da Redazione | Mar 21, 2025 | Diritto d'Impresa
Nel contesto economico contemporaneo la protezione del software è un fattore di garanzia della competitività delle imprese, in particolare per le start-up operanti nei settori ad alto contenuto tecnologico. Il programma per elaboratore rappresenta il principale asset strategico che può incorporare soluzioni tecniche originali, architetture funzionali complesse e know-how aziendale.
La valorizzazione giuridica del software consente di prevenire condotte di appropriazione indebita, di regolamentare con precisione i rapporti con partner e sviluppatori esterni, nonché di consolidare il vantaggio competitivo nei mercati digitali.
La protezione del software assume inoltre una valenza ancora più rilevante nelle ipotesi in cui il codice costituisca la base funzionale di sistemi di intelligenza artificiale, il cui impatto giuridico pone sfide peculiari sul piano della titolarità, della responsabilità e dell’originalità dell’opera.
Obiettivo del presente articolo è fornire una panoramica organica e ragionata degli strumenti di tutela giuridica applicabili al software e alle banche dati, con particolare riguardo alla disciplina del diritto d’autore, alle strategie contrattuali e alle ulteriori forme di protezione riconosciute dall’ordinamento italiano ed europeo.
Normativa di riferimento sulla protezione del software: profili nazionali, europei e internazionali
La protezione del software trova fondamento in un corpus normativo multilivello, articolato su fonti nazionali, europee e internazionali, che concorrono a delineare un regime unitario sotto il profilo sostanziale, pur lasciando spazio a talune peculiarità applicative. In ambito interno, la disciplina di riferimento è contenuta nella Legge 22 aprile 1941, n. 633, recante la protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, come modificata dal Decreto Legislativo 29 dicembre 1992, n. 518, emanato in attuazione della Direttiva 91/250/CEE, successivamente trasfusa nella Direttiva 2009/24/CE.
In particolare, gli articoli 64-bis e seguenti della legge sul diritto d’autore riconoscono al programma per elaboratore la natura di opera dell’ingegno a carattere creativo, rientrante nella categoria delle opere letterarie, attribuendo al titolare un ventaglio articolato di diritti esclusivi.
A livello sovranazionale, l’ordinamento dell’Unione europea ha svolto un ruolo essenziale nel processo di armonizzazione, attraverso l’adozione non solo della già menzionata Direttiva 2009/24/CE, ma anche della Direttiva 2001/29/CE sulla società dell’informazione, della Direttiva 96/9/CE in materia di banche dati e della Direttiva 2004/48/CE sull’enforcement dei diritti di proprietà intellettuale. Tali fonti mirano a garantire un livello di protezione elevato e uniforme, soprattutto con riguardo alla riproduzione non autorizzata, alla distribuzione illecita e all’utilizzo non conforme dei programmi protetti. Con l’adozione di ulteriori atti normativi, quali il Data Act e il Cyber Resilience Act, l’Unione si muove inoltre verso un’integrazione crescente tra tutela dei diritti intellettuali, sicurezza informatica e governance del dato.
Sul piano internazionale, la Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche, ratificata in Italia con legge 20 giugno 1978, n. 399, rappresenta il principale riferimento, cui si affiancano le disposizioni dell’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale (OMPI/WIPO). La combinazione di tali strumenti consente di assicurare alla protezione del software un’estensione territoriale ampia e coerente, pur nel rispetto delle specificità giuridiche proprie dei singoli ordinamenti.
Protezione del software: definizioni e inquadramento concettuale
Ai fini della corretta applicazione delle norme in materia di protezione del software, è preliminarmente necessario definire con precisione l’oggetto della tutela, individuando le nozioni tecniche e giuridiche rilevanti. La legislazione italiana, in conformità ai principi sanciti dalla Direttiva 2009/24/CE, qualifica il programma per elaboratore come una sequenza di istruzioni idonea a far eseguire una funzione determinata da parte di un sistema informatico, in maniera diretta o indiretta. Esso comprende sia i programmi operativi che quelli applicativi, nonché ogni forma di sviluppo, inclusi i software embedded, le applicazioni mobili e i sistemi di gestione automatizzata.
L’articolo 64-bis della legge sul diritto d’autore chiarisce che la protezione del software si estende a ogni forma di espressione del programma, purché dotata di carattere creativo. Rientrano dunque nel perimetro di tutela sia il codice sorgente, vale a dire il linguaggio leggibile e modificabile dal programmatore, sia il codice oggetto, risultante dalla compilazione automatica in un formato eseguibile dalla macchina. La tutela non si estende invece alle idee, ai principi algoritmici, ai metodi matematici e ai concetti logici sottesi al programma, secondo un principio di netta separazione tra forma espressiva e contenuto funzionale dell’opera.
Particolarmente rilevante per la protezione del software è anche il riferimento alle specifiche tecniche, alla documentazione funzionale e alle interfacce, che possono costituire parte integrante del software e concorrere alla sua tutela, qualora presentino un sufficiente grado di originalità. Inoltre, l’attività di elaborazione di un programma può dar luogo a una pluralità di versioni, aggiornamenti, moduli aggiuntivi e configurazioni specifiche, tutte potenzialmente tutelabili se espressione di un apporto creativo. La protezione del software si configura dunque come una tutela formale e sostanziale dell’opera in quanto tale, incentrata sulla sua manifestazione concreta, piuttosto che sulla funzione eseguibile o sulla mera utilità operativa del codice.
La protezione del software tramite il diritto d’autore
La protezione del software mediante il diritto d’autore rappresenta, nell’ordinamento italiano ed europeo, il principale strumento di tutela. A seguito del recepimento della Direttiva 2009/24/CE, il legislatore nazionale ha introdotto una disciplina organica del software, inserita all’interno della Legge 22 aprile 1941, n. 633, agli articoli 64-bis e seguenti. Tale normativa attribuisce al software la medesima dignità giuridica riconosciuta alle opere letterarie, ancorando la tutela al principio della creatività intesa quale espressione personale dell’autore, senza che sia richiesto alcun grado minimo di valore artistico o estetico.
La protezione del software sorge automaticamente con la creazione dell’opera e non è subordinata ad alcun adempimento formale di registrazione o deposito, ancorché tali strumenti possano essere utili ai fini probatori in caso di controversia. Il software è pertanto tutelato a partire dal momento della sua fissazione in una forma tangibile, che consenta la percezione e la riproducibilità del codice da parte di terzi.
Il diritto d’autore attribuisce al titolare una serie di facoltà esclusive, tra cui il diritto di riprodurre, modificare, distribuire, comunicare al pubblico e tradurre l’opera in qualsiasi forma o mezzo. In particolare, l’articolo 64-bis LDA evidenzia che anche operazioni tecniche quali il caricamento, la visualizzazione, la memorizzazione e l’esecuzione del programma costituiscono, nella misura in cui comportino riproduzione, atti soggetti all’autorizzazione del titolare.
La protezione del software mediante il diritto d’autore si estende anche alle opere derivate, alle versioni successive e agli sviluppi funzionali, purché mantengano il requisito della creatività individuale. Tuttavia, la titolarità dei diritti patrimoniali può variare a seconda del contesto in cui l’opera è stata realizzata.
In particolare, l’articolo 64-bis, comma 3, stabilisce che, salvo patto contrario, nel caso di programmi creati da un lavoratore dipendente nell’esecuzione delle proprie mansioni, i diritti economici spettano al datore di lavoro. Tale previsione si discosta dal regime generale del diritto d’autore e impone un’attenta regolamentazione contrattuale nei rapporti interni ed esterni all’impresa. In ogni caso, la protezione conferita dalla legge assicura una barriera efficace contro l’uso non autorizzato, la duplicazione abusiva e lo sfruttamento illecito del software, costituendo una delle forme più solide e immediate di tutela giuridica dell’innovazione digitale.
Protezione del software e strumenti di deposito volontario a fini probatori
Pur non essendo richiesto alcun adempimento formale per il sorgere della tutela autorale, il titolare di un programma per elaboratore può avvalersi di strumenti giuridicamente riconosciuti per documentare la data di creazione dell’opera, consolidando in tal modo la propria posizione in caso di conflitto in ordine alla titolarità, alla paternità o alla legittimità dello sfruttamento del software. In questo contesto, il deposito volontario del software assume una funzione eminentemente probatoria, non attribuendo diritti ulteriori, ma offrendo al titolare un mezzo efficace per dimostrare l’anteriorità dell’opera rispetto a creazioni analoghe di terzi.
Tra le modalità attualmente riconosciute si annoverano, in primo luogo, il deposito presso la SIAE, mediante il servizio “Software e banche dati”, che consente di registrare una copia del programma – comprensiva di codice sorgente, manuali e descrizione funzionale – ottenendo un attestato con data certa opponibile a terzi.
In alternativa, è possibile ricorrere al deposito notarile, tramite atto pubblico o scrittura privata autenticata, ovvero al deposito presso la Camera di Commercio con le medesime finalità.
Soluzioni più recenti e tecnologicamente avanzate includono l’uso di sistemi blockchain certificati, che registrano in modo immutabile l’hash crittografico del codice su un registro distribuito, offrendo un’efficace tracciabilità e una tutela decentralizzata dell’integrità temporale del file depositato.
Sebbene tali strumenti non incidano sul contenuto sostanziale dei diritti d’autore, essi rivestono un ruolo rilevante nel contenzioso in materia di protezione del software, in particolare quando sia necessario dimostrare che un determinato programma è stato sviluppato anteriormente rispetto a un altro, o che una determinata versione è frutto di uno sviluppo autonomo e non di un’elaborazione illecita di opere altrui. La funzione certificativa del deposito si rivela quindi un’opzione prudente, specie in ambiti imprenditoriali ad alta innovazione, in cui il software costituisce un asset competitivo essenziale.
I diritti morali e patrimoniali nella protezione del software
La disciplina italiana del diritto d’autore distingue tradizionalmente tra diritti morali e diritti patrimoniali, entrambi riconosciuti all’autore di un’opera dell’ingegno, ivi compreso il programma per elaboratore. Tale distinzione, di matrice personalistica, assume rilievo anche nel contesto della protezione del software, in quanto consente di articolare con maggiore precisione le prerogative riconosciute all’autore persona fisica rispetto a quelle suscettibili di circolazione, sfruttamento economico o attribuzione convenzionale a terzi.
I diritti morali, disciplinati dagli articoli 20 e seguenti della Legge n. 633/1941, sono inalienabili, irrinunciabili e imprescrittibili, e permangono anche dopo la cessione dei diritti economici sull’opera. Essi comprendono, in particolare, il diritto alla paternità dell’opera, il diritto all’integrità della stessa, nonché il diritto a deciderne la pubblicazione o il ritiro dal commercio per gravi ragioni morali. Nell’ambito del software, tali diritti spettano esclusivamente al soggetto che ha creato il codice, anche qualora l’utilizzo economico del programma sia stato ceduto o trasferito. Il programmatore conserva dunque il diritto di essere indicato come autore e di opporsi a modifiche che possano alterare il significato o la struttura espressiva del programma.
Diversamente, i diritti patrimoniali consistono nelle facoltà di natura economica attribuite all’autore o al titolare dei diritti e sono disciplinati dagli articoli 12 e seguenti della medesima legge. Essi comprendono il diritto esclusivo di riprodurre, distribuire, comunicare, tradurre, modificare e concedere in licenza l’opera, anche in forma digitale, nonché il diritto di autorizzarne o vietarne l’utilizzo da parte di terzi. La durata dei diritti patrimoniali, ai sensi dell’art. 25 LDA, è di settanta anni dopo la morte dell’autore, anche nel caso del software, sebbene nella prassi l’interesse economico si concentri spesso in un orizzonte temporale più ristretto, correlato al ciclo di vita tecnologico del prodotto.
Nel caso di software sviluppato nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato, l’articolo 64-bis, comma 3, della legge sul diritto d’autore stabilisce una deroga al principio generale, prevedendo che i diritti patrimoniali spettino al datore di lavoro, salvo diverso accordo contrattuale. Resta invece ferma la titolarità dei diritti morali in capo all’autore persona fisica.
Nelle ipotesi di collaborazione esterna o sviluppo su commissione, in assenza di cessione scritta, i diritti economici restano in capo all’autore, con conseguenze rilevanti per l’utilizzabilità commerciale del programma. Ne discende la necessità di predisporre con rigore la contrattualistica applicabile, al fine di garantire un’effettiva e stabile protezione del software sul piano dei rapporti interni ed esterni all’organizzazione.
Le eccezioni e i limiti alla protezione del software per l’utente legittimo
La disciplina della protezione del software, pur riconoscendo al titolare un ampio spettro di diritti esclusivi, contempla specifiche eccezioni a favore dell’utente legittimo, al fine di garantire un equilibrato bilanciamento tra le prerogative dell’autore e l’interesse alla fruizione funzionale del programma. Gli articoli 64-ter e 64-quater della Legge n. 633/1941 individuano tali ipotesi derogatorie, ispirandosi ai principi sanciti dalla Direttiva 2009/24/CE e dalla Convenzione di Berna, ed escludono la necessità di un’autorizzazione da parte del titolare in circostanze determinate, purché l’uso del programma avvenga nel rispetto della sua destinazione d’uso e in conformità ai limiti normativi.
In particolare, l’articolo 64-ter prevede che l’utente legittimo, ossia colui che abbia acquisito il diritto di utilizzare una copia del software, possa procedere alla riproduzione, alla traduzione o alla modifica del programma quando tali operazioni siano necessarie per l’uso conforme alla destinazione o per la correzione degli errori. È inoltre espressamente riconosciuto il diritto di effettuare una copia di riserva del programma, qualora ciò risulti necessario per l’utilizzo del software, nonché la facoltà di osservare, studiare e testare il funzionamento del programma, al fine di comprenderne le idee e i principi sottostanti, a condizione che tali attività siano compiute nel corso di operazioni legittime di caricamento, esecuzione o memorizzazione.
Di particolare rilievo è altresì l’articolo 64-quater, il quale ammette la decompilazione del codice, ovvero la trasformazione del codice oggetto in una forma comprensibile, al solo fine di ottenere le informazioni necessarie per garantire l’interoperabilità con altri programmi autonomamente creati. Tale attività è subordinata a rigorose condizioni: deve essere effettuata da soggetti legittimati, le informazioni non devono essere altrimenti disponibili e le operazioni devono essere limitate alle porzioni strettamente indispensabili del programma originario.
Le informazioni così ottenute non possono essere utilizzate per scopi diversi da quelli previsti, né per creare un programma sostanzialmente simile, né per lo sviluppo o la commercializzazione di prodotti concorrenti. Le clausole contrattuali che intendano escludere tali diritti sono espressamente dichiarate nulle ex lege.
Protezione del software e disciplina contrattuale
Nell’ambito delle relazioni giuridiche che si instaurano attorno alla creazione, allo sviluppo e alla diffusione dei programmi per elaboratore, la contrattualizzazione dei diritti rappresenta un presidio essenziale per garantire un’effettiva ed efficace protezione del software. Se, da un lato, la legge riconosce automaticamente al creatore dell’opera la titolarità originaria dei diritti d’autore, dall’altro lato, la circolazione dei diritti patrimoniali e la legittimazione all’uso del software da parte di soggetti terzi richiedono, in via generale, la stipulazione di accordi negoziali chiari e puntuali, in grado di regolare gli aspetti connessi alla titolarità, alla licenza, all’ambito di utilizzabilità e alla riservatezza del codice.
La disciplina contrattuale assume particolare rilevanza nelle ipotesi di sviluppo su commissione e di collaborazione esterna, nelle quali il committente, pur fornendo le specifiche funzionali o partecipando alla definizione degli obiettivi progettuali, non acquista automaticamente i diritti patrimoniali sul software realizzato. In assenza di una specifica clausola di cessione, infatti, i diritti restano in capo all’autore, con conseguenze rilevanti sulla possibilità di utilizzare, modificare o commercializzare il programma.
I contratti di sviluppo software, licenza d’uso, cessione dei diritti, manutenzione e aggiornamento, collaborazione tecnica o outsourcing costituiscono gli strumenti attraverso cui le imprese possono delineare in modo coerente e sicuro il perimetro giuridico dell’utilizzo del software. In tali contratti è altresì opportuno disciplinare in modo puntuale la titolarità del codice sorgente, l’eventuale obbligo di consegna, le modalità di intervento sul codice in caso di modifiche o aggiornamenti, nonché le responsabilità derivanti da eventuali violazioni di diritti di terzi.
Protezione del software, licenze e registrazione del brevetto: cenni
Nel contesto della protezione del software, un ruolo centrale è svolto dalla disciplina delle licenze d’uso, attraverso cui il titolare dei diritti patrimoniali autorizza terzi all’utilizzo del programma, entro limiti giuridicamente vincolanti. Tali licenze, che possono assumere forma proprietaria, open source o as-a-service, costituiscono strumenti essenziali nella regolazione del mercato digitale e saranno oggetto di specifico approfondimento.
Accanto alla tutela autorale, in via eccezionale, è possibile ottenere la protezione brevettuale del software, qualora esso sia incorporato in un’invenzione tecnica e produca un effetto tecnico ulteriore. Trattandosi di un ambito che richiede la presenza di stringenti requisiti di brevettabilità, sarà esaminato con maggiore dettaglio in un contributo dedicato.
Infine, occorre richiamare la disciplina delle banche dati, la cui protezione può avvenire sia attraverso il diritto d’autore, ove ricorra un apporto creativo nella selezione o organizzazione dei contenuti, sia mediante il diritto sui generis riconosciuto al costitutore che abbia sostenuto un investimento rilevante. Anche questo tema, strettamente connesso alla gestione del patrimonio informativo aziendale, sarà approfondito in modo sistematico in una trattazione autonoma.
Know-how, segreti commerciali e altri strumenti di protezione del software
Oltre alla tutela autorale e, nei casi ammessi, brevettuale, la protezione del software può essere efficacemente perseguita anche attraverso il ricorso a strumenti giuridici che valorizzano il carattere riservato delle informazioni tecniche, funzionali e organizzative incorporate nel programma. In particolare, il know-how e i segreti commerciali, intesi come insieme di conoscenze aziendali non divulgate, dotate di valore economico e sottoposte a misure ragionevoli di protezione, costituiscono un presidio essenziale nella salvaguardia delle soluzioni digitali proprietarie.
La disciplina applicabile, rafforzata dal recepimento della Direttiva (UE) 2016/943, consente di agire contro l’acquisizione, l’uso o la divulgazione illecita delle informazioni protette, anche in assenza di registrazione formale. Tale forma di tutela è particolarmente rilevante per quei software non distribuiti al pubblico o sviluppati per uso interno, il cui valore risiede nella loro esclusività funzionale e nella difficoltà di replicazione.
Le implicazioni giuridiche della tutela del know-how, anche sotto il profilo contrattuale e concorsuale, saranno oggetto di successivo approfondimento, unitamente agli strumenti organizzativi per la sua efficace protezione in ambito aziendale.
Protezione del software e supporto legale. Affidati a noi
La protezione del software, nelle sue molteplici articolazioni, rappresenta una leva determinante per la tutela e la valorizzazione del patrimonio immateriale dell’impresa. In un contesto in cui il valore economico risiede sempre più negli intangibles – codice, algoritmi, architetture digitali, banche dati, interfacce, documentazione tecnica – è essenziale affiancare alla visione tecnologica una consapevole strategia giuridica, capace di prevenire conflitti, consolidare i diritti e attrarre investimenti.
Lo Studio Legale D’Agostino affianca imprese, professionisti e start-up nei processi e nelle strategie di tutela del software, offrendo supporto nella redazione di contratti, nella gestione dei diritti d’autore, nell’impostazione di strategie di licenza e nella protezione del know-how aziendale.

Studio Legale D’Agostino. Protezione del software e assistenza legale sul programma per elaboratore e diritto d’autore.
da Redazione | Mar 20, 2025 | Diritto civile
Le controversie in materia di eredità e successione sono tra le più frequenti nei contenziosi civili e, se non risolte tempestivamente, possono sfociare in lunghi e dispendiosi procedimenti giudiziari. Invero, la gestione di un’eredità può spesso generare tensioni e contrasti tra gli eredi, soprattutto quando vi sono beni indivisi, disposizioni testamentarie di dubbia interpretazione o soggetti che ritengono lesi i propri diritti successori.
Per prevenire tali criticità e favorire la composizione amichevole delle liti ereditarie, l’ordinamento giuridico italiano prevede la possibilità di ricorrere alla mediazione civile quale strumento di risoluzione alternativa delle controversie (ADR – Alternative Dispute Resolution).
La mediazione consente alle parti di dialogare con l’ausilio di un mediatore imparziale, con l’obiettivo di raggiungere un accordo che soddisfi le esigenze di tutti i soggetti coinvolti nella successione. Oltre a rappresentare un’opzione più celere ed economica rispetto al contenzioso giudiziario, la mediazione in materia di eredità e successione ha il pregio di preservare i rapporti familiari, evitando che le controversie degenerino in conflitti insanabili.
Il presente articolo analizza l’istituto della mediazione civile nel contesto successorio, illustrandone il funzionamento, i vantaggi e le principali tipologie di controversie ereditarie che possono trovare soluzione attraverso questo strumento.
L’istituto della mediazione civile in materia di eredità e successione
La mediazione civile è un procedimento di risoluzione alternativa delle controversie che consente alle parti di evitare il ricorso all’autorità giudiziaria, favorendo il raggiungimento di un accordo con l’intervento di un mediatore imparziale.
In ambito successorio, tale strumento assume particolare rilevanza, poiché le controversie relative a eredità e successione spesso coinvolgono legami familiari e sentimentali che possono risentire di una lunga e complessa battaglia giudiziaria. La mediazione, al contrario, permette agli eredi di confrontarsi in un contesto più collaborativo, con l’obiettivo di trovare soluzioni che soddisfino le esigenze di tutti i soggetti coinvolti.
L’ordinamento giuridico italiano disciplina la mediazione civile con il Decreto Legislativo 4 marzo 2010, n. 28, il quale prevede che in determinate materie, tra cui le successioni ereditarie, la mediazione sia un passaggio obbligatorio prima di poter adire il giudice. Ai sensi dell’art. 5 del decreto, chi intende promuovere un’azione giudiziaria in materia successoria è tenuto preliminarmente a esperire il tentativo di mediazione. In mancanza di tale adempimento, il giudice potrà dichiarare l’improcedibilità della domanda e invitare le parti ad avviare la procedura di mediazione prima di proseguire il giudizio.
Oltre alla mediazione obbligatoria, la normativa prevede anche la mediazione volontaria, che può essere attivata su iniziativa spontanea delle parti in qualsiasi momento, anche in assenza di un contenzioso già avviato. In aggiunta, vi è la mediazione delegata dal giudice, che può essere disposta nel corso di un procedimento civile quando il magistrato ritiene che la controversia possa essere risolta in via extragiudiziale.
Indipendentemente dalla modalità di accesso alla mediazione, il procedimento offre un’alternativa vantaggiosa al contenzioso ordinario, sia in termini di rapidità che di riduzione dei costi, con effetti particolarmente positivi nelle dispute relative a eredità e successione, dove la necessità di una composizione amichevole è spesso essenziale per la tutela dei rapporti familiari.
Il procedimento di mediazione civile in materia di eredità e successione
La mediazione civile in materia di eredità e successione può essere avviata su iniziativa di un coerede o di un altro soggetto interessato che intenda risolvere una controversia ereditaria senza ricorrere immediatamente al giudice. Il primo passo è la presentazione di un’istanza presso un organismo di mediazione accreditato, nella quale devono essere indicate le generalità delle parti coinvolte, l’oggetto della disputa e le richieste avanzate.
Chi intende promuovere la mediazione deve valutare attentamente la propria posizione giuridica e impostare una strategia negoziale efficace, motivo per cui è sempre consigliabile rivolgersi a un avvocato con competenze in eredità e successione (diritto successorio). Il legale non solo assisterà il cliente nella redazione della domanda di mediazione, ma lo guiderà anche nell’individuazione degli obiettivi da perseguire durante il procedimento.
Chi riceve la convocazione in mediazione deve, a sua volta, adottare una strategia adeguata, valutando se partecipare attivamente alla procedura o se contestare la richiesta avanzata dalla controparte. Sebbene la mediazione sia formalmente un procedimento extragiudiziale, il mancato riscontro alla convocazione può comportare conseguenze sfavorevoli per la parte assente, sia sotto il profilo processuale che dal punto di vista della gestione dei rapporti familiari e patrimoniali. Per questa ragione, anche chi viene citato in mediazione deve farsi assistere da un legale, che potrà valutare la fondatezza della pretesa avanzata e suggerire le migliori opzioni difensive o transattive.
Una volta depositata l’istanza, l’organismo di mediazione nomina un mediatore imparziale e fissa il primo incontro, che deve svolgersi entro trenta giorni dalla presentazione della domanda. Durante questa prima fase, il mediatore illustra il funzionamento del procedimento e verifica la disponibilità delle parti a proseguire con la mediazione. Se entrambe le parti accettano di partecipare, il mediatore organizza una serie di sessioni in cui ciascuno degli eredi può esporre le proprie ragioni e proporre soluzioni per la risoluzione della controversia.
La durata media della procedura di mediazione in materia di eredità e successione è di circa tre mesi (salvi casi particolarmente complessi), termine entro il quale le parti devono cercare di raggiungere un accordo. Se la mediazione si conclude positivamente, viene redatto un verbale che ha valore di titolo esecutivo, il che significa che, in caso di inadempimento, potrà essere direttamente eseguito come una sentenza.
Qualora, invece, non si raggiunga un accordo, la procedura si chiude con esito negativo e le parti possono liberamente intraprendere un’azione giudiziaria. Tuttavia, l’esperimento della mediazione, anche se non andato a buon fine, costituisce comunque un passaggio necessario poiché essa è una condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
Eredità e successioni: le controversie più frequenti e il ruolo della mediazione civile
Le dispute in materia di eredità e successione possono sorgere per una molteplicità di ragioni, spesso legate a divergenze interpretative sulle disposizioni testamentarie, alla determinazione delle quote di legittima o alla gestione dei beni ereditati in comproprietà tra coeredi. Questi conflitti, se non risolti tempestivamente, possono sfociare in lunghi procedimenti giudiziari, con conseguente aumento dei costi e deterioramento dei rapporti familiari.
Tra le controversie ereditarie più frequenti vi è la riduzione delle disposizioni testamentarie per violazione della quota di legittima, che si verifica quando il testatore ha attribuito a uno o più beneficiari una parte dell’eredità eccedente i limiti stabiliti dalla legge, ledendo i diritti degli eredi legittimari. In questi casi, il soggetto leso può agire per la riduzione delle disposizioni testamentarie eccedenti, con il rischio di aprire un contenzioso che potrebbe protrarsi per anni. La mediazione consente di trovare una soluzione equilibrata, evitando il ricorso al giudice e garantendo una redistribuzione dei beni conforme agli interessi di tutte le parti.
Un’altra fonte di conflitto riguarda l’impugnazione del testamento olografo per falsità, quando uno degli eredi contesta l’autenticità delle volontà espresse dal de cuius. Tali contestazioni richiedono spesso complesse perizie grafologiche e accertamenti giudiziari, con il rischio di prolungare notevolmente i tempi della successione. In questi casi, la mediazione può offrire un terreno di confronto più rapido ed efficace, permettendo di giungere a un’intesa che eviti il contenzioso.
La collazione ereditaria, ossia l’obbligo per gli eredi di conferire nell’asse ereditario i beni ricevuti in donazione dal defunto in vita, rappresenta un ulteriore motivo di conflitto. Gli eredi possono avere opinioni divergenti sulla natura delle donazioni ricevute e sul valore attribuito ai beni, generando una situazione di stallo nella divisione dell’asse ereditario. Attraverso la mediazione, le parti possono trovare un accordo sulla determinazione del valore dei beni da conferire e sulle modalità di reintegrazione dell’asse ereditario.
Un altro tema particolarmente delicato è il divieto di patti successori, sancito dall’articolo 458 del Codice Civile, che impedisce agli eredi di stipulare accordi sulla futura successione di una persona ancora in vita. Nonostante questo divieto, è frequente che tra i familiari si formino intese informali o che vi siano aspettative che, alla morte del de cuius, sfociano in contestazioni legali.
La divisione ereditaria è spesso la questione più complessa da risolvere, specialmente quando il patrimonio ereditario comprende beni immobili o aziende di famiglia. In assenza di un accordo tra gli eredi, la divisione giudiziale può comportare la vendita forzata dei beni e la ripartizione del ricavato, soluzione che spesso non è gradita agli interessati.
In tutte queste ipotesi, la mediazione in materia di eredità e successione rappresenta uno strumento flessibile ed efficace, in grado di adattarsi alle esigenze specifiche delle parti e di preservare, per quanto possibile, i rapporti familiari. La possibilità di trovare soluzioni personalizzate, con il supporto di un legale, rende questa procedura preferibile rispetto alla rigidità della decisione giudiziale, spesso vissuta come un’imposizione da parte degli eredi.
I vantaggi della mediazione civile nelle successioni ereditarie
La mediazione civile applicata alle controversie in materia di eredità e successione offre una serie di vantaggi significativi rispetto al contenzioso giudiziario, sia in termini di tempi e costi, sia sotto il profilo della gestione dei rapporti familiari. A differenza del procedimento innanzi al giudice, che può protrarsi per anni e comportare oneri economici rilevanti, la mediazione consente di raggiungere un accordo in tempi più brevi, generalmente entro un termine di tre mesi dalla presentazione della domanda.
Sotto il profilo economico, i costi della mediazione sono generalmente inferiori rispetto a quelli di un giudizio ordinario. Le spese per l’avvio della procedura e per la partecipazione alle sessioni di mediazione sono contenute, se confrontate con le spese legali e peritali che un’azione giudiziaria potrebbe comportare. Inoltre, il compenso del mediatore è stabilito secondo parametri predeterminati e pubblicamente consultabili, garantendo trasparenza e prevedibilità dei costi.
Un ulteriore vantaggio della mediazione in materia di eredità e successione riguarda la possibilità di trovare soluzioni personalizzate e flessibili. Mentre il giudizio civile si conclude con una sentenza che impone una decisione alle parti, la mediazione lascia spazio alla negoziazione, consentendo di definire accordi che rispondano in modo più adeguato alle esigenze specifiche degli eredi.
Ad esempio, nella divisione ereditaria, le parti possono concordare modalità di assegnazione dei beni che tengano conto di legami affettivi, vincoli familiari o interessi economici, evitando così la vendita forzata e la distribuzione pro-quota imposta dal tribunale.
Anche sul piano della riservatezza il procedimento di mediazione presenta indubbi vantaggi. Mentre le cause giudiziarie sono soggette a pubblicità (il c.d. strepitus fori) e possono essere oggetto di consultazione nei registri del tribunale, la mediazione garantisce la tutela della privacy, permettendo agli eredi di discutere questioni patrimoniali e familiari senza esposizione pubblica. Questa caratteristica risulta particolarmente utile nei casi in cui il patrimonio ereditario comprenda aziende di famiglia, beni di valore storico o culturale, o situazioni delicate che potrebbero essere oggetto di speculazioni esterne.
Un ulteriore incentivo alla scelta della mediazione nelle controversie ereditarie è rappresentato dai benefici fiscali previsti dalla normativa vigente. In particolare, è riconosciuto un credito d’imposta alle parti che partecipano alla procedura di mediazione, commisurato alle spese sostenute per l’indennità corrisposta all’organismo di mediazione e per i compensi degli avvocati. Nello specifico, la parte ha diritto a un credito d’imposta fino a €600 sull’indennità pagata all’organismo in caso di accordo conciliativo, ridotto a €300 se la procedura si conclude senza accordo.
Infine, la mediazione consente di mantenere un certo grado di controllo sulla soluzione del conflitto. Nel processo ordinario, le parti sono vincolate alla decisione del giudice, che può non rispecchiare appieno le loro esigenze e aspettative. Nella mediazione, invece, gli eredi conservano la possibilità di accettare o rifiutare una determinata proposta, rendendo l’accordo più sostenibile nel tempo e riducendo il rischio di successivi contenziosi.
L’importanza dell’assistenza legale nella mediazione in materia di eredità e successione
Sebbene la mediazione civile sia un procedimento improntato alla flessibilità e al dialogo, la complessità delle questioni giuridiche in materia di eredità e successione rende fondamentale l’assistenza di un avvocato con competenze nel diritto successorio. Il ruolo del legale è determinante sin dalla fase preliminare, poiché consente di valutare la fondatezza delle proprie pretese e di impostare una strategia efficace per il raggiungimento di un accordo vantaggioso.
L’avvocato assiste il proprio cliente nella redazione dell’istanza di mediazione o nella gestione della risposta alla convocazione, tutelandone i diritti e guidandolo nelle trattative con gli altri coeredi. Durante il procedimento, il legale verifica la validità delle proposte conciliative, assicurandosi che l’accordo sia conforme alla normativa e risponda agli interessi della parte assistita.
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Avvocato Luca D’agostino, servizi legali in diritto civile a Roma. Focus su mediazione civile, eredità e successione
da Redazione | Mar 18, 2025 | Diritto d'Impresa
Il decreto DORA (D. Lgs. 10 marzo 2025, n. 23) ha introdotto le disposizioni necessarie per garantire la piena applicabilità nell’ordinamento italiano del Regolamento (UE) 2022/2554, noto come Digital Operational Resilience Act (DORA).
A partire dal 17 gennaio 2025, il Regolamento DORA è divenuto direttamente applicabile in tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, imponendo standard uniformi in materia di resilienza operativa digitale nel settore finanziario. Tuttavia, per garantire un’effettiva implementazione delle disposizioni europee nel contesto normativo nazionale, si è reso necessario l’intervento del legislatore italiano, che con il decreto DORA ha individuato le autorità competenti, precisato gli obblighi di compliance e disciplinato il regime sanzionatorio.
L’obiettivo di questo articolo è quello di fornire una panoramica del D. Lgs. 23/2025, analizzando gli obblighi posti a carico delle entità finanziarie, le competenze delle autorità di vigilanza e il sistema delle sanzioni previste per il mancato rispetto delle disposizioni. Si esamineranno in particolare gli articoli più rilevanti del decreto, evidenziando come il legislatore italiano abbia provveduto a integrare il quadro normativo europeo con specifiche misure attuative.
Per un’analisi più approfondita sulle implicazioni del Regolamento DORA, invitiamo i lettori a consultare i nostri precedenti articoli relativi all’analisi dei rischi e agli obblighi di resilienza operativa nel settore finanziario. Tali approfondimenti consentiranno di comprendere in modo più chiaro anche le novità introdotte dal Decreto DORA.
Il decreto DORA e l’adeguamento dell’ordinamento italiano
Con il decreto DORA il legislatore ha adeguato le disposizioni nazionali al Regolamento (UE) 2022/2554, armonizzando la disciplina al nuovo quadro sulla resilienza operativa digitale nel settore finanziario. La necessità di un adeguamento normativo deriva dal carattere direttamente applicabile del Regolamento DORA, che, tuttavia, lascia agli Stati membri il compito di definire aspetti operativi rilevanti, tra cui le autorità competenti, il sistema di vigilanza e le sanzioni per le violazioni degli obblighi imposti dalla disciplina europea.
L’articolo 2 del decreto DORA chiarisce che il provvedimento ha lo scopo di assicurare l’effettiva applicazione del Regolamento (UE) 2022/2554, disciplinando l’integrazione con la normativa nazionale preesistente, in particolare con il Testo Unico Bancario (TUB), il Testo Unico della Finanza (TUF) e il Codice delle Assicurazioni Private. Inoltre, il legislatore ha ritenuto necessario stabilire un quadro di coordinamento tra le disposizioni del Regolamento DORA e le norme già vigenti in materia di sicurezza informatica, in particolare quelle introdotte dal D. Lgs. 138/2024, con cui l’Italia ha recepito la Direttiva NIS 2.
Le autorità competenti nel decreto DORA
Il decreto DORA, attraverso l’articolo 3, individua le autorità competenti per l’attuazione e la vigilanza sulle disposizioni del Regolamento (UE) 2022/2554 in ambito nazionale. La scelta del legislatore italiano si è orientata verso un modello di supervisione plurale, affidando le funzioni di controllo a più enti, ciascuno competente in relazione ai soggetti vigilati. In particolare, la Banca d’Italia, la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob), l’Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni (IVASS) e la Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione (COVIP) sono state designate quali Autorità competenti DORA, in conformità con quanto previsto dall’articolo 46 del Regolamento DORA.
La Banca d’Italia assume un ruolo centrale nella vigilanza sugli obblighi di resilienza operativa digitale, essendo responsabile del controllo sugli intermediari finanziari, su Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. e su Bancoposta. La Consob è invece l’ente deputato a monitorare l’attuazione delle norme DORA per quanto riguarda le società di intermediazione mobiliare (SIM), le società di gestione del risparmio (SGR) e gli altri soggetti del mercato finanziario regolamentato. Analogamente, l’IVASS esercita le proprie funzioni di vigilanza sulle imprese assicurative, mentre la COVIP è l’autorità di riferimento per i fondi pensione.
Oltre a queste autorità di settore, il decreto DORA stabilisce un collegamento con l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (ACN), che assume il ruolo di Autorità nazionale competente NIS ai sensi dell’articolo 10 del D. Lgs. 138/2024. L’ACN opera in sinergia con il CSIRT Italia, il team nazionale per la gestione degli incidenti di cybersicurezza, che ha il compito di ricevere segnalazioni e coordinare le risposte alle minacce informatiche. Tale sistema di collaborazione tra diverse autorità è stato previsto per garantire un coordinamento efficace tra la normativa sulla resilienza digitale nel settore finanziario e il quadro generale di cybersecurity nazionale.
Il decreto prevede anche la possibilità di definire protocolli d’intesa tra le autorità di vigilanza, al fine di regolamentare lo scambio di informazioni e l’adozione di misure coordinate in materia di resilienza operativa digitale.
Il decreto DORA e gli obblighi di resilienza operativa digitale
L’articolo 6 del decreto DORA disciplina in modo specifico gli obblighi di resilienza operativa digitale posti a carico degli intermediari finanziari, sancendo l’applicabilità di un cospicuo numero di disposizioni del Regolamento DORA. Il primo comma dell’articolo 6 stabilisce che tali disposizioni si applicano “in quanto compatibili”, una clausola di portata incerta, che non consente di delineare con chiarezza l’effettiva applicabilità di ogni singola norma nel contesto nazionale. Questo significa che gli intermediari finanziari saranno onerati di una valutazione caso per caso, al fine di stabilire in che misura ciascuna disposizione del Regolamento DORA trovi applicazione nel loro specifico settore.
Tuttavia, appare plausibile ritenere che il principio di compatibilità debba essere interpretato in senso estensivo, con la conseguenza che la maggioranza delle disposizioni del Regolamento si intenderà applicabile a questi soggetti. Di fatto, il decreto DORA introduce un modello di compliance generalizzata, che impone agli intermediari finanziari l’adozione di misure di sicurezza avanzate per la protezione delle infrastrutture digitali e dei dati sensibili.
Una deroga è prevista dal secondo comma dell’articolo 6, che introduce una clausola di esenzione a favore degli intermediari finanziari qualificati come microimprese. Per questi soggetti non si applica l’articolo 24 del Regolamento DORA, che disciplina i requisiti generali per lo svolgimento dei test di resilienza operativa digitale. In sostituzione degli obblighi più stringenti previsti dal Regolamento, il terzo comma dell’articolo 25 del Regolamento DORA prevede un regime agevolato per lo svolgimento dei test di resilienza digitale da parte delle microimprese.
Tali soggetti potranno combinare un approccio basato sul rischio con una pianificazione strategica delle verifiche relative alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC). L’obiettivo è garantire un equilibrio tra le risorse disponibili e la necessità di verificare periodicamente la tenuta dei sistemi informatici, tenendo conto della criticità dei dati gestiti, dell’urgenza degli interventi e della capacità dell’impresa di gestire i rischi in modo proporzionato.
Infine, il terzo comma dell’articolo 6 conferisce alla Banca d’Italia un potere regolamentare significativo, che le consente di individuare, nelle disposizioni attuative adottate ai sensi dell’articolo 9, una categoria di intermediari finanziari ai quali, in base alla dimensione e all’attività svolta, si applichino le disposizioni ordinarie del Regolamento DORA, anziché il regime semplificato previsto dall’articolo 16, paragrafi 1 e 2. In particolare, tali soggetti potrebbero essere sottoposti agli obblighi previsti dagli articoli 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13 e 14 del Regolamento DORA, evitando l’applicazione del quadro semplificato per la gestione dei rischi informatici.
Ciò significa che la Banca d’Italia potrà stabilire che determinati intermediari finanziari, pur di dimensioni contenute, siano comunque soggetti agli obblighi più stringenti in materia di gestione del rischio digitale, in ragione della loro attività e della loro incidenza sul sistema finanziario.
Segnalazione degli incidenti nel decreto DORA
L’articolo 4 del decreto DORA disciplina il sistema di segnalazione degli incidenti informatici nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) e la notifica volontaria delle minacce informatiche significative, in attuazione dell’articolo 19 del Regolamento DORA. La disposizione attribuisce agli intermediari finanziari, alle infrastrutture di mercato finanziario e agli altri soggetti obbligati l’onere di segnalare tempestivamente qualsiasi grave incidente TIC alle autorità competenti DORA, secondo precise modalità stabilite dal decreto.
Le autorità competenti per la ricezione delle segnalazioni sono state individuate sulla base della tipologia di soggetto vigilato. In particolare, la Banca d’Italia è competente per ricevere le notifiche provenienti dalle banche, dagli intermediari finanziari, da Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. e da Bancoposta. La Consob, invece, riceve le segnalazioni da parte delle SIM, delle SGR e delle altre entità finanziarie vigilate ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettere g) e i), del Regolamento DORA. Per quanto riguarda le imprese assicurative, la competenza spetta all’IVASS, mentre la COVIP è responsabile della ricezione delle notifiche relative ai fondi pensione.
Una disposizione di particolare rilievo è contenuta nel comma 2 dell’articolo 4, secondo cui, nel caso in cui un’entità finanziaria sia soggetta alla vigilanza di più autorità competenti DORA, la prima autorità ricevente è tenuta a trasmettere tempestivamente la notifica iniziale e i successivi aggiornamenti alle altre autorità di vigilanza coinvolte. Questo meccanismo di cooperazione interistituzionale mira a evitare duplicazioni di segnalazioni e a garantire un coordinamento efficace tra le diverse autorità competenti.
Un ulteriore livello di obblighi è previsto per le entità finanziarie appartenenti al settore bancario e delle infrastrutture dei mercati finanziari, qualora queste siano classificate come soggetti critici ai sensi della Direttiva (UE) 2022/2557. Per tali soggetti, l’articolo 4, comma 3, del decreto DORA prevede che la notifica iniziale dei gravi incidenti TIC debba essere trasmessa anche al CSIRT Italia, secondo i modelli e i termini stabiliti dall’articolo 20 del Regolamento DORA.
Il comma 4 dell’articolo 4 del Decreto DORA introduce invece la possibilità per le entità finanziarie di effettuare notifiche volontarie relative a minacce informatiche significative, in aggiunta agli obblighi di segnalazione degli incidenti TIC già previsti. Le notifiche volontarie possono essere trasmesse anche al CSIRT Italia, con la garanzia che le informazioni fornite rimangano coperte dal segreto d’ufficio. L’obiettivo di questa previsione è incoraggiare una maggiore collaborazione tra il settore finanziario e le istituzioni preposte alla cybersicurezza, al fine di sviluppare un sistema di condivisione delle informazioni sulle minacce emergenti.
Sanzioni nel decreto DORA: il regime sanzionatorio nel TUB
L’articolo 10 del decreto DORA introduce importanti modifiche al Testo Unico Bancario (TUB), con l’obiettivo di disciplinare il regime sanzionatorio applicabile alle banche, agli intermediari finanziari e ai fornitori terzi di servizi TIC che non rispettano gli obblighi imposti dal Regolamento (UE) 2022/2554. Il legislatore ha integrato le disposizioni del TUB introducendo nuovi commi all’articolo 144, nei quali vengono specificate le sanzioni per le violazioni delle norme sulla resilienza operativa digitale.
Il comma 8-bis stabilisce che l’inosservanza di una serie di disposizioni del Regolamento DORA, tra cui gli articoli 5, 6, 16, 19 e 24, nonché delle relative norme tecniche di regolamentazione e attuazione, comporta l’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie. In particolare, nei confronti delle banche, degli intermediari finanziari e dei fornitori terzi di servizi TIC, la sanzione può variare da un minimo di 30.000 euro fino al 10% del fatturato dell’ente responsabile. Per gli istituti di pagamento e gli istituti di moneta elettronica, la sanzione può arrivare fino a 5 milioni di euro, o, qualora il fatturato dell’ente sia superiore a tale cifra, fino al 10% del fatturato complessivo.
Il successivo comma 8-ter disciplina ulteriori ipotesi sanzionatorie per le violazioni di altre disposizioni del Regolamento DORA, tra cui gli articoli 7, 8, 9, 11, 13, 14, 18, 25, 26, 27, 28, 29 e 30. Anche in questo caso, il decreto prevede un sistema sanzionatorio progressivo, stabilendo che le banche, gli intermediari finanziari e i fornitori di servizi TIC possano essere sanzionati con un importo che varia da 30.000 euro fino al 7% del fatturato annuo. Per gli istituti di pagamento e gli istituti di moneta elettronica, la soglia massima della sanzione pecuniaria viene fissata a 3,5 milioni di euro, salvo che il 7% del fatturato annuo risulti un importo superiore.
Di particolare rilievo è poi la disciplina introdotta dal nuovo comma 2-bis dell’articolo 144-ter del TUB, che introduce un regime sanzionatorio specifico per le persone fisiche responsabili delle violazioni. In caso di inosservanza delle disposizioni di cui ai commi 8-bis e 8-ter, le persone fisiche che ricoprono ruoli di amministrazione, direzione o controllo all’interno delle entità responsabili possono essere sanzionate con una sanzione amministrativa pecuniaria variabile da 5.000 euro fino a 5 milioni di euro, nel caso delle violazioni più gravi. Se la violazione riguarda le disposizioni meno stringenti, la soglia massima si riduce a 3,5 milioni di euro.
L’articolo 144-ter, comma 2-ter, introduce inoltre un regime di responsabilità personale aggravata, stabilendo che la sanzione per le persone fisiche si applica quando la violazione deriva dalla mancata osservanza di doveri propri del soggetto, o quando la condotta abbia inciso in modo significativo sulla struttura organizzativa dell’ente o sulla sua gestione del rischio aziendale. Inoltre, qualora la violazione sia connessa al mancato rispetto di provvedimenti specifici adottati dalla Banca d’Italia, la sanzione può essere ulteriormente inasprita.
Infine, il comma 2-quater dell’articolo 144-ter introduce una previsione particolarmente severa per i casi in cui la violazione abbia comportato un vantaggio economico per l’autore della condotta illecita. Se il profitto ottenuto dalla violazione supera il limite massimo della sanzione prevista, la sanzione potrà essere raddoppiata fino a raggiungere un importo pari al doppio del vantaggio economico indebitamente ottenuto.
Sanzioni nel decreto DORA: il regime sanzionatorio nel TUF
L’articolo 10 del decreto DORA introduce un rigoroso regime sanzionatorio per gli intermediari finanziari, mediante l’inserimento del nuovo articolo 190-bis.3 nel Testo Unico della Finanza (TUF). La norma disciplina le sanzioni amministrative applicabili alle Società di Intermediazione Mobiliare (SIM), alle Società di Gestione del Risparmio (SGR), alle Società di Investimento a Capitale Variabile (SICAV), alle Società di Investimento a Capitale Fisso (SICAF), nonché agli altri soggetti operanti nei mercati finanziari, con particolare attenzione ai fornitori terzi di servizi TIC.
Il primo comma dell’articolo 190-bis.3 del TUF stabilisce le sanzioni pecuniarie per l’inosservanza di una serie di obblighi imposti dal Regolamento (UE) 2022/2554, tra cui gli articoli 5, 6, 10, 12, 16, 17, 19 e 24, relativi alla resilienza operativa digitale e alla gestione del rischio informatico.
Per le SIM, le SGR, le SICAV, le SICAF, le controparti centrali e i gestori di mercati regolamentati, la sanzione può variare da 30.000 euro fino a 5 milioni di euro, oppure fino al 10% del fatturato annuo, qualora quest’ultimo risulti superiore a tale soglia. Per i depositari centrali di titoli, la sanzione può raggiungere 20 milioni di euro o il 10% del fatturato, mentre per i fornitori di servizi di crowdfunding, la sanzione pecuniaria è compresa tra 500 e 500.000 euro, con un limite del 5% del fatturato annuo. Analogamente, per gli amministratori di indici di riferimento critici, la sanzione massima è fissata a 1 milione di euro o il 10% del fatturato.
Il secondo comma dell’articolo 190-bis.3 introduce un regime sanzionatorio specifico per le persone fisiche che abbiano violato le disposizioni del Regolamento DORA. In caso di inadempienza da parte di amministratori, dirigenti o responsabili della compliance, la sanzione pecuniaria può variare da 5.000 euro fino a 5 milioni di euro, a seconda della gravità della violazione e del tipo di soggetto coinvolto. Per i fornitori di servizi di crowdfunding, la sanzione pecuniaria per le persone fisiche può arrivare a 500.000 euro, mentre per gli amministratori di indici di riferimento critici, la soglia massima è di 500.000 euro.
Il terzo comma dell’articolo 190-bis.3 disciplina un’ulteriore ipotesi di violazione, che riguarda il mancato rispetto di specifici obblighi previsti dagli articoli 7, 8, 9, 11, 13, 14, 18, 25, 26, 27, 28, 29, 30 e 31 del Regolamento DORA. In questi casi, la sanzione massima per SIM, SGR, SICAV, SICAF e controparti centrali può arrivare a 3,5 milioni di euro, oppure fino al 7% del fatturato annuo. Per i depositari centrali di titoli, la multa può raggiungere 14 milioni di euro, mentre per i fornitori di crowdfunding, la sanzione varia tra 500 e 350.000 euro, con un limite del 3,5% del fatturato.
Si prevedono specifiche sanzioni per le persone fisiche, qualora abbiano avuto un ruolo diretto nella violazione delle disposizioni del Regolamento DORA. In questi casi, l’importo della sanzione pecuniaria può arrivare a 3,5 milioni di euro per i soggetti responsabili di SIM, SGR, SICAV, SICAF e depositari centrali di titoli, e fino a 350.000 euro per i fornitori di servizi di crowdfunding e gli amministratori di indici di riferimento critici.
Il quinto comma dell’articolo 190-bis.3 introduce una clausola di responsabilità aggravata per i dirigenti, amministratori e soggetti che esercitano funzioni di controllo all’interno degli intermediari finanziari. Se la violazione è conseguenza del mancato rispetto di obblighi specifici o ha inciso significativamente sulla gestione del rischio aziendale, il soggetto responsabile potrà essere sanzionato personalmente. Inoltre, se la violazione ha comportato l’inosservanza di provvedimenti adottati da Consob o Banca d’Italia, la sanzione sarà più severa.
Vi è una sanzione rafforzata nel caso in cui la violazione abbia comportato un vantaggio economico superiore al massimo della multa prevista. In questo caso, la sanzione potrà essere raddoppiata fino a un importo pari al doppio del vantaggio economico ottenuto, purché l’ammontare sia determinabile.
Infine, il settimo comma dell’articolo 190-bis.3 prevede sanzioni accessorie per i soggetti responsabili di violazioni gravi. In caso di infrazione particolarmente rilevante, potrà essere applicata l’interdizione dall’esercizio di funzioni di amministrazione, direzione o controllo all’interno di intermediari finanziari, per un periodo compreso tra sei mesi e tre anni.
Conclusioni
Il decreto DORA introduce un impianto normativo tecnico e articolato, caratterizzato da un elevato grado di complessità e da numerosi rinvii al Regolamento (UE) 2022/2554 e alla normativa settoriale preesistente. La sua applicazione presuppone una conoscenza approfondita del diritto bancario e dei mercati finanziari, oltre che una padronanza della disciplina in materia di cybersicurezza. L’integrazione tra questi due ambiti giuridici evidenzia la volontà del legislatore di rafforzare la resilienza operativa digitale attraverso un approccio interdisciplinare, che impone agli operatori finanziari di adottare misure strutturali per la sicurezza delle infrastrutture digitali.
Un ulteriore elemento di rilievo decreto DORA è rappresentato dalla gradualità dell’applicazione del Regolamento, che prevede un’attivazione progressiva degli obblighi normativi e un modello di compliance a più livelli. Questo implica che gli operatori soggetti alla disciplina debbano predisporre un piano di adeguamento dettagliato, rispettando le scadenze normative per evitare di trovarsi impreparati all’entrata in vigore delle disposizioni più stringenti. L’obbligo di segnalazione degli incidenti TIC, l’adozione di test di resilienza operativa e il monitoraggio della supply chain digitale impongono una pianificazione accurata, in modo da integrare le nuove misure di sicurezza all’interno della governance aziendale.
Il nostro Studio è a disposizione per supportare imprese e intermediari finanziari nell’adeguamento alla normativa, offrendo consulenza specialistica in materia di corporate compliance e cybersicurezza. L’approccio integrato e interdisciplinare dello Studio consente di affiancare le aziende nel processo di implementazione delle misure richieste dal decreto DORA, garantendo un supporto strategico nella definizione dei modelli organizzativi e nella gestione delle nuove responsabilità operative.
da Redazione | Mar 6, 2025 | Diritto d'Impresa
Il settore dei crediti in sofferenza è stato recentemente oggetto di un significativo intervento normativo volto a garantire maggiore trasparenza e stabilità nel mercato secondario del credito. Con il decreto legislativo n. 116 del 2024, l’Italia ha recepito la Direttiva (UE) 2021/2167 (Secondary Market Directive – SMD), introducendo un nuovo quadro regolatorio per gli acquirenti e i gestori di crediti in sofferenza.
La riforma, inserita nel Capo II del Titolo V del Testo Unico Bancario (TUB), ha comportato rilevanti novità, tra cui l’introduzione della figura del Gestore di crediti in sofferenza (Gestore NPL), soggetto vigilato e autorizzato dalla Banca d’Italia.
In attuazione di questa normativa, il 13 febbraio 2025 la Banca d’Italia ha pubblicato le Disposizioni di vigilanza per la gestione di crediti in sofferenza, disciplinando le condizioni per l’accesso al mercato, gli obblighi informativi e le modalità di operatività. Queste nuove regole hanno un impatto rilevante sugli operatori del settore, imponendo adempimenti specifici e scadenze rigorose per la regolarizzazione della loro attività.
Il presente articolo si propone di illustrare le principali novità introdotte, soffermandosi in particolare sulle tempistiche per l’autorizzazione e sugli obblighi connessi alla gestione dei crediti in sofferenza.
Crediti in sofferenza: il nuovo quadro normativo e il ruolo della Banca d’Italia
Il decreto legislativo n. 116/2024 ha riformato la disciplina dei crediti in sofferenza, introducendo un assetto normativo che regola l’attività degli acquirenti e dei gestori di crediti deteriorati, con l’obiettivo di garantire un mercato più trasparente ed efficiente. La riforma si inserisce nell’ambito del recepimento della Direttiva (UE) 2021/2167, che mira a facilitare lo sviluppo del mercato secondario dei crediti non performanti e a rafforzare le tutele nei confronti dei debitori ceduti.
A tal fine, il legislatore italiano ha modificato il Testo Unico Bancario (TUB), introducendo il nuovo Capo II del Titolo V, che disciplina le condizioni di accesso e operatività per i soggetti coinvolti nella gestione dei crediti in sofferenza.
Uno degli aspetti centrali della riforma è la regolamentazione dell’attività del Gestore di crediti in sofferenza (Gestore NPL), figura professionale che assume un ruolo chiave nella gestione dei crediti deteriorati. La normativa stabilisce che tali soggetti siano sottoposti a un regime autorizzativo e di vigilanza da parte della Banca d’Italia, al fine di assicurare il rispetto di elevati standard di correttezza e trasparenza.
Le nuove Disposizioni di vigilanza per la gestione di crediti in sofferenza, pubblicate il 13 febbraio 2025, disciplinano in dettaglio i requisiti organizzativi e operativi che i Gestori devono rispettare, nonché gli obblighi informativi nei confronti dell’Autorità di Vigilanza e dei potenziali acquirenti di crediti in sofferenza.
Il nuovo quadro normativo ha profonde implicazioni per il mercato, poiché introduce regole più stringenti per i soggetti che operano nel settore, ridefinendo le modalità con cui i crediti in sofferenza possono essere acquistati, gestiti ed eventualmente recuperati. In tale contesto, la Banca d’Italia ha assunto un ruolo centrale nel garantire la corretta applicazione della normativa, esercitando poteri di autorizzazione e supervisione per assicurare che l’attività dei Gestori NPL risponda ai principi di stabilità e tutela dei debitori.
Nell’ambito della nuova disciplina, per crediti in sofferenza si intendono le esposizioni creditizie per cassa e “fuori bilancio” nei confronti di soggetti che versano in uno stato di insolvenza, anche non accertato giudizialmente, o in situazioni assimilabili, indipendentemente dalle previsioni di perdita formulate dalla banca. Sono escluse le esposizioni la cui criticità sia riconducibile a profili di rischio legati al Paese di riferimento.
La gestione di crediti in sofferenza, invece, comprende una serie di attività finalizzate all’amministrazione di tali crediti, tra cui la riscossione e il recupero dei pagamenti dovuti dai debitori, la rinegoziazione dei termini e delle condizioni contrattuali in conformità alle istruzioni dell’acquirente, la gestione dei reclami presentati dai debitori e la comunicazione di eventuali variazioni relative agli oneri finanziari o ai pagamenti dovuti.
Crediti in sofferenza: i requisiti per l’autorizzazione dei Gestori NPL
L’accesso al mercato della gestione di crediti in sofferenza è subordinato all’ottenimento di un’apposita autorizzazione da parte della Banca d’Italia, che verifica il possesso di requisiti stringenti sotto il profilo organizzativo, patrimoniale e di onorabilità. La disciplina introdotta dal decreto legislativo n. 116 del 2024 prevede che i soggetti che intendono operare come Gestori di crediti in sofferenza (gestori NPL) debbano soddisfare una serie di condizioni, tra cui il possesso di specifici requisiti di idoneità da parte dei titolari di partecipazioni qualificate e degli esponenti aziendali.
In particolare, le Disposizioni di vigilanza per la gestione di crediti in sofferenza, pubblicate dalla Banca d’Italia il 13 febbraio 2025, stabiliscono che il soggetto richiedente debba dimostrare un’adeguata struttura organizzativa, un efficace sistema di controlli interni e procedure idonee a garantire la corretta gestione dei crediti in sofferenza.
L’iter per l’ottenimento dell’autorizzazione segue un procedimento rigoroso e strutturato. La Banca d’Italia, attraverso la funzione di licensing, esamina le domande per valutare la sussistenza dei requisiti previsti dalla normativa. Il procedimento autorizzativo si articola in più fasi e ha una durata massima di 90 giorni a decorrere dalla ricezione di una domanda completa.
Qualora la documentazione presentata sia ritenuta incompleta, l’Autorità di Vigilanza può richiedere integrazioni, che dovranno essere fornite entro il termine indicato nella comunicazione della richiesta. Durante il processo di valutazione, la Banca d’Italia esamina i profili di solidità patrimoniale e gestionale del richiedente, nonché il rispetto degli obblighi in materia di trasparenza e tutela del debitore.
Tra gli ulteriori requisiti imposti dalla normativa rientra la necessità che il gestore NPL mantenga un’operatività sostanziale, evitando di trasformarsi in una mera entità formale priva di autonomia gestionale.
La normativa impone, infatti, che il soggetto autorizzato svolga direttamente almeno una parte delle attività di gestione dei crediti in sofferenza, garantendo l’adeguatezza delle proprie strutture e procedure operative. Questo requisito è volto a prevenire il fenomeno della delega totale a terzi senza un’effettiva supervisione interna, assicurando che i Gestori NPL mantengano un ruolo attivo e responsabile nell’amministrazione dei crediti deteriorati.
Crediti in sofferenza: obblighi informativi e attività dei gestori
Le nuove Disposizioni di vigilanza per la gestione di crediti in sofferenza, emanate dalla Banca d’Italia, non si limitano a disciplinare il processo di autorizzazione, ma introducono anche una serie di obblighi informativi e operativi che i gestori di crediti in sofferenza devono rispettare nel corso della loro attività. La normativa prevede un quadro dettagliato di adempimenti volti a garantire trasparenza, stabilità e un’adeguata protezione dei debitori coinvolti nelle operazioni di gestione dei crediti in sofferenza.
Le Disposizioni di vigilanza si articolano in due parti principali. La prima parte disciplina gli obblighi e le modalità operative dei Gestori NPL, specificando le condizioni di operatività sia in Italia che all’estero, l’organizzazione amministrativa e contabile e il sistema di controlli interni.
La seconda parte riguarda gli obblighi informativi imposti a banche e intermediari finanziari che cedono crediti in sofferenza o che ne gestiscono il recupero per conto di acquirenti terzi. In particolare, questi soggetti sono tenuti a fornire alla Banca d’Italia una serie di informazioni sulla natura e sulla gestione dei crediti in sofferenza, nonché a garantire adeguata informativa nei confronti dei potenziali acquirenti e delle autorità di vigilanza.
Un aspetto rilevante della nuova disciplina è la possibilità per i Gestori NPL di esternalizzare alcune attività di gestione a soggetti terzi, come le società di recupero crediti autorizzate ai sensi dell’articolo 115 del TULPS. Tuttavia, la normativa impone precise limitazioni: il Gestore NPL rimane responsabile della corretta amministrazione dei crediti in sofferenza e deve garantire che il soggetto esternalizzato operi nel rispetto delle disposizioni vigenti.
Crediti in sofferenza: le scadenze per l’autorizzazione e il periodo transitorio
L’introduzione delle nuove Disposizioni di vigilanza per la gestione di crediti in sofferenza ha previsto un regime transitorio volto a consentire agli operatori già attivi di adeguarsi alle nuove regole senza interruzioni operative.
Il 10 marzo 2025 è la data presumibile di pubblicazione delle Disposizioni di vigilanza nella Gazzetta Ufficiale. Dal giorno successivo, le nuove regole entreranno ufficialmente in vigore e inizierà a decorrere il periodo transitorio. Da questo momento, tutti i soggetti che già operano nel settore della gestione di crediti in sofferenza dovranno valutare attentamente i requisiti imposti dalla normativa e provvedere a regolarizzare la propria posizione.
Assumendo che le Disposizioni saranno effettivamente pubblicate in Gazzetta il 10 marzo 2025, il primo termine fondamentale da rispettare è quello del 10 giugno 2025, data entro la quale i soggetti già attivi nel mercato devono presentare domanda di autorizzazione alla Banca d’Italia. La normativa prevede che coloro che inoltrano l’istanza entro questa scadenza possano continuare a operare fino alla conclusione del procedimento autorizzativo, anche oltre la fine del periodo transitorio.
Coloro che, invece, non presentano domanda entro il 10 giugno 2025, avranno tempo fino al 10 settembre 2025 per cessare definitivamente l’attività. Superata questa data, qualsiasi operatore sprovvisto di autorizzazione sarà escluso dal mercato e non potrà più svolgere attività di gestione di crediti in sofferenza.
Queste scadenze assumono particolare rilievo per tutti gli operatori che intendono mantenere la propria operatività nel settore. Il mancato rispetto dei termini stabiliti dalla Banca d’Italia potrebbe comportare non solo l’impossibilità di proseguire l’attività, ma anche l’applicazione di sanzioni o misure di vigilanza per chi operasse in assenza di autorizzazione.
Per questo motivo, la tempestiva presentazione dell’istanza di autorizzazione entro il 10 giugno 2025 rappresenta un passaggio imprescindibile per garantire la continuità aziendale e l’adeguamento alla nuova disciplina.
Calendario delle scadenze per l’autorizzazione dei Gestori di crediti in sofferenza
- 13 febbraio 2025 – Pubblicazione delle Disposizioni di vigilanza per la gestione di crediti in sofferenza sul sito della Banca d’Italia.
- 10 marzo 2025 – Presumibile pubblicazione in Gazzetta Ufficiale delle Disposizioni; dal giorno successivo le nuove regole entrano in vigore.
- 10 giugno 2025 – Termine ultimo per la presentazione della domanda di autorizzazione per i soggetti già operativi.
- 10 settembre 2025 – Termine per la cessazione dell’attività per i soggetti che non hanno presentato domanda entro il 10 giugno.
- I soggetti che presentano domanda entro il 10 giugno 2025 possono continuare a operare fino alla conclusione del procedimento, anche oltre il 10 settembre 2025.
Crediti in sofferenza e domanda di autorizzazione
L’introduzione delle nuove Disposizioni di vigilanza per la gestione di crediti in sofferenza segna un importante passo avanti nella regolamentazione del mercato secondario dei crediti deteriorati, imponendo requisiti stringenti per i soggetti che intendono operare nel settore. La necessità di ottenere l’autorizzazione da parte della Banca d’Italia e il rispetto degli obblighi informativi e organizzativi rappresentano elementi fondamentali per garantire la stabilità del mercato e la tutela dei debitori.
Il rispetto delle scadenze previste per la presentazione delle istanze di autorizzazione e per la cessazione dell’attività, ove necessario, è essenziale per evitare l’exit dal mercato e possibili sanzioni.
Il nostro studio legale fornisce consulenza e assistenza legale alle imprese nei rapporti con le autorità pubbliche di vigilanza, supportando gli operatori nella corretta applicazione della normativa e nella predisposizione delle istanze autorizzative.
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da Redazione | Mar 4, 2025 | Diritto civile
La vendita internazionale è la base per la crescita economica delle imprese e del Paese, consentendo ai soggetti commerciali di espandere il proprio mercato oltre i confini nazionali. Tuttavia, la natura transnazionale di tali operazioni rende necessario individuare con precisione quale normativa regoli il rapporto contrattuale tra le parti e quale sia l’autorità giurisdizionale competente in caso di controversia.
Nel diritto internazionale privato dell’Unione Europea, le questioni relative alla legge applicabile ai contratti di vendita internazionale e alla competenza giurisdizionale sono disciplinate principalmente da tre fonti normative. Il Regolamento (CE) n. 593/2008 (Roma I) stabilisce i criteri per determinare la legge applicabile in assenza di una scelta esplicita delle parti. Il Regolamento (UE) n. 1215/2012 (Bruxelles I-bis) disciplina la competenza giurisdizionale e il riconoscimento delle decisioni giudiziarie all’interno dell’Unione Europea.
Il presente contributo analizzerà sommariamente i criteri di individuazione della legge applicabile nei contratti di vendita internazionale, i principi che regolano la competenza giurisdizionale e le strategie contrattuali per prevenire controversie in ambito transfrontaliero.
Vendita internazionale di beni e determinazione della legge applicabile
Nell’ambito della vendita internazionale, la questione relativa alla legge applicabile al contratto riveste un ruolo di centrale importanza, in quanto disciplina gli obblighi reciproci delle parti e regola le conseguenze dell’eventuale inadempimento. L’ordinamento dell’Unione Europea fornisce una cornice normativa chiara per individuare la disciplina giuridica applicabile ai contratti transfrontalieri, evitando conflitti normativi che potrebbero pregiudicare la certezza del diritto e la prevedibilità delle decisioni giudiziarie.
Il Regolamento (CE) n. 593/2008 (Roma I) rappresenta il principale strumento di diritto internazionale privato in materia contrattuale e sancisce il principio cardine della libertà di scelta delle parti. L’articolo 3 del Regolamento dispone che i contraenti possono designare la legge applicabile al loro rapporto contrattuale, purché tale scelta sia espressa o risulti con ragionevole certezza dai termini del contratto o dalle circostanze della fattispecie. La selezione della legge regolatrice è di fondamentale rilevanza nella vendita internazionale, in quanto consente alle parti di stabilire ex ante il quadro normativo di riferimento, evitando incertezze interpretative e possibili controversie sulla disciplina applicabile.
Qualora le parti non abbiano effettuato una scelta esplicita, il Regolamento Roma I stabilisce un criterio di collegamento oggettivo. L’articolo 4, paragrafo 1, lettera a) prevede che, in assenza di una clausola di elezione della legge applicabile, il contratto di vendita internazionale di beni mobili sia regolato dalla legge dello Stato in cui il venditore ha la propria residenza abituale.
Tale disposizione si giustifica con la considerazione che il venditore è colui che esegue la prestazione caratteristica del contratto, ovvero la fornitura della merce. Per effetto di questa norma, un’impresa italiana che cede beni a un soggetto estero, in assenza di diversa pattuizione, vedrà regolato il proprio rapporto dalla legge italiana.
A tale disciplina si affianca la Convenzione delle Nazioni Unite sui contratti di vendita internazionale di beni mobili (CISG), adottata a Vienna nel 1980, la quale si applica automaticamente quando entrambe le parti contraenti hanno sede in Stati aderenti alla Convenzione, salvo espressa esclusione da parte delle stesse. La CISG regola vari aspetti della vendita internazionale, tra cui la formazione del contratto, gli obblighi del venditore e dell’acquirente, nonché le conseguenze dell’inadempimento.
Vendita internazionale di beni e competenza giurisdizionale
Nell’ambito della vendita internazionale, la frammentazione normativa tra i diversi ordinamenti giuridici potrebbe ingenerare incertezze sul riparto di competenza e sulla giurisdizione, con il rischio di lungaggini procedurali e difficoltà nell’esecuzione delle decisioni giudiziarie.
A tal fine, il Regolamento (UE) n. 1215/2012 (Bruxelles I-bis) disciplina la giurisdizione nelle controversie civili e commerciali all’interno dell’Unione Europea, fornendo criteri chiari e uniformi per determinare il foro competente nei contratti di vendita internazionale.
Secondo la regola generale sancita dall’articolo 4 del Regolamento Bruxelles I-bis, un soggetto domiciliato in uno Stato membro deve essere convenuto dinanzi ai tribunali dello Stato in cui ha il proprio domicilio. Tale principio garantisce la tutela della parte convenuta, imponendo al creditore di agire nel foro naturale del debitore.
Tuttavia, in materia contrattuale, il Regolamento prevede un’importante deroga alla regola generale, disciplinata dall’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), che consente di convenire una parte anche dinanzi al giudice del luogo in cui l’obbligazione contrattuale dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita. Nel caso di un contratto di vendita internazionale di beni mobili, il luogo di esecuzione dell’obbligazione è quello in cui la merce è stata consegnata o avrebbe dovuto essere consegnata secondo il contratto.
La determinazione del luogo di consegna è dunque fondamentale per stabilire la competenza giurisdizionale in una controversia derivante dalla vendita internazionale. Se le parti non hanno previsto specifiche condizioni di consegna, il giudice dovrà accertare quale fosse il luogo effettivo di esecuzione della prestazione caratteristica.
Vendita internazionale di beni, clausola di foro e incidenza della clausola “franco magazzino”
Nel contesto della vendita internazionale, le parti contrattuali possono evitare incertezze in merito alla giurisdizione mediante l’inserimento di una clausola di elezione del foro, ossia una disposizione contrattuale che individua il giudice competente per la risoluzione delle eventuali controversie derivanti dal rapporto commerciale.
Il Regolamento (UE) n. 1215/2012 (Bruxelles I-bis) disciplina le condizioni di validità di tali pattuizioni, prevedendo che le parti possano convenire, in forma scritta o mediante una prassi consolidata, che una determinata autorità giurisdizionale abbia competenza esclusiva in caso di controversie contrattuali.
L’articolo 25 del Regolamento Bruxelles I-bis sancisce il principio secondo cui una clausola di scelta del foro è valida ed efficace se è stata stipulata: (i) per iscritto o verbalmente con conferma scritta, (ii) secondo usi che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere, oppure (iii) nell’ambito di relazioni commerciali precedenti che abbiano consolidato una consuetudine tra i contraenti. La previsione di una clausola di foro consente di evitare l’incertezza derivante dall’applicazione dei criteri generali di competenza giurisdizionale e permette alle imprese di pianificare con maggiore sicurezza la gestione del rischio legale nella vendita internazionale.
Un ulteriore elemento di rilievo nella vendita internazionale riguarda la clausola “franco magazzino” la quale incide direttamente sulla determinazione del foro competente. Con tale clausola, il venditore si libera dall’obbligo di consegna nel momento in cui mette la merce a disposizione dell’acquirente presso il proprio magazzino o stabilimento. Ne consegue che il rischio e la responsabilità per il trasporto ricadono interamente sull’acquirente, il quale si assume l’onere di provvedere al ritiro della merce e alla sua spedizione.
Dal punto di vista della competenza giurisdizionale, la clausola “franco magazzino” ha una rilevanza determinante, poiché il luogo di esecuzione dell’obbligazione contrattuale coincide con la sede del venditore. In base all’articolo 7, paragrafo 1, lettera b, del Regolamento Bruxelles I-bis, il giudice competente nelle controversie relative alla vendita internazionale è quello del luogo in cui la merce è stata consegnata o avrebbe dovuto essere consegnata secondo il contratto.
Pertanto, laddove il contratto preveda una consegna “franco magazzino”, è ragionevole ritenere che la competenza spetta al tribunale dello Stato in cui il venditore ha la propria sede, in quanto la prestazione caratteristica del contratto si considera eseguita nel momento in cui la merce viene resa disponibile presso il suo stabilimento.
La combinazione della clausola di foro esclusivo e della clausola “franco magazzino” rappresenta un efficace strumento di tutela per il venditore che operi nella vendita internazionale, in quanto consente di rafforzare la propria posizione giuridica in caso di contenzioso con il compratore. La previsione congiunta di entrambe le clausole nei documenti contrattuali e commerciali permette di radicare la giurisdizione nel paese del venditore e di semplificare l’eventuale azione di recupero del credito.
Vendita internazionale di beni e tutela del creditore in caso di inadempimento
Nell’ambito della vendita internazionale, il mancato pagamento del corrispettivo da parte del compratore rappresenta una delle problematiche più ricorrenti per le imprese che operano nel commercio transfrontaliero.
La Convenzione di Vienna del 1980 (CISG) disciplina in modo specifico le conseguenze dell’inadempimento contrattuale nella vendita internazionale. In particolare, ai sensi dell’articolo 53, l’acquirente ha l’obbligo di pagare il prezzo pattuito e di accettare la consegna della merce nei termini previsti dal contratto. Qualora il compratore ometta di adempiere all’obbligo di pagamento, il venditore può avvalersi dei rimedi previsti dagli articoli 61 e seguenti, che comprendono la richiesta di esecuzione forzata del pagamento, la risoluzione del contratto e la richiesta di risarcimento del danno. Tuttavia, la CISG non disciplina gli aspetti procedurali relativi all’azione di recupero del credito, i quali sono regolati dal diritto nazionale dello Stato competente.
Uno degli strumenti più efficaci per ottenere rapidamente il pagamento del credito è il procedimento per decreto ingiuntivo, che consente al creditore di ottenere un titolo esecutivo senza dover intraprendere un’azione ordinaria di cognizione. In base all’articolo 633 del codice di procedura civile italiano, il decreto ingiuntivo può essere richiesto quando il credito risulta fondato su prova scritta, quale una fattura, un ordine di acquisto, un documento di trasporto o una conferma d’ordine sottoscritta.
Un’ulteriore tutela, particolarmente utile per rapporti transfrontalieri UE, è offerta dal Regolamento (CE) n. 1896/2006, che ha introdotto il procedimento europeo d’ingiunzione di pagamento, applicabile nelle controversie transfrontaliere tra parti domiciliate in Stati membri diversi. Tale strumento consente al creditore di ottenere un titolo esecutivo europeo senza dover avviare procedimenti giurisdizionali in più ordinamenti, garantendo una maggiore rapidità ed efficienza nell’azione di recupero del credito nella vendita internazionale.
La tutela legale nella vendita internazionale
L’individuazione della legge applicabile e della competenza giurisdizionale in un contratto di vendita internazionale è un elemento strategico di centrale importanza per facilitare l’eventuale azione di recupero del credito in caso di mancato pagamento da parte del compratore estero.
Il nostro Studio Legale è a disposizione per assistere imprese e operatori commerciali nei rapporti di vendita internazionale, fornendo un supporto altamente qualificato nella redazione della documentazione contrattuale e nella gestione delle controversie transfrontaliere. Offriamo un servizio di consulenza strategica per mitigare i rischi legali, strutturare accordi che garantiscano la massima tutela e, laddove possibile, radicare la giurisdizione in Italia e la competenza dinanzi ai tribunali nazionali.
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