sottolinea la necessità di valutare il fatto nel suo complesso, tenendo conto non solo delle circostanze concomitanti al reato, ma anche delle scelte e dei comportamenti adottati dall’autore in seguito.

Alcuni orientamenti giurisprudenziali sulla particolare tenuità del fatto (art. 131-bis)

La giurisprudenza ha svolto un ruolo determinante nell’interpretazione e nell’applicazione dell’istituto della tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.), contribuendo a delinearne i confini e a risolvere le principali questioni interpretative. Uno degli aspetti più dibattuti ha riguardato la natura giuridica dell’istituto.

Dopo un iniziale contrasto tra chi lo considerava una condizione dell’azione penale e chi, invece, lo qualificava come una causa di non punibilità, l’orientamento prevalente ha optato per questa seconda tesi, evidenziando il carattere sostanziale della norma. Tale impostazione è stata confermata dalla giurisprudenza di legittimità, che ha ribadito la necessità di un accertamento rigoroso sulla sussistenza del fatto, dell’elemento soggettivo e delle condizioni previste dall’art. 131-bis.

Un’altra questione significativa affrontata dalla giurisprudenza riguarda l’applicabilità dell’istituto ai reati continuati o abituali. Mentre alcuni orientamenti escludono l’applicazione della norma in presenza di condotte reiterate o seriali, ritenendole espressione di un comportamento abituale ostativo al riconoscimento della tenuità del fatto, altri riconoscono la possibilità di valutare l’esiguità delle singole condotte, purché ciascun episodio sia analizzato autonomamente.

Tali divergenze testimoniano la complessità dell’istituto e l’importanza di un’interpretazione caso per caso, che tenga conto delle circostanze concrete e della ratio sottesa alla norma.

La giurisprudenza ha anche chiarito che la particolare tenuità dell’offesa non può essere applicata a reati connotati da una gravità intrinseca o da modalità particolarmente lesive, come i reati commessi con crudeltà, per motivi abietti o con l’uso di sevizie. Inoltre, la norma non si estende ai reati che, per loro natura, presuppongono una reiterazione di condotte, come il delitto di abusivo esercizio di una professione, in quanto configurano comportamenti abituali incompatibili con i presupposti dell’art. 131-bis.

Particolare attenzione è stata riservata ai profili applicativi nei casi di reati di pericolo astratto. In queste ipotesi, la giurisprudenza ha riconosciuto che anche in presenza di una fattispecie astrattamente offensiva, l’esiguità del danno o del pericolo concreto può giustificare l’applicazione della norma. Questo orientamento riflette la volontà di valorizzare il principio di offensività, attribuendo rilievo alla concreta lesione o minaccia del bene giuridico tutelato.

Profili processuali della tenuità del fatto (art. 131-bis)

I profili processuali dell’istituto della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) sono fondamentali, poiché la norma si presta a essere rilevata d’ufficio in qualsiasi fase del procedimento penale.

Tale peculiarità ne fa uno strumento particolarmente versatile, applicabile sia nella fase delle indagini preliminari che durante il giudizio, fino all’appello. La possibilità di dichiarare la non punibilità per particolare tenuità del fatto è prevista, infatti, non solo in sede di archiviazione, ma anche attraverso provvedimenti come la sentenza di non luogo a procedere o il proscioglimento predibattimentale.

Nella fase delle indagini preliminari, il pubblico ministero può richiedere al giudice per le indagini preliminari l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, qualora ritenga che non vi siano i presupposti per proseguire l’azione penale. In tale contesto, l’avvocato può svolgere un ruolo determinante, segnalando tempestivamente al pubblico ministero gli elementi di fatto e di diritto che giustificano l’applicazione della norma. Analogamente, nelle fasi successive, il giudice può emettere sentenza di proscioglimento qualora ritenga che la condotta dell’imputato soddisfi i criteri stabiliti dall’art. 131-bis.

Un aspetto peculiare riguarda gli effetti della declaratoria di non punibilità per tenuità del fatto. Sebbene l’istituto escluda l’irrogazione della pena, la sentenza che ne accerta i presupposti comporta una conferma della responsabilità penale dell’imputato. Ai sensi dell’art. 651-bis c.p.p., tale pronuncia ha efficacia di giudicato in sede civile per il risarcimento del danno, consentendo alla parte offesa di far valere le proprie pretese nei confronti dell’autore del reato. Questo aspetto rende particolarmente delicata l’applicazione della norma, poiché l’esito del procedimento penale può influire sulle dinamiche risarcitorie in ambito civile.

Un ulteriore tema rilevante è la compatibilità della tenuità del fatto con i principi del processo penale. La Corte di Cassazione ha chiarito che la causa di non punibilità non può essere invocata per la prima volta in sede di legittimità, qualora fosse già applicabile al momento della sentenza di appello. Inoltre, le Sezioni Unite hanno stabilito che i provvedimenti di archiviazione o proscioglimento per tenuità del fatto devono essere iscritti nel casellario giudiziale, ma non figurano nei certificati rilasciati a richiesta dell’interessato, del datore di lavoro o della pubblica amministrazione.

Conclusioni: La particolare tenuità del fatto (art. 131-bis) e l’importanza della strategia difensiva

L’istituto della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) rappresenta un’importante evoluzione nel panorama del diritto penale italiano, ponendosi come strumento volto a ridurre il ricorso alla sanzione penale nei casi di minima offensività.

Esso consente di calibrare l’intervento repressivo in modo più proporzionato, rispettando i principi di offensività, sussidiarietà e proporzionalità, che costituiscono valori ineludibili del diritto penale moderno. L’applicazione di questo istituto, tuttavia, non è automatica, ma richiede un’analisi attenta e complessa delle circostanze del caso concreto, affidata alla valutazione discrezionale del giudice.

In questo contesto, il ruolo dell’avvocato assume una portata centrale. Attraverso un’approfondita analisi dei fatti, il difensore è in grado di individuare e valorizzare gli elementi che possono condurre all’applicazione della causa di non punibilità.

Che si tratti di far emergere la tenuità dell’offesa, l’assenza di comportamenti abituali o l’importanza della condotta susseguente al reato, l’intervento dell’avvocato è dirimente per assicurare che la norma venga applicata in modo equo e coerente.

Infine, l’istituto rappresenta anche una sfida per il sistema penale, poiché richiede un delicato bilanciamento tra le esigenze di deflazione processuale e la necessità di garantire giustizia alle vittime.

Il nostro Studio Legale, specializzato in diritto penale, si distingue per la capacità di offrire assistenza legale altamente qualificata in ogni fase del processo penale. Con un approccio dedicato e personalizzato, garantiamo una difesa solida e mirata alle esigenze specifiche del Cliente, sia esso imputato o parte civile, con l’obiettivo di far valere al massimo i suoi diritti nel rispetto delle garanzie processuali. Dedichiamo notevole attenzione all’istituto della  non punibilità per particolare tenuità del fatto.

La preparazione e l’attenzione alle evoluzioni normative ci permettono di intervenire efficacemente in tutti i contesti legali che possono sorgere in ambito penale, dai reati comuni fino alle situazioni più complesse. Contattaci per un primo confronto, senza impegno.

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Diffamazione online: articoli telematici e social network. 3 regole per una tutela penale e civile efficace

Diffamazione online: articoli telematici e social network. 3 regole per una tutela penale e civile efficace

La diffamazione online è uno dei temi più attuali nel panorama del diritto penale. Se ne parla sempre più spesso a proposito della libertà di espressione e dell’uso dei mezzi di comunicazione digitale. Nell’era dei social network e della condivisione istantanea di contenuti, il rischio di ledere la reputazione altrui mediante commenti, post o articoli telematici è sempre più concreto. Spesso il ruolo dell‘avvocato penalista si rileva fondamentale.

Invero, la diffamazione online si distingue dalle forme tradizionali di diffamazione per la sua capacità di propagarsi rapidamente a un pubblico vasto, amplificando l’impatto dell’offesa e causando danni potenzialmente elevati alla dignità e alla reputazione della persona colpita.

L’obiettivo di questo articolo è fornire una sintesi delle caratteristiche del reato e della sua applicazione giurisprudenziale, avuto riguardo in particolare a casi di diffamazione online (mediante web, articoli pubblicati su testate telematiche, blog e forum, social network etc.).

Per affrontare la diffamazione online in modo efficace, analizzeremo i principali strumenti di tutela penale e, da diversa prospettiva, le modalità per ottenere un risarcimento dei danni subiti attraverso le vie civili.

Inoltre, questo articolo presenta tre regole fondamentali per una tutela penale efficace contro la diffamazione online: cautela, tempestività e acquisizione. La prima regola, la cautela, implica che la persona colpita da diffamazione mantenga sempre una condotta contenuta nelle proprie reazioni, evitando di rispondere alle provocazioni in modo impulsivo, poiché ogni replica può aggravare la situazione giuridica e compromettere le possibilità di tutela.

La seconda regola, la tempestività, evidenzia l’importanza di rivolgersi a un avvocato specializzato senza indugi, per evitare che decorrano i termini entro cui è possibile proporre querela e avviare il procedimento penale.

La terza regola, infine, riguarda l’acquisizione delle prove: la raccolta meticolosa di tutti gli elementi di prova, inclusi screenshot, link e metadati, è fondamentale per dimostrare i fatti avvenuti e supportare la propria versione dei fatti.

Affidarsi a un avvocato per un supporto legale è un passaggio di estrema importanza per chiunque subisca un danno reputazionale sul web. Solo una consulenza legale specializzata può assicurare che il percorso di tutela sia efficace e completo, sia nella fase penale che in quella civile.

Diffamazione online: definizione e caratteristiche del reato

La diffamazione online configura una particolare ipotesi di reato caratterizzata dalla diffusione di un’espressione lesiva della reputazione altrui attraverso mezzi telematici. La fattispecie è regolata dall’art. 595 del codice penale, che prevede la tutela della reputazione personale contro offese che ledano l’onore e la dignità dell’individuo, qualunque sia il mezzo utilizzato per la propalazione.

Anche per la configurazione della diffamazione online, come quella “analogica”, è necessario che l’offesa sia percepita da una pluralità di destinatari e che il soggetto passivo non sia presente al momento della diffusione. La qualificazione della diffamazione come reato d’evento richiede, inoltre, che l’espressione lesiva produca un’effettiva percezione da parte di terzi.

Nell’ambito telematico, il carattere pubblicistico delle piattaforme digitali conferisce alla diffamazione online una peculiare capacità diffusiva, amplificando la portata dell’offesa. La giurisprudenza – come si vedrà – riconosce che la divulgazione di contenuti diffamatori tramite internet realizza un’ipotesi aggravata di cui all’art. 595, comma 3, c.p., in quanto commessa mediante un mezzo capace di raggiungere una pluralità di soggetti in modo simultaneo e indiscriminato.

Tale circostanza giustifica un aggravio della sanzione, data la potenziale maggiore lesività per la persona offesa. In questo senso, la diffamazione online tramite articoli telematici, social network e altre piattaforme di comunicazione digitale è stata assimilata a una pubblicazione idonea a ledere significativamente la reputazione, configurando un danno alla dignità personale in proporzione all’ampiezza del pubblico raggiunto.

Il reato di diffamazione online assume quindi una dimensione autonoma nel contesto giuridico, richiedendo un’attenta analisi delle modalità espressive e delle circostanze di pubblicazione. La giurisprudenza, negli ultimi anni, ha delineato specifici criteri per valutare la rilevanza penale di commenti, condivisioni e apprezzamenti espressi online, come i “like”, qualora questi ultimi comportino un’adesione consapevole a contenuti lesivi della reputazione altrui.

Nell’interpretazione della Corte di Cassazione, ogni condotta che concorra a diffondere o confermare il contenuto diffamatorio integra una partecipazione rilevante ai fini penali, potendo altresì aggravare la lesione della sfera morale della persona offesa.

Diffamazione online e responsabilità del direttore di periodico telematico: l’evoluzione giurisprudenziale

La questione della diffamazione online mediante testate telematiche e la possibilità di estendere la responsabilità penale del direttore responsabile ex art. 57 c.p. ha generato una copiosa evoluzione giurisprudenziale, che potremmo ripercorrere in tre momenti fondamentali.

Il primo passaggio si rinviene nella sentenza della Corte di Cassazione, Sezione V Penale, 16 luglio 2010, n. 35511, la quale – come storicamente sempre affermato dalla Suprema Corte –  ha chiarito come il dettato dell’art. 57 c.p. non sia applicabile ai periodici telematici, escludendo quindi qualsiasi forma di responsabilità per omesso controllo a carico del direttore responsabile di una testata online.

La Corte ha evidenziato che «l’ambito di operatività dell’art. 57 c.p. è dunque circoscritto alla sola carta stampata» e ha sottolineato come sia vietato un ampliamento interpretativo del concetto di “stampa” per includervi le testate online.

Secondo i giudici, il principio di tassatività del diritto penale impone che l’art. 57 c.p. si applichi esclusivamente alla stampa periodica cartacea, con esclusione dei periodici digitali, poiché “la legge è inequivoca” in tal senso. Questa sentenza ha pertanto sancito il divieto di analogia in malam partem per estendere la responsabilità del direttore di un periodico telematico al reato di diffamazione online.

Il secondo passaggio evolutivo si concretizza nella pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, sentenza 17 luglio 2015, n. 31022. In questa occasione, la Corte ha preso in esame la questione del sequestro preventivo di una pagina web contenente contenuti diffamatori, stabilendo un’importante distinzione.

Pur confermando che la responsabilità penale prevista dall’art. 57 c.p. non si estende alle testate online, la Corte ha affermato che, qualora un periodico telematico sia strutturato in modo simile alla stampa cartacea, ossia con una redazione organizzata e un direttore responsabile, esso può rientrare nella nozione di “stampa” ai soli fini del sequestro preventivo, senza che ciò comporti una responsabilità penale per il direttore.

Tale orientamento, in bonam partem, ha consentito di includere i quotidiani telematici all’interno della disciplina della stampa tradizionale, ma solo per limitare l’intervento cautelare al fine di impedire la diffusione di contenuti lesivi della reputazione altrui.

Come precisato dalla Corte, «nel concetto di “stampa” devono rientrare anche i quotidiani o i periodici on line regolarmente registrati» qualora abbiano «le caratteristiche e la struttura di un vero e proprio giornale cartaceo», ma tale assimilazione è limitata esclusivamente alla tutela della persona offesa tramite il sequestro, escludendo qualsiasi ampliamento della responsabilità penale del direttore ai sensi dell’art. 57 c.p.

Il terzo e più recente passaggio giurisprudenziale è rappresentato dalla sentenza della Corte di Cassazione, Sezione V Penale, 23 ottobre 2018, n. 1275, che ha introdotto un cambiamento significativo nell’interpretazione della diffamazione online commessa tramite testate telematiche.

In questa pronuncia, la Corte ha stabilito che, laddove un periodico telematico sia strutturato come una testata tradizionale, con un direttore responsabile e una redazione organizzata, si configura una responsabilità per omesso controllo ai sensi dell’art. 57 c.p. In tal modo, la Corte ha esteso la portata applicativa dell’art. 57 anche ai periodici digitali, ma in malam partem, interpretando la norma nel senso che «il termine “stampa” ha anche un significato figurato» e, pertanto, include «i giornali in ogni loro forma divulgativa, che sono strumento elettivo dell’informazione».

Tale interpretazione si è basata sul concetto che l’organizzazione strutturata di una testata digitale, con un direttore e una redazione, rende il periodico telematico idoneo a raggiungere un pubblico ampio e a determinare, per tale motivo, una responsabilità penale per il direttore in caso di mancato controllo su contenuti diffamatori. In tale pronuncia, la Corte ha escluso tuttavia l’applicabilità dell’art. 57 c.p. ad altri mezzi di manifestazione del pensiero, quali blog, forum, o social network, limitando la responsabilità del direttore esclusivamente alle testate giornalistiche registrate e aventi struttura assimilabile a quella di una testata cartacea.

Questa evoluzione giurisprudenziale sulla diffamazione online mostra dunque un graduale passaggio da un’interpretazione restrittiva dell’art. 57 c.p., applicabile solo alla stampa cartacea, a una lettura che considera, con maggior ampiezza, anche le testate telematiche, sebbene con importanti limitazioni ai fini dell’applicabilità penale.

Diffamazione online e social network: responsabilità penale per commenti e condivisioni

La diffamazione online assume contorni peculiari nel contesto dei social network, dove commenti, condivisioni e apprezzamenti possono acquisire rilevanza penale qualora siano lesivi della reputazione altrui. La giurisprudenza ha affrontato in modo sistematico la problematica della responsabilità dell’utente che, interagendo su piattaforme come Facebook o Twitter, diffonda o contribuisca alla diffusione di contenuti offensivi.

La Cassazione ha stabilito che la diffamazione online realizzata tramite social network può configurare un’ipotesi di reato aggravato ai sensi dell’art. 595, comma 3, c.p., poiché tale mezzo di comunicazione, in ragione della sua ampia capacità diffusiva, è idoneo a raggiungere una pluralità di destinatari in tempi brevi e con effetti amplificati.

Per quanto riguarda le condivisioni, la giurisprudenza prevalente ritiene che la mera condivisione di un messaggio diffamatorio non integri necessariamente gli estremi della diffamazione online ai sensi dell’art. 595 c.p., sebbene vi siano circostanze in cui tale atto può essere considerato penalmente rilevante.

Secondo la Cassazione, «la condotta materiale [dell’utente che condivide] non evidenzia oggettivamente alcuna adesione ai contenuti offensivi, laddove non emergano elementi che indichino un’intenzione di rafforzare l’offesa alla persona». La valutazione della responsabilità per condivisione richiede, quindi, un’analisi delle modalità concrete in cui tale condotta è stata posta in essere, considerando se l’utente abbia manifestato una volontà di sostenere o intensificare l’offesa.

In relazione alla manifestazione di gradimento tramite “like” o altre reazioni, la giurisprudenza ha riconosciuto che tali interazioni sono spesso ambigue e non sempre esprimono un’adesione alla portata diffamatoria del messaggio.

Tuttavia, qualora un utente apponga un “like” su un post offensivo, senza ulteriori espressioni di dissenso, potrebbe desumersi una volontà di supporto implicito al contenuto diffamatorio, configurando quindi una partecipazione indiretta alla diffamazione online. È stato inoltre evidenziato che il ruolo degli algoritmi di visibilità di alcune piattaforme social, come Instagram, che aumentano la diffusione dei post apprezzati da un numero elevato di utenti, può potenzialmente contribuire all’effetto lesivo dell’offesa.

Nonostante ciò, la giurisprudenza ritiene che la mera reazione di gradimento, di per sé, non sia sufficiente a integrare la condotta tipica di cui all’art. 595 c.p., costituendo, al limite, un’ipotesi di reato impossibile ai sensi dell’art. 49, comma 2, c.p., laddove non sia provato l’intento di esaltare o promuovere il contenuto diffamatorio.

In definitiva, la responsabilità per diffamazione online sui social network si configura prevalentemente nei casi in cui il commento o la condivisione risulti palesemente offensiva e diretta a una pluralità di destinatari, rafforzando l’offesa arrecata. Il contesto e le modalità della comunicazione, nonché la consapevolezza dell’utente in merito alla portata lesiva del contenuto, restano criteri determinanti per configurare o escludere la responsabilità penale in queste fattispecie.

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Diffamazione online e diffamazione non nominativa: quando l’identificazione è implicita

La diffamazione online può configurarsi anche in assenza di un riferimento nominativo esplicito alla persona offesa, purché l’identificazione del soggetto leso risulti possibile per una cerchia di destinatari del messaggio. La giurisprudenza di legittimità ha affermato che è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da un gruppo di persone, anche senza un’esplicita menzione del nome.

La Cassazione ha statuito che «per la configurazione del reato di diffamazione è sufficiente che il soggetto leso sia individuabile da parte di un numero limitato di persone, indipendentemente dalla indicazione nominativa» (Cass. Pen., Sez. I, 16 aprile 2014, n. 16712).

Un esempio significativo si rinviene nel caso esaminato dalla Corte Militare d’Appello di Roma, in cui l’imputato era stato assolto in appello con la motivazione che l’identificazione della persona offesa risultava possibile solo per una ristretta cerchia di soggetti sul social network e in assenza di riferimenti nominativi. Tuttavia, la Cassazione ha annullato tale pronuncia, rilevando che anche una cerchia ristretta di individui, legati in modo più o meno stretto alla persona offesa, può percepire la lesività del contenuto diffamatorio, rendendo irrilevante l’assenza di un riferimento diretto.

La Corte ha stabilito che, qualora gli elementi descrittivi contenuti nel messaggio permettano a una specifica cerchia di soggetti di identificare il destinatario dell’offesa, la diffamazione online è configurata anche se l’autore del messaggio utilizza espressioni volutamente generiche o allusive.

Secondo la giurisprudenza, la valutazione della diffamazione online non nominativa richiede un’analisi del contesto sociale e delle relazioni tra i soggetti coinvolti, tenendo conto di fattori quali la familiarità del pubblico di riferimento con la vittima e la possibilità che la descrizione generica conduca all’identificazione del soggetto offeso. È quindi necessario che l’espressione offensiva assuma un significato univoco per i destinatari, anche in assenza di una menzione esplicita, e che il contenuto sia percepito come riferito al soggetto leso all’interno della specifica comunità online.

L’identificabilità implicita costituisce, quindi, un criterio di fondamentale rilevanza nel determinare la sussistenza della diffamazione online non nominativa. La giurisprudenza richiede, a tal fine, che il giudice verifichi la riferibilità soggettiva delle espressioni utilizzate, prendendo in considerazione il contesto digitale e l’accesso selettivo al contenuto da parte di una cerchia specifica di soggetti, affinché sia garantita la tutela della reputazione anche in caso di offese indirette.

Diffamazione online e il locus commissi delicti: questioni relative alla competenza territoriale

La determinazione del locus commissi delicti nella diffamazione online rappresenta una questione di particolare complessità, data la natura ubiquitaria e pervasiva delle comunicazioni digitali. La giurisprudenza ha dovuto affrontare la difficoltà di individuare il luogo in cui si consuma il reato, poiché, nell’ambito telematico, la diffusione del messaggio offensivo può avvenire a livello globale e la sua percezione non è vincolata a una specifica area geografica. In questo contesto, la Corte di Cassazione ha delineato un principio fondamentale: la diffamazione online è un reato di evento, la cui consumazione è legata alla percezione del messaggio lesivo da parte di terzi.

La sentenza della Cassazione, Sez. V Penale, 17 novembre 2000, n. 4741, ha chiarito che la consumazione del reato di diffamazione non si verifica al momento della pubblicazione del contenuto diffamatorio, bensì quando il messaggio offensivo viene percepito dai destinatari, i quali costituiscono il “pubblico” che consente la concretizzazione dell’offesa.

In tale sentenza, la Corte ha stabilito che, per quanto riguarda i reati commessi tramite internet, il momento consumativo della diffamazione online coincide con il momento in cui il messaggio è percepito da soggetti «terzi» rispetto all’autore e alla persona offesa.

Questo orientamento comporta che, una volta che il contenuto diffamatorio sia stato visualizzato anche sul territorio italiano, la giurisdizione e la competenza territoriale si radicano presso il giudice italiano, indipendentemente dal luogo in cui il messaggio è stato originariamente generato e pubblicato.

Per stabilire la competenza territoriale all’interno dell’Italia, si è affermata la prassi di considerare il luogo di residenza, domicilio o dimora della persona offesa come riferimento territoriale, partendo dal presupposto che il soggetto leso abbia potuto accedere al contenuto lesivo nel luogo in cui abitualmente dimora. Questo principio consente al giudice competente di fondare la propria giurisdizione sulla base dell’effettiva percezione del danno morale subito dalla vittima, conferendo così un criterio chiaro per la proposizione della querela e per l’eventuale azione risarcitoria.

La diffamazione online presenta, dunque, una configurazione territoriale peculiare, dove il luogo di consumazione del reato viene individuato non in relazione alla fonte della pubblicazione, bensì al luogo di percezione del contenuto diffamatorio da parte della persona offesa. Tale approccio permette di tutelare adeguatamente la dignità e la reputazione dell’individuo, in un contesto in cui la comunicazione digitale trascende le barriere geografiche e richiede, pertanto, una regolamentazione adeguata a una rete globalmente accessibile.

Diffamazione online: aggravante del mezzo di pubblicità e tutela risarcitoria in sede civile

La diffamazione online è comunemente trattata come una fattispecie aggravata ai sensi dell’art. 595, comma 3, c.p., in quanto realizzata mediante un mezzo di pubblicità idoneo a determinare una maggiore diffusività dell’offesa.

La giurisprudenza di legittimità ha stabilito che, nel contesto digitale, il reato di diffamazione si configura in forma aggravata poiché il mezzo telematico consente di raggiungere un numero potenzialmente indeterminato di persone, aumentando l’intensità del danno alla persona offesa. La Cassazione ha chiarito che l’aggravante si giustifica per la natura del mezzo utilizzato, il quale, «per potenzialità e idoneità, è capace di coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone […] cagionando un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa» (Cass. Pen., Sez. I, 28 aprile 2015, n. 24431).

La diffusione dell’offesa tramite piattaforme digitali e social network comporta quindi un aggravio della responsabilità dell’autore, poiché la comunicazione virtuale amplifica l’impatto della lesione reputazionale.

A fronte di tale potenziale gravità, la persona offesa dalla diffamazione online dispone di strumenti di tutela non solo in ambito penale, ma anche sul piano civile, tramite un’azione risarcitoria finalizzata alla riparazione dei danni morali e materiali subiti.

L’azione civile per risarcimento danni è accessibile sia mediante costituzione di parte civile nel processo penale, sia tramite avvio di un autonomo procedimento civile. La giurisprudenza civile ha stabilito che il danno risarcibile può comprendere sia il pregiudizio alla sfera morale, per la sofferenza e il discredito subito dalla vittima, sia il danno patrimoniale, qualora la diffamazione online abbia compromesso la posizione sociale o professionale del soggetto leso. In particolare, l’accertamento della sussistenza e della quantificazione del danno subito presuppone una valutazione complessiva del contesto in cui si è verificata la diffamazione, della notorietà della persona offesa e dell’ampiezza della diffusione dell’offesa.

In ambito civile, la persona danneggiata dalla diffamazione online può inoltre agire per ottenere la rimozione dei contenuti lesivi e la pubblicazione della sentenza di condanna, al fine di ripristinare la propria reputazione.

La combinazione degli strumenti penali e civili risulta particolarmente efficace in caso di diffamazione telematica, consentendo alla vittima di perseguire un’adeguata riparazione per l’offesa subita e di proteggere la propria immagine nell’ambiente sociale e professionale di appartenenza. Tali rimedi giuridici, posti in essere con l’assistenza di un legale specializzato, assicurano una tutela integrata della persona offesa, che può così affrontare gli effetti della diffamazione online su più fronti, ottenendo giustizia sia in termini di sanzione all’autore del reato, sia in termini di risarcimento e ripristino dell’onore leso.

Conclusioni: tre regole per una tutela penale efficace contro la diffamazione online

La diffamazione online, per la sua pervasività e capacità di causare danni reputazionali estesi, richiede strumenti di tutela che agiscano su più livelli, sia sul piano penale che civile. La giurisprudenza italiana ha delineato un quadro di interventi che permettono alla persona offesa di reagire in modo efficace, grazie alla possibilità di perseguire non solo l’autore dell’offesa, ma anche eventuali responsabili editoriali nel caso delle testate telematiche registrate.

Per affrontare efficacemente una diffamazione online, è utile seguire tre regole fondamentali che garantiscono una maggiore tutela e protezione dei propri diritti:

  1. Cautela: è fondamentale evitare di rispondere alle provocazioni in modo impulsivo o aggressivo. Mantenere una continenza espositiva è essenziale per non aggravare la situazione e per conservare una condotta coerente con i requisiti richiesti per avviare una querela per diffamazione. La cautela impedisce che eventuali reazioni inopportune possano essere utilizzate contro la vittima stessa, compromettendo la possibilità di ottenere giustizia.
  2. Tempestività: è determinante per la difesa dei propri diritti. È necessario rivolgersi prontamente a un avvocato specializzato in diritto penale, per assicurarsi che i termini per la proposizione della querela non vengano superati. Ai sensi dell’art. 120 c.p., il termine per presentare querela è di tre mesi dalla conoscenza del fatto lesivo, decorso il quale il reato non sarà più perseguibile. Agire tempestivamente garantisce l’accesso alla tutela penale e consente all’avvocato di predisporre una strategia di difesa adeguata.
  3. Acquisizione delle prove: raccogliere e conservare tutte le prove disponibili è un passaggio cruciale per l’azione legale. Screenshot, link, metadati e altre evidenze digitali devono essere raccolti per documentare la lesione subita e facilitare il lavoro di difesa da parte del legale. L’acquisizione meticolosa degli elementi di prova permette di rafforzare la propria posizione e di ottenere un riscontro più solido nei confronti dell’autore dell’offesa.

Seguendo queste tre regole, è possibile intraprendere un percorso di tutela contro la diffamazione online con maggiori probabilità di successo. Affidarsi allo Studio Legale D’Agostino consente di orientarsi nelle complessità del diritto e ottenere una tutela effettiva delle proprie ragioni.

 

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