da Redazione | Ott 2, 2024 | Diritto civile
Il Decreto-legge 69/2024, meglio conosciuto come Decreto Salva Casa, rappresenta una svolta importante nel campo dell’edilizia e dell’urbanistica. Le nuove norme mirano a semplificare le procedure per la regolarizzazione di piccoli abusi edilizi e a facilitare la compravendita degli immobili. L’obiettivo di questo articolo è quello di spiegare in modo chiaro e accessibile le principali modifiche introdotte dal decreto al DPR 380/2001, evidenziando le opportunità che ne derivano per i proprietari di immobili e per i professionisti del settore edilizio.
Le novità del Salva Casa riguardano diversi aspetti chiave, come l’edilizia libera, lo stato legittimo degli immobili, i cambi di destinazione d’uso e le tolleranze costruttive, e puntano a risolvere alcune rigidità normative che spesso ostacolavano la gestione e la valorizzazione del patrimonio immobiliare, specialmente residenziale.
Questo articolo si propone di illustrare in dettaglio tali modifiche e di sottolineare l’importanza di un’assistenza legale specializzata per affrontare queste nuove sfide e opportunità con sicurezza.
Decreto Salva Casa: semplificazioni nell’attività edilizia libera (art. 6 DPR 380/2001)
Una delle principali novità del Decreto Salva Casa riguarda l’attività edilizia libera, disciplinata dall’art. 6 del DPR 380/2001. Con le nuove modifiche, viene ampliata la gamma di interventi che possono essere realizzati senza bisogno di un permesso edilizio, offrendo maggiori possibilità ai proprietari di apportare miglioramenti alle proprie abitazioni in modo più rapido e semplice.
In particolare, il decreto Salva Casa introduce la possibilità di installare vetrate panoramiche amovibili (VEPA) e strutture per la protezione dal sole e dagli agenti atmosferici in regime di edilizia libera. Questo significa che tali interventi, se rispettano determinati requisiti tecnici ed estetici, possono essere realizzati senza dover ottenere un titolo abilitativo, rendendo più agevole la loro esecuzione.
Ad esempio, le vetrate panoramiche amovibili dovranno essere trasparenti e rimovibili, senza creare spazi stabilmente chiusi o aumentare le volumetrie dell’edificio. La loro funzione è principalmente quella di migliorare le prestazioni energetiche e acustiche degli edifici, proteggendo allo stesso tempo dagli agenti atmosferici. Le strutture di protezione dal sole (come tende o pergole con teli retrattili) possono anch’esse essere installate senza permesso, a patto che non modifichino le superfici o i volumi dell’immobile e che siano in linea con l’estetica dell’edificio.
Queste modifiche rispondono all’esigenza di semplificare gli interventi di miglioramento energetico e di protezione degli immobili, permettendo ai proprietari di agire con maggiore libertà e rapidità, senza dover affrontare complessi iter burocratici.
Decreto Salva Casa: nuove regole sullo stato legittimo degli immobili (art. 9-bis DPR 380/2001)
Una delle innovazioni più rilevanti introdotte dal Decreto Salva Casa riguarda la definizione e la dimostrazione dello stato legittimo degli immobili, oggetto dell’art. 9-bis del DPR 380/2001. Le modifiche mirano a risolvere le difficoltà legate alla ricostruzione della conformità edilizia, semplificando la documentazione necessaria e, di conseguenza, agevolando la regolarizzazione degli immobili, soprattutto in occasione di compravendite o interventi di riqualificazione.
In base alle nuove disposizioni, lo stato legittimo di un immobile può essere dimostrato non solo attraverso il titolo abilitativo originario che ne ha autorizzato la costruzione, ma anche tramite l’ultimo titolo edilizio che ha riguardato l’immobile o l’unità immobiliare. Questo elimina l’obbligo di ricostruire la storia edilizia completa dell’edificio, consentendo di fare affidamento sull’ultimo intervento autorizzato. Inoltre, le modifiche chiariscono che, nei casi in cui il titolo abilitativo sia stato già oggetto di verifiche da parte della pubblica amministrazione, non è necessaria una nuova verifica da parte del proprietario o del richiedente, semplificando ulteriormente le procedure.
Un aspetto significativo di questa riforma è la possibilità di considerare regolarizzati anche quegli immobili per i quali è stata presentata una sanatoria edilizia, inclusi gli interventi per i quali è stata pagata una sanzione pecuniaria. Le nuove regole comprendono, tra i titoli legittimanti, anche quelli ottenuti attraverso procedimenti di conformità in sanatoria, ampliando così le possibilità di regolarizzare situazioni che in passato avrebbero potuto creare ostacoli alla commerciabilità dell’immobile.
Inoltre, per gli immobili costruiti in epoche in cui non era necessario un titolo abilitativo edilizio, è possibile fare riferimento alle informazioni catastali di primo impianto o ad altre fonti documentali, quali fotografie, documenti d’archivio o atti privati, integrati eventualmente con i titoli successivi. In questo modo, il decreto riconosce la difficoltà di reperire documentazione storica completa e offre soluzioni pratiche per dimostrare lo stato legittimo, rendendo più agevole la regolarizzazione di immobili di vecchia data.
Decreto Salva Casa: facilitazioni nei cambi di destinazione d’uso (art. 23-ter DPR 380/2001)
Il Decreto Salva Casa introduce anche importanti modifiche all’art. 23-ter del DPR 380/2001, con l’obiettivo di semplificare i cambi di destinazione d’uso degli immobili, riducendo i vincoli burocratici e ampliando le possibilità di riconversione funzionale. La nuova disciplina consente di effettuare cambi d’uso anche in assenza di opere edilizie, a condizione che tali modifiche non incidano sulle categorie urbanistiche principali.
Secondo le nuove regole del Salva Casa, il cambio di destinazione d’uso di un immobile viene considerato rilevante dal punto di vista urbanistico solo se comporta il passaggio da una categoria funzionale all’altra, come ad esempio da residenziale a turistico-ricettiva, produttiva o commerciale. Questo significa che le modifiche all’interno della stessa categoria funzionale, come il passaggio da abitazione a studio professionale, non richiedono l’ottenimento di un nuovo permesso e possono essere realizzate in regime di edilizia libera, a condizione che siano rispettate le normative di settore e le disposizioni comunali. Ciò rappresenta una significativa semplificazione, che rende più rapido e meno oneroso il processo di riconversione funzionale degli immobili, soprattutto nelle aree urbane.
Per i cambi di destinazione d’uso che comportano il passaggio tra diverse categorie funzionali, il decreto Salva Casa prevede comunque una maggiore flessibilità, consentendo tali modifiche senza la necessità di reperire ulteriori aree per standard urbanistici, come parcheggi o spazi pubblici. In questo modo, i proprietari immobiliari possono riconvertire immobili situati in zone urbane, come quelle classificate A, B o C secondo il DM 1444/1968, senza dover affrontare gli oneri aggiuntivi tipicamente richiesti dalle normative urbanistiche. Il tutto, ovviamente, nel rispetto delle condizioni previste dai piani urbanistici comunali, che possono imporre restrizioni specifiche.
Questa riforma del Salva Casa si inserisce in un quadro normativo che cerca di incentivare la riconversione degli immobili dismessi o inutilizzati, promuovendo interventi di rigenerazione urbana e facilitando il riuso di edifici per soddisfare nuove esigenze economiche e sociali. Il cambiamento di destinazione d’uso, infatti, rappresenta uno strumento fondamentale per adattare il patrimonio immobiliare esistente alle mutevoli necessità del mercato e dei territori.
Decreto Salva Casa: nuove soglie di tolleranza per le difformità costruttive e accertamento di conformità
Il Decreto Salva Casa introduce significative modifiche all’art. 34-bis del DPR 380/2001, ampliando e precisando il regime delle tolleranze costruttive. Tali modifiche sono volte a semplificare la gestione delle piccole difformità rispetto ai progetti approvati, riducendo gli ostacoli normativi per i proprietari immobiliari che si trovano ad affrontare irregolarità minime nelle opere realizzate.
La nuova disciplina stabilisce che le tolleranze costruttive ordinarie, già previste in misura del due per cento per gli scostamenti relativi a cubatura, altezza, distacchi e superficie coperta, restano valide per tutti gli immobili. Tuttavia, il decreto introduce soglie di tolleranza differenziate in base alla superficie utile dell’immobile, applicabili agli interventi eseguiti entro il 24 maggio 2024. Tali nuove soglie consentono maggiore flessibilità per gli edifici di dimensioni ridotte, prevedendo tolleranze fino al cinque per cento per le unità immobiliari più piccole. Questo rappresenta un passo avanti significativo nella regolamentazione delle piccole difformità, permettendo la regolarizzazione di interventi che, pur non perfettamente conformi al progetto autorizzato, non incidono in maniera sostanziale sulle caratteristiche edilizie dell’immobile.
Oltre alle tolleranze costruttive, il decreto Salva Casa prevede anche specifiche tolleranze esecutive, applicabili agli errori materiali o difformità di carattere tecnico che si verificano durante l’esecuzione delle opere. In questi casi, le irregolarità, purché non pregiudichino l’agibilità o la sicurezza dell’immobile, non costituiscono violazioni edilizie e non richiedono ulteriori autorizzazioni per la regolarizzazione.
Tale quadro normativo permette una gestione più agevole delle piccole difformità edilizie, riducendo il rischio di sanzioni e facilitando il processo di regolarizzazione delle proprietà, contribuendo così alla valorizzazione del patrimonio immobiliare esistente.
Il Decreto Salva Casa introduce, inoltre, l’accertamento di conformità per le opere edilizie realizzate in difformità parziale dal titolo abilitativo. Il nuovo art. 36-bis introduce una procedura semplificata per la regolarizzazione delle difformità che non alterano in modo sostanziale l’opera originaria, superando in parte l’obbligo della doppia conformità previsto dall’art. 36 del DPR 380/2001.
In particolare, mentre l’art. 36 mantiene il requisito della conformità sia alle norme urbanistiche ed edilizie vigenti al momento della realizzazione delle opere sia a quelle in vigore al momento della domanda di sanatoria, l’art. 36-bis introduce una significativa deroga per le difformità parziali. Per queste ultime, infatti, è sufficiente che l’opera sia conforme alla normativa urbanistica vigente al momento della presentazione della domanda di sanatoria, senza la necessità di verificare la conformità alle norme vigenti al tempo della realizzazione dell’opera. Questo cambiamento ha un impatto rilevante sulla regolarizzazione edilizia, poiché semplifica notevolmente il processo per i proprietari immobiliari, eliminando uno degli ostacoli principali legati alla doppia conformità.
Inoltre, il nuovo accertamento di conformità prevede l’obbligo, per il richiedente, di presentare una dichiarazione di conformità da parte di un tecnico abilitato, che attesti la conformità delle opere eseguite alle norme urbanistiche ed edilizie attuali. In alcuni casi, le autorità possono subordinare il rilascio della sanatoria all’esecuzione di interventi correttivi per garantire la sicurezza e l’efficienza dell’edificio. In termini di sanzioni, la procedura prevede il pagamento di una somma proporzionale all’aumento del valore venale dell’immobile derivante dalle opere realizzate, una misura pensata per bilanciare la necessità di regolarizzazione con la tutela del bene pubblico.
L’introduzione di questa procedura rappresenta un’innovazione importante, poiché consente ai proprietari di sanare difformità che, pur essendo irregolari, non comportano gravi violazioni edilizie o urbanistiche. La maggiore flessibilità del nuovo accertamento di conformità, unita alla semplificazione delle procedure, offre un’occasione preziosa per la regolarizzazione degli immobili, favorendo al contempo una gestione più efficiente delle risorse urbanistiche e il miglioramento del patrimonio edilizio esistente.
Decreto Salva Casa: alienazione degli immobili abusivi: regole più stringenti (modifica art. 31 DPR 380/2001)
Un ulteriore intervento significativo introdotto dal Decreto Salva Casa riguarda la disciplina dell’alienazione degli immobili abusivi, modificando l’art. 31 del DPR 380/2001. La normativa prevede ora regole più stringenti per la vendita o il trasferimento di immobili che presentano irregolarità edilizie. In particolare, viene ribadito il principio secondo cui non è possibile alienare un immobile abusivo a meno che non sia stato precedentemente regolarizzato tramite sanatoria. Questo divieto di alienazione rappresenta una garanzia per il mercato immobiliare, assicurando che gli immobili trasferiti siano in regola con le normative edilizie e urbanistiche vigenti.
Il Decreto Salva Casa chiarisce che, in caso di trasferimento di un immobile irregolare, è obbligatorio presentare la documentazione che attesti la conformità edilizia. Il ruolo del notaio, in questo contesto, diventa cruciale: egli deve verificare la presenza di tale documentazione prima di procedere con l’atto di vendita o di trasferimento di proprietà. In mancanza della conformità edilizia, l’atto di trasferimento potrebbe essere dichiarato nullo, con conseguenze giuridiche rilevanti sia per il venditore che per l’acquirente.
Le nuove disposizioni non solo tutelano gli acquirenti, ma incentivano anche i proprietari a regolarizzare preventivamente gli immobili prima di metterli in vendita. Inoltre, la normativa prevede sanzioni nei confronti di coloro che cercano di alienare immobili abusivi senza aver provveduto alla loro regolarizzazione, rafforzando ulteriormente il regime di conformità e trasparenza nel mercato immobiliare. Tali misure si inseriscono in una strategia più ampia di tutela del patrimonio edilizio e del corretto sviluppo urbanistico, incentivando comportamenti virtuosi da parte dei proprietari immobiliari.
Conclusioni sul Decreto Salva Casa
Le numerose novità introdotte dal Decreto Salva Casa offrono senza dubbio opportunità significative per i proprietari immobiliari e per i professionisti del settore edilizio, ma allo stesso tempo richiedono una conoscenza approfondita delle normative e delle procedure applicabili. Le semplificazioni apportate dalla riforma, pur essendo concepite per facilitare la regolarizzazione e la gestione degli immobili, impongono una scrupolosa attenzione agli aspetti tecnici e giuridici, al fine di evitare errori che potrebbero avere conseguenze rilevanti, sia in termini di sanzioni sia di commerciabilità degli immobili.
In un contesto normativo così articolato, il nostro studio legale offre un servizio di consulenza specializzata in diritto civile e amministrativo, con particolare attenzione al settore dell’urbanistica e dell’edilizia. Assistiamo i nostri clienti nella gestione delle pratiche di sanatoria, nell’interpretazione delle norme relative alle tolleranze costruttive e alle difformità parziali, e nella regolarizzazione degli immobili ai fini della compravendita. La nostra competenza sul Salva Casa ci consente di supportare i proprietari immobiliari, le imprese e i professionisti del settore nell’adozione delle soluzioni più adeguate per affrontare le sfide normative.
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da Redazione | Set 30, 2024 | Diritto d'Impresa
Negli ultimi anni, il concetto di responsabilità sociale d’impresa (CSR) ha acquisito un ruolo di crescente rilevanza all’interno dell’ordinamento giuridico e del contesto economico globale. La CSR si riferisce all’insieme di pratiche volontarie e di corporate compliance adottate dalle imprese con l’obiettivo di integrare preoccupazioni sociali e ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei rapporti con i diversi stakeholders. In tale ambito, il perseguimento della sostenibilità è divenuto un principio cardine, soprattutto alla luce delle emergenti pressioni normative e delle aspettative della società civile in materia di riduzione delle emissioni di carbonio e di tutela ambientale.
Sul tema abbiamo anche dedicato uno specifico approfondimento sulla Direttiva europea sulla sostenibilità 2024/1760/UE (Corporate Sustainability Due Diligence Directive) a quale facciamo rinvio.
Il concetto di sostenibilità, inizialmente prerogativa di poche grandi imprese multinazionali, si è progressivamente esteso a tutte le aziende, a prescindere dalla loro dimensione o settore di appartenenza. Il mutato contesto normativo internazionale ed europeo, unitamente a una crescente sensibilità pubblica nei confronti delle tematiche ambientali, impone oggi alle imprese di adottare modelli di business sostenibili, non solo in un’ottica di responsabilità sociale, ma anche di competitività economica.
Alla luce delle sfide poste dal cambiamento climatico e dalla transizione ecologica, la sostenibilità non è più da considerarsi un mero accessorio, bensì un elemento strategico fondamentale, con rilevanti implicazioni sulla reputazione aziendale, sulla conformità normativa e sulle opportunità di crescita. In questo articolo, esamineremo le principali normative emergenti in materia di sostenibilità e CSR, nonché le opportunità di incentivi e agevolazioni riservate alle imprese che decidano di investire in pratiche sostenibili, contribuendo così alla realizzazione di un’economia più verde e inclusiva.
Il Quadro Normativo Europeo e Nazionale sulla Sostenibilità
Negli ultimi anni, l’Unione Europea ha assunto un ruolo di leadership globale nella promozione della sostenibilità ambientale e della responsabilità sociale d’impresa, attraverso l’introduzione di un complesso quadro normativo volto a favorire la transizione verso un’economia a basso impatto ambientale e climaticamente neutrale. Il pilastro di questa strategia è rappresentato dal Green Deal Europeo, un piano ambizioso adottato dalla Commissione Europea nel 2019, che mira a rendere l’Europa il primo continente a impatto zero entro il 2050. Il Green Deal introduce una serie di iniziative legislative e di politiche di ampio respiro, che includono non solo la riduzione delle emissioni di gas serra, ma anche la promozione dell’economia circolare, la protezione della biodiversità e la riduzione dell’inquinamento.
Tra le misure più significative introdotte dall’Unione Europea in questo contesto, vi è la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), che rappresenta una revisione della precedente direttiva sulla comunicazione non finanziaria (Non-Financial Reporting Directive – NFRD). La CSRD ha l’obiettivo di ampliare l’ambito soggettivo e oggettivo degli obblighi di trasparenza in materia di sostenibilità, estendendo i requisiti di rendicontazione anche alle imprese di medie dimensioni e rafforzando l’obbligo di divulgare informazioni dettagliate sugli impatti ambientali, sociali e di governance (ESG). Questo cambiamento segna una svolta importante, poiché impone alle aziende di considerare in maniera più sistematica e strutturata le proprie politiche in materia di sostenibilità, incentivando al contempo l’adozione di pratiche più trasparenti e responsabili.
A livello nazionale, l’Italia ha prontamente recepito le direttive europee, integrando il quadro normativo comunitario con una serie di misure interne finalizzate a promuovere la sostenibilità tra le imprese. Il recepimento della CSRD, ad esempio, ha comportato l’introduzione di norme specifiche che impongono alle aziende di adeguare i loro bilanci e le loro comunicazioni pubbliche per includere informazioni dettagliate sugli impatti ESG. Tuttavia, l’ordinamento italiano ha anche sviluppato strumenti autonomi per incoraggiare l’adozione di pratiche sostenibili. Un esempio è rappresentato dagli incentivi fiscali e finanziari concessi alle imprese che investono in tecnologie verdi, come le agevolazioni per l’acquisto di impianti fotovoltaici o per la realizzazione di interventi volti a migliorare l’efficienza energetica degli edifici aziendali.
Al fine di garantire il rispetto delle normative ambientali, il legislatore italiano ha inoltre rafforzato gli obblighi di compliance aziendale, introducendo modelli organizzativi che prevedono l’integrazione di procedure di monitoraggio e controllo interno delle pratiche sostenibili. Le imprese sono pertanto chiamate a dotarsi di strumenti che consentano di valutare e mitigare i rischi ambientali connessi alle loro attività, evitando così di incorrere in sanzioni per la mancata conformità alle normative. Questo approccio integrato, che combina obblighi normativi e incentivi economici, ha l’obiettivo di favorire la transizione delle aziende verso modelli di business più sostenibili, garantendo al contempo un elevato livello di tutela dell’ambiente e della salute pubblica.
Incentivi per le Imprese che Investono in Sostenibilità
A fronte di un quadro normativo sempre più stringente in materia di sostenibilità, sia a livello europeo che nazionale, il legislatore ha previsto una serie di misure incentivanti volte a promuovere e agevolare gli investimenti delle imprese in pratiche sostenibili. Questi incentivi si configurano come strumenti fondamentali per accompagnare le aziende nella transizione ecologica, riducendo i costi associati all’adozione di nuove tecnologie e procedure rispettose dell’ambiente.
In ambito europeo, uno dei principali strumenti di supporto per le imprese è rappresentato dal Next Generation EU, il piano di ripresa economica post-pandemica che, tra le sue priorità, pone un’enfasi particolare sulla transizione verde e digitale. Nell’ambito di questo programma, sono stati stanziati ingenti fondi destinati a finanziare progetti volti a ridurre le emissioni di carbonio, promuovere l’uso di energie rinnovabili e favorire l’economia circolare. Le imprese che intendono investire in tecnologie verdi o in processi produttivi più sostenibili possono dunque accedere a finanziamenti a tasso agevolato o a fondo perduto, migliorando la propria competitività sul mercato e contribuendo allo sviluppo di un’economia a basso impatto ambientale.
Anche a livello nazionale, il governo italiano ha introdotto una serie di agevolazioni fiscali per le imprese che investono in sostenibilità. Tra le misure più significative vi è il credito d’imposta per gli investimenti in beni strumentali nuovi, destinati a migliorare l’efficienza energetica delle attività produttive e a ridurre le emissioni inquinanti. Questo strumento permette alle aziende di ottenere un rimborso fiscale per una parte delle spese sostenute per l’acquisto di impianti o macchinari volti a ridurre il consumo energetico o a limitare l’impatto ambientale della produzione.
Oltre agli incentivi fiscali, le imprese possono accedere a contributi a fondo perduto per la realizzazione di interventi di sostenibilità. Ad esempio, esistono finanziamenti destinati all’implementazione di sistemi di gestione ambientale certificati, come quelli previsti dalla norma ISO 14001, che garantisce la conformità alle migliori pratiche internazionali in materia di tutela ambientale. Le imprese che ottengono tale certificazione non solo migliorano la loro reputazione sul mercato, ma beneficiano anche di una maggiore efficienza operativa, riducendo i costi legati ai consumi energetici e alle emissioni di gas serra.
Gli incentivi alla sostenibilità non si limitano tuttavia all’ambito energetico. Il legislatore ha infatti previsto specifiche misure di sostegno anche per le imprese che investono nell’economia circolare, favorendo la riduzione dei rifiuti e il riutilizzo delle risorse. Le imprese che implementano progetti volti a recuperare e riciclare materiali di scarto possono beneficiare di agevolazioni fiscali e finanziamenti dedicati, che consentono di ridurre i costi operativi e di migliorare la competitività in un mercato sempre più orientato verso modelli di produzione circolari.
In conclusione, il sistema di incentivi previsto per le imprese che investono in sostenibilità rappresenta una leva strategica fondamentale per promuovere l’adozione di pratiche responsabili dal punto di vista ambientale. Oltre a garantire una maggiore conformità normativa, questi incentivi consentono alle imprese di ottenere vantaggi competitivi significativi, accedendo a risorse finanziarie che possono essere reinvestite nella crescita e nello sviluppo sostenibile. In un contesto economico sempre più orientato verso la transizione ecologica, le aziende che adottano un approccio proattivo alla sostenibilità sono destinate a svolgere un ruolo di primo piano nel futuro dell’economia globale.
Vantaggi della CSR per le Imprese. Alcuni esempi.
L’adozione di pratiche di responsabilità sociale d’impresa (CSR) e di politiche di sostenibilità ambientale offre una serie di vantaggi significativi per le imprese, non solo in termini di conformità normativa, ma anche dal punto di vista economico e strategico. In primo luogo, l’implementazione di una strategia di sostenibilità permette alle aziende di migliorare la propria reputazione. In un contesto in cui i consumatori, gli investitori e le autorità di regolamentazione sono sempre più sensibili alle questioni ambientali e sociali, le imprese che dimostrano un impegno concreto verso la sostenibilità godono di una percezione pubblica più favorevole. Questo, a sua volta, può tradursi in una maggiore fidelizzazione della clientela e in una maggiore attrattività per gli investitori.
Un altro importante vantaggio per le imprese che adottano politiche di CSR è rappresentato dalla possibilità di ottenere un miglioramento dell’efficienza operativa. Investire in tecnologie che riducono il consumo energetico, minimizzano lo spreco di risorse e favoriscono l’utilizzo di materiali riciclati permette alle aziende di ridurre i costi operativi nel lungo termine. Inoltre, le imprese che adottano modelli di economia circolare possono beneficiare di un utilizzo più efficiente delle risorse, trasformando i rifiuti in nuove opportunità di produzione e di crescita.
Dal punto di vista strategico, l’impegno in politiche di sostenibilità rende le imprese più resilienti di fronte a rischi ambientali e normativi. Le aziende che anticipano i cambiamenti normativi in materia di sostenibilità sono meglio posizionate per affrontare le sfide future, evitando così sanzioni e costi legati alla conformità tardiva. In aggiunta, l’adozione di pratiche sostenibili facilita l’accesso a mercati internazionali sempre più orientati verso la transizione ecologica, aprendo nuove opportunità di business.
Diversi esempi di aziende italiane dimostrano come l’adozione di politiche di sostenibilità possa portare a benefici concreti e tangibili. Tra queste, il caso di Enel è particolarmente rilevante: l’azienda ha avviato un piano strategico di transizione energetica che l’ha portata a investire massicciamente in energie rinnovabili e a ridurre drasticamente le sue emissioni di carbonio. Enel non solo ha rafforzato la propria posizione di leader nel settore energetico, ma ha anche ottenuto importanti riconoscimenti internazionali per il suo impegno verso la sostenibilità, accrescendo così la propria reputazione e attrattiva per gli investitori.
Un altro esempio è quello di Ferrero, che ha integrato la sostenibilità nella sua catena di approvvigionamento, promuovendo pratiche agricole sostenibili per le coltivazioni di cacao e nocciole. Attraverso iniziative come il Ferrero Farming Values Program, l’azienda ha dimostrato come la responsabilità ambientale possa essere compatibile con la crescita economica e con la creazione di valore per tutti gli attori della filiera.
Questi esempi evidenziano come la sostenibilità non sia solo una questione etica, ma anche un’opportunità di sviluppo strategico per le imprese italiane.
Conclusioni. La sostenibilità come opportunità strategica
Per le imprese che desiderano adottare politiche di sostenibilità, è essenziale seguire un percorso strutturato e conforme alle normative vigenti. In primo luogo, risulta fondamentale effettuare un’analisi dell’impatto ambientale delle proprie attività, identificando le aree critiche in cui possono essere implementati miglioramenti. Questo processo richiede la valutazione del consumo energetico, delle emissioni di gas serra, dell’uso delle risorse naturali e della produzione di rifiuti.
Una volta identificati i punti su cui intervenire, le aziende possono procedere con l’adozione di strategie di sostenibilità mirate, che includono investimenti in tecnologie più efficienti e l’implementazione di modelli di economia circolare. È importante che le imprese formalizzino tali impegni attraverso l’adozione di sistemi di gestione ambientale certificati (ad esempio, secondo la norma ISO 14001), i quali garantiscono che l’azienda stia rispettando standard internazionali di sostenibilità e permettono una maggiore trasparenza verso i propri stakeholder.
Un altro passo cruciale è dato dalla redazione di report di sostenibilità o bilanci sociali, strumenti indispensabili per monitorare e comunicare pubblicamente i progressi raggiunti in materia di sostenibilità ambientale e responsabilità sociale. Questo tipo di documenti non solo contribuisce a rafforzare la reputazione aziendale, ma è anche spesso richiesto per accedere a finanziamenti pubblici e incentivi fiscali.
In definitiva, la sostenibilità non è più solo una necessità dettata dalle normative, ma un vero e proprio driver strategico per le imprese che intendono distinguersi nel mercato globale. Le aziende che scelgono di integrare politiche di responsabilità sociale d’impresa e sostenibilità ambientale nei loro modelli di business non solo rispondono alle crescenti aspettative normative, ma guadagnano un vantaggio competitivo significativo.
Tuttavia, adeguarsi a un quadro normativo in continua evoluzione e implementare una strategia di sostenibilità efficace può risultare complesso. Per questo motivo, è essenziale che le imprese siano supportate da una consulenza strategica in grado di guidarle attraverso le diverse fasi del percorso, garantendo il rispetto delle normative e massimizzando le opportunità derivanti dagli incentivi disponibili.
Abbiamo pertanto messo a punto un’assistenza completa e personalizzata alle imprese che desiderano intraprendere il percorso verso la sostenibilità, fornendo supporto nella gestione degli aspetti legali, normativi e contrattuali legati all’adozione di pratiche sostenibili. Grazie alla nostra esperienza e conoscenza approfondita delle normative europee e nazionali in materia di CSR e sostenibilità, possiamo aiutare le imprese a cogliere le opportunità offerte da questo nuovo scenario economico e a integrarle efficacemente nella loro strategia aziendale.
da Redazione | Set 27, 2024 | Diritto d'Impresa
Con il decreto Legislativo n. 134/2024 l’Italia ha recepito la Direttiva (UE) 2022/2557, nota come Direttiva CER, la quale introduce norme armonizzate per rafforzare la resilienza dei soggetti critici all’interno dell’Unione Europea. La Direttiva CER ha l’obiettivo di assicurare la protezione e la continuità delle attività di quei soggetti che forniscono servizi essenziali per il mantenimento delle funzioni vitali della società e dell’economia, intervenendo in settori quali l’energia, i trasporti, le telecomunicazioni, la salute pubblica, l’acqua potabile e molti altri.
In questo contesto, la Direttiva CER si distingue per il suo approccio olistico alla gestione dei rischi, coprendo una vasta gamma di minacce che includono non solo i rischi cibernetici (già regolati dalla Direttiva NIS 2), ma anche quelli fisici, naturali, accidentali e terroristici. Sebbene ci sia un’intersezione tra i soggetti disciplinati dalla CER e quelli regolati dalla NIS 2, l’introduzione della Direttiva CER mira a rafforzare ulteriormente la capacità degli Stati membri di prevenire, resistere e rispondere a incidenti di vario genere che potrebbero compromettere i servizi essenziali.
L’obiettivo di questo articolo è quello di esplorare il contenuto del D. Lgs. 134/2024 di recepimento della Direttiva CER, soffermandosi in particolare sui destinatari della normativa, sugli obblighi imposti ai soggetti critici e sul regime sanzionatorio che ne consegue.
I destinatari della Direttiva CER
I destinatari della Direttiva CER, come recepita dal Decreto Legislativo n. 134, comprendono una vasta gamma di soggetti pubblici e privati che operano in settori definiti critici, ovvero settori le cui attività sono essenziali per il funzionamento della società e dell’economia. In particolare, questi soggetti sono attivi nei seguenti settori: energia (elettricità, gas, petrolio), trasporti (stradale, ferroviario, aereo e via acqua), sanità, acqua potabile, acque reflue, infrastrutture digitali, banche e mercati finanziari, spazio e prodotti alimentari. In aggiunta, determinati segmenti della pubblica amministrazione sono anch’essi considerati critici, sebbene esistano eccezioni legate alla difesa nazionale, alla sicurezza pubblica e all’intelligence.
L’individuazione dei soggetti critici si basa su una valutazione della loro rilevanza per la fornitura di servizi essenziali e del possibile impatto che la loro interruzione avrebbe sulla società e sull’economia. Il Decreto, tramite le Autorità Settoriali Competenti (ASC), impone di eseguire periodiche valutazioni del rischio al fine di aggiornare l’elenco dei soggetti critici, riflettendo la dinamicità del panorama delle minacce.
Obblighi per i soggetti critici nella Direttiva CER e nel D. Lgs. 134/2024
Gli obblighi imposti ai soggetti critici dal Decreto Legislativo n. 134 del 2024, di recepimento della Direttiva CER, si articolano in una serie di disposizioni finalizzate a garantire la continuità dei servizi essenziali attraverso l’adozione di misure preventive, la gestione adeguata degli incidenti e il rapido ripristino delle operazioni in caso di interruzioni. Tali obblighi mirano a costruire un quadro di resilienza integrata, in cui la protezione delle infrastrutture critiche e la continuità operativa diventano un pilastro fondamentale per il funzionamento regolare della società e dell’economia.
Una delle principali preoccupazioni della normativa riguarda la capacità dei soggetti critici di prevenire e gestire gli incidenti. La prevenzione si concretizza nella necessità di adottare misure tecniche e organizzative idonee a ridurre la probabilità che si verifichino eventi critici, quali disastri naturali, attacchi terroristici o minacce interne.
La protezione delle infrastrutture fisiche, per esempio, deve essere garantita tramite strumenti di controllo degli accessi, sistemi di sorveglianza e barriere fisiche. Tali misure non si limitano alla protezione del perimetro fisico, ma coinvolgono anche la gestione del rischio a livello organizzativo e strategico, richiedendo un coordinamento costante con le autorità nazionali e la preparazione di piani di gestione delle crisi.
In caso di incidenti, i soggetti critici sono tenuti a gestire l’evento in modo efficace e a ridurre al minimo gli impatti sulla fornitura dei servizi. Questo richiede una pianificazione preventiva che includa la capacità di risposta rapida e un sistema di comunicazione efficace sia internamente che verso le autorità competenti. L’obbligo di gestione degli incidenti implica, quindi, che le entità critiche – destinatarie della Direttiva CER – debbano non solo essere preparate a fronteggiare eventi straordinari, ma anche a garantire una risposta tempestiva e coordinata.
Inoltre, la capacità di recupero post-incidente è un elemento essenziale: il decreto impone ai soggetti critici di predisporre piani di continuità operativa, con l’obiettivo di ripristinare rapidamente i servizi interrotti, adottando anche soluzioni alternative o temporanee per evitare il prolungamento delle interruzioni.
Un ulteriore obbligo cruciale è quello della formazione del personale. I soggetti critici devono assicurare che i propri dipendenti siano costantemente formati sui rischi che riguardano le infrastrutture critiche e siano preparati ad affrontare situazioni di emergenza. Non si tratta semplicemente di un addestramento tecnico, ma di una cultura della sicurezza e della resilienza che deve permeare tutti i livelli dell’organizzazione. In questo contesto, il personale con accesso a informazioni sensibili o a infrastrutture critiche deve essere sottoposto a rigorosi controlli dei precedenti personali, al fine di garantire che solo individui adeguatamente qualificati e affidabili possano gestire risorse critiche.
Il Decreto Legislativo n. 134, di recepimento della Direttiva CER, impone inoltre un obbligo fondamentale di notifica degli incidenti. In caso di eventi che compromettano la fornitura dei servizi essenziali, i soggetti critici sono tenuti a informare tempestivamente il Punto di Contatto Unico (PCU) e le Autorità Settoriali Competenti (ASC). Questa notifica ha l’obiettivo di garantire che le autorità siano pronte a intervenire e a coordinare le risposte necessarie per minimizzare gli impatti. L’importanza della notifica non risiede solo nel consentire alle autorità di rispondere in tempo reale, ma anche nel promuovere una cooperazione tra i diversi settori e Stati membri, laddove gli incidenti abbiano effetti a livello transfrontaliero.
Tutti questi obblighi, dalla prevenzione alla gestione delle crisi, alla notifica degli incidenti e alla cooperazione internazionale, fanno parte di un quadro complesso che richiede un elevato grado di preparazione e coordinamento. La Direttiva CER, così come recepita dal Decreto Legislativo n. 134, mira a costruire un sistema integrato di resilienza, dove la protezione delle infrastrutture critiche diventa un compito collettivo, che coinvolge sia i soggetti critici sia le autorità nazionali ed europee.
Il rispetto di tali obblighi, oltre a richiedere significativi investimenti in termini di risorse e competenze, implica una pianificazione continua e un monitoraggio costante delle infrastrutture e dei servizi essenziali.
Regime sanzionatorio: dalla Direttiva CER al D. Lgs. 134/2024
Il regime sanzionatorio previsto dal Decreto Legislativo n. 134 del 2024 per i soggetti critici è finalizzato a garantire la piena conformità agli obblighi di resilienza imposti dalla Direttiva CER. Le sanzioni si applicano in caso di mancata adozione delle misure di prevenzione, protezione e gestione degli incidenti, nonché in caso di violazione degli obblighi di notifica degli eventi critici alle autorità competenti. Le Autorità Settoriali Competenti (ASC) sono responsabili dell’applicazione delle sanzioni, agendo in coordinamento con il Punto di Contatto Unico (PCU), l’organo che coordina le attività di vigilanza e supervisione.
Le sanzioni previste dal decreto si articolano principalmente in sanzioni amministrative pecuniarie. Queste possono variare da un minimo di 25.000 euro fino a 125.000 euro, a seconda della gravità delle violazioni e della mancata adozione delle misure prescritte. Ad esempio, un soggetto critico che non implementa le misure di resilienza richieste, come stabilito dall’art. 14 del decreto, può essere soggetto a sanzioni che si collocano nella fascia più alta. Le sanzioni si applicano anche nel caso in cui il soggetto critico ometta di aggiornare il proprio piano di resilienza o non rispetti i protocolli di sicurezza riguardanti il personale.
Un altro caso in cui possono essere comminate sanzioni è l’inosservanza degli obblighi di notifica degli incidenti, come previsto dall’art. 16. Se un soggetto critico non informa tempestivamente le autorità competenti in merito a un incidente che può influire sulla continuità del servizio, potrebbe incorrere in sanzioni significative, soprattutto se il ritardo nella comunicazione ha determinato un aggravamento della situazione o ha compromesso la possibilità di un’adeguata risposta da parte delle autorità.
Inoltre, il decreto di recepimento della Direttiva CER prevede sanzioni più elevate in caso di reiterazione delle violazioni. La reiterazione comporta un aumento delle sanzioni fino al triplo dell’importo originario, con l’obiettivo di disincentivare ulteriori comportamenti non conformi e rafforzare l’efficacia delle disposizioni normative. Tale misura riflette l’intento del legislatore di garantire un alto livello di adempimento da parte dei soggetti critici, specialmente in quei settori di particolare rilevanza per la sicurezza nazionale e la stabilità economica.
Un ulteriore aspetto del regime sanzionatorio riguarda la possibilità che le autorità competenti possano intraprendere azioni correttive, come la richiesta di misure specifiche per sanare le violazioni riscontrate. Qualora il soggetto critico non si conformi a tali richieste entro i termini previsti, può essere soggetto a ulteriori sanzioni. In alcuni casi, le autorità potrebbero anche richiedere il coinvolgimento di organismi indipendenti per valutare l’adeguatezza delle misure adottate dai soggetti critici.
In sintesi, il sistema sanzionatorio del Decreto Legislativo n. 134, di recepimento della Direttiva CER, è strutturato per garantire il rispetto degli obblighi di resilienza e continuità operativa da parte dei soggetti critici. Le sanzioni, che variano in base alla gravità e alla reiterazione delle violazioni, mirano a incentivare l’adozione di misure adeguate per la protezione delle infrastrutture critiche e la gestione tempestiva degli incidenti.
Conclusioni sulla Direttiva CER e sul D. Lgs. 134/2024
Il Decreto Legislativo n. 134 del 2024, che recepisce la Direttiva CER (UE) 2022/2557, segna un passo fondamentale nella protezione delle infrastrutture critiche e nella gestione dei rischi a cui tali infrastrutture sono esposte. La crescente complessità del panorama delle minacce, che include non solo attacchi cibernetici, ma anche rischi fisici e naturali, ha reso necessaria una regolamentazione specifica, complementare alla Direttiva NIS 2, ma con un focus esteso alla resilienza complessiva dei soggetti critici. L’introduzione di obblighi rigorosi, volti a prevenire, gestire e mitigare le conseguenze di incidenti, riflette l’importanza di garantire la continuità di quei servizi essenziali che costituiscono il cuore pulsante della società e dell’economia.
Le sanzioni previste per la non conformità, che vanno da pene pecuniarie a interventi correttivi, sottolineano la rilevanza strategica di queste misure e l’impegno dell’Unione Europea nel promuovere un elevato livello di sicurezza e resilienza in tutti gli Stati membri. L’obiettivo finale del decreto è quello di creare un sistema integrato e armonizzato a livello europeo, in grado di rispondere efficacemente alle sfide del presente e del futuro, riducendo al minimo i rischi di interruzione dei servizi critici.
Tuttavia, l’attuazione pratica di questi obblighi può risultare complessa per molti soggetti critici, soprattutto per quelli che operano in settori altamente interconnessi e con infrastrutture vulnerabili a più tipi di minacce.
È quindi fondamentale che i soggetti coinvolti non solo adottino le misure richieste dalla normativa, ma si avvalgano anche di una consulenza legale qualificata per garantire la corretta implementazione di tali misure. Il nostro studio legale è a disposizione per fornire assistenza e supporto nella gestione delle nuove sfide legate alla resilienza delle entità critiche, aiutando le imprese a conformarsi agli obblighi normativi e a proteggere al meglio le proprie infrastrutture.
Per aggiornamenti sulla Direttiva CER e sulle normative in materia di cyber security seguici anche su: https://www.linkedin.com/company/dagostinolex

Studio Legale D’Agostino a Roma: consulenza su Decreto NIS 2, Direttiva CER, cyber security e sicurezza informatica, con definizioni chiave su incidenti, vulnerabilità e misure di sicurezza
da Redazione | Set 25, 2024 | Diritto civile, Diritto d'Impresa
I patti parasociali rappresentano uno strumento di regolazione fondamentale nelle dinamiche societarie, particolarmente rilevante nel contesto delle start-up. Queste ultime sono caratterizzate da una fase iniziale di grande incertezza e dinamicità, in cui i rapporti tra i soci e gli investitori devono essere stabilizzati attraverso strumenti giuridici flessibili, che consentano di risolvere ex ante potenziali conflitti e di preservare la stabilità della governance.
Nel presente articolo si approfondirà la natura dei patti parasociali, la loro disciplina giuridica, i limiti e le cause di nullità, e l’importanza che rivestono per le start-up, evidenziandone il ruolo cruciale nella strutturazione dell’impresa e nella gestione dei rapporti tra i soci.
I patti parasociali: definizione e disciplina normativa
I patti parasociali sono accordi negoziali tra i soci di una società (o tra i soci e terzi), stipulati con lo scopo di regolare specifici aspetti della vita societaria, spesso in deroga o integrazione rispetto alle norme statutarie o legislative. Essi rappresentano una manifestazione dell’autonomia contrattuale dei soci, consentendo di disciplinare materie che lo statuto potrebbe non trattare in maniera dettagliata o che richiedono flessibilità nell’interpretazione delle regole societarie.
A differenza dello statuto o degli atti costitutivi, che disciplinano in modo formale e pubblico l’organizzazione e il funzionamento della società, i patti parasociali sono accordi privati, vincolanti esclusivamente per i soci contraenti e non per la società o per i soci non firmatari. La natura privatistica di questi accordi rende i patti parasociali particolarmente adatti a governare dinamiche interne specifiche, come il coordinamento del voto in assemblea, la nomina degli amministratori, la distribuzione degli utili o la regolazione della cessione delle partecipazioni sociali.
A livello normativo, i patti parasociali trovano la loro disciplina principale negli artt. 2341-bis e 2341-ter del Codice Civile, che si riferiscono specificamente alle società per azioni. L’articolo 2341-bis prevede che la durata dei patti parasociali non possa superare i cinque anni, salvo diversa pattuizione. Qualora i patti siano stipulati senza indicazione di una durata, essi si intendono automaticamente vincolanti per il termine di cinque anni, e la loro proroga deve essere esplicitamente concordata tra le parti contraenti. La proroga tacita non è ammessa, al fine di evitare vincoli perpetui che potrebbero compromettere la libertà contrattuale dei soci.
È importante sottolineare che, sebbene i patti parasociali non siano soggetti a pubblicità obbligatoria nelle società non quotate, nelle società quotate i patti devono essere resi pubblici e comunicati alla Consob, ai sensi dell’art. 122 del Testo Unico della Finanza (TUF). In mancanza di tale pubblicità, i patti parasociali perdono efficacia e non sono opponibili ai terzi.
Limiti ai patti parasociali e cause di nullità o invalidità
Sebbene i patti parasociali costituiscano una manifestazione dell’autonomia contrattuale dei soci, la loro stipulazione non è priva di limiti. I patti, infatti, non possono violare norme imperative o l’interesse generale della società, pena la loro nullità o invalidità. Tra i principali limiti ai patti parasociali, possiamo individuare, ad esempio, la durata eccessiva: il Codice Civile impone un limite massimo di cinque anni per i patti parasociali nelle società per azioni, salvo diversa pattuizione. Una durata superiore a cinque anni senza consenso esplicito delle parti o una proroga tacita renderebbe nullo l’accordo, poiché violerebbe le disposizioni imperative. Questo limite temporale mira a evitare vincoli contrattuali eccessivi che potrebbero comprimere la libertà contrattuale dei soci a lungo termine.
Inoltre, i patti parasociali non possono violare norme imperative dell’ordinamento giuridico. Ad esempio, non possono essere stipulati accordi che violino le regole sulla governance societaria previste dal Codice Civile, come la libertà di voto nelle assemblee o il diritto alla distribuzione degli utili secondo le quote di partecipazione. In tali casi, il patto potrebbe essere dichiarato nullo ai sensi dell’art. 1418 c.c.
In altri casi, sono stati ritenuti invalidi i patti che pregiudicano l’interesse generale della società. Un esempio è dato dai patti che limitano eccessivamente l’autonomia decisionale degli amministratori o che impediscono lo svolgimento di operazioni necessarie alla crescita o alla sopravvivenza della società. I patti che compromettono la funzionalità degli organi sociali o che paralizzano le decisioni strategiche vitali della società sono considerati contrari all’interesse sociale e, di conseguenza, nulli.
Inoltre, stando alla giurisprudenza prevalente, gli accordi parasociali devono rispettare il principio di parità di trattamento tra i soci, garantendo che tutti godano degli stessi diritti e doveri in proporzione alle loro partecipazioni. Patti che discriminano alcuni soci a favore di altri, senza una giustificazione legittima, sono considerati contrari al principio di uguaglianza e possono essere dichiarati nulli.
L’importanza dei patti parasociali nelle start-up
Nelle start-up innovative, la proprietà intellettuale (brevetti, software, marchi) e il know-how tecnico rappresentano spesso gli asset più preziosi, fondamentali per il vantaggio competitivo dell’impresa. I patti parasociali possono includere clausole volte a proteggere questi beni immateriali, assicurando che non vengano utilizzati impropriamente o sfruttati dai soci al di fuori del contesto societario.
In questo senso, le clausole di non concorrenza e non divulgazione (NDA) diventano cruciali: esse possono prevedere, ad esempio, che i soci fondatori non possano avviare attività concorrenti o che siano tenuti a mantenere riservate le informazioni aziendali sensibili, garantendo così che la proprietà intellettuale rimanga protetta anche in caso di uscita di uno dei soci.
Inoltre, nelle start-up è comune la necessità di gestire con attenzione le exit strategy. I patti parasociali permettono di disciplinare in modo dettagliato le modalità con cui i soci possono cedere le proprie partecipazioni o come la società stessa possa essere venduta a terzi.
Vi sono, per citare alcuni esempi, clausole come il drag-along, che consente al socio di maggioranza di obbligare i soci di minoranza a vendere le loro partecipazioni a un potenziale acquirente; oppure il tag-along, che garantisce ai soci di minoranza il diritto di partecipare alla vendita alle stesse condizioni del socio di maggioranza, sono strumenti fondamentali per assicurare trasparenza e equilibrio nelle operazioni di cessione, prevenendo situazioni conflittuali e proteggendo gli interessi di tutte le parti coinvolte.
Infine, un ulteriore aspetto rilevante riguarda la gestione dei conflitti e la prevenzione dello stallo decisionale, una questione particolarmente critica nelle start-up, dove i fondatori spesso hanno visioni divergenti su come guidare la crescita dell’impresa. I patti parasociali possono includere meccanismi di risoluzione delle controversie, come l’arbitrato o la mediazione, che offrono soluzioni rapide e meno costose rispetto al contenzioso giudiziale. Inoltre, possono prevedere sistemi per evitare lo stallo decisionale, come l’adozione di clausole che richiedano maggioranze qualificate per decisioni strategiche o meccanismi di risoluzione forzata dei conflitti.
In definitiva, i patti parasociali si rivelano strumenti essenziali per le start-up, in quanto permettono di governare in modo efficace le relazioni tra i soci, preservando la stabilità della governance e favorendo la crescita armoniosa della società. Essi fungono da rete di protezione per affrontare eventuali conflitti futuri e per garantire che le decisioni critiche vengano prese nel rispetto degli interessi comuni, senza compromettere la flessibilità e l’agilità che sono caratteristiche distintive delle imprese in fase di avvio.
Start-up, cessione di equity e partecipazione attiva nella società
I patti parasociali rivestono un ruolo cruciale nelle start-up non solo per regolamentare i rapporti tra soci, ma anche per assicurare che chi riceve quote di equity giustifichi il proprio coinvolgimento attraverso un contributo lavorativo concreto e continuativo.
In una start-up, spesso i soci fondatori, oltre a investire capitale, offrono le proprie competenze operative, tecnologiche o manageriali, essenziali per il successo dell’impresa. Tuttavia, l’attribuzione di equity non dovrebbe mai essere considerata un “premio” fine a sé stesso, ma piuttosto un incentivo che richiede una costante partecipazione attiva allo sviluppo del progetto.
Attraverso i patti parasociali, è possibile stabilire obblighi specifici per i soci che ricevono quote di capitale. Questi accordi possono includere clausole che vincolano il socio a determinati compiti o obiettivi, legando il mantenimento delle quote al raggiungimento di performance lavorative o all’effettivo impegno nella gestione dell’impresa. Tale struttura non solo motiva i soci a lavorare efficacemente per la crescita della start-up, ma assicura anche che l’equity distribuita sia legata a un apporto reale e misurabile.
Inoltre, i patti parasociali possono prevedere meccanismi di c.d. “vesting”, in cui le quote vengono acquisite progressivamente nel tempo, in modo da incentivare i soci a rimanere impegnati a lungo termine nel progetto. Se un socio decidesse di abbandonare l’impresa o non rispettasse i propri impegni, i patti possono stabilire la restituzione delle partecipazioni o la riduzione del loro valore, proteggendo così la società da una distribuzione ingiustificata di capitale.
In sintesi, i patti parasociali nelle start-up sono fondamentali per garantire che l’equity sia non solo una ricompensa, ma uno strumento di responsabilità, legato alla dedizione lavorativa e al contributo reale che ogni socio apporta alla crescita dell’impresa.
Conclusioni in punto di patti parasociali
In conclusione, i patti parasociali rappresentano un pilastro fondamentale nella regolamentazione delle dinamiche interne di una società, soprattutto nel contesto delle start-up. La loro capacità di adattarsi alle specifiche esigenze dei soci e di integrare la disciplina prevista dallo statuto consente di gestire con maggiore precisione e flessibilità i rapporti tra i soci fondatori e gli investitori, assicurando al tempo stesso una governance solida e trasparente. Se utilizzati correttamente, i patti parasociali possono prevenire conflitti, proteggere gli asset strategici della società, e garantire una gestione equilibrata delle partecipazioni e delle decisioni societarie più importanti.
Tuttavia, è essenziale che tali accordi vengano redatti con attenzione, nel rispetto dei limiti imposti dalla legge e dalla prassi giurisprudenziale. La presenza di clausole che violano norme imperative, ledano l’interesse della società o pregiudichino i diritti dei soci non firmatari potrebbe condurre alla nullità o all’invalidità dei patti, compromettendo l’equilibrio societario. Di conseguenza, è sempre consigliabile che i patti parasociali siano redatti con l’assistenza di professionisti legali competenti, in modo da garantire la conformità normativa e la tutela degli interessi di tutte le parti coinvolte.

Exit strategy e acquisto di quote societarie – Assistenza legale dello Studio D’Agostino – Roma
da Redazione | Set 24, 2024 | Diritto civile, Diritto d'Impresa
Il commercio elettronico, o e-commerce, è oggi uno dei settori più dinamici e in rapida crescita nell’economia globale del digital business. Con la diffusione di internet e delle tecnologie digitali, sempre più imprese scelgono di aprire siti web o marketplace per vendere i propri prodotti o servizi online. Tuttavia, avviare e gestire un’attività di e-commerce richiede la scrupolosa osservanza di normative nazionali e comunitarie che regolano questo settore. Il commercio elettronico è, infatti, un ambito estremamente regolamentato, poiché implica questioni di protezione del consumatore, gestione dei dati personali, sicurezza delle transazioni e tutela della concorrenza.
In particolare, a livello dell’Unione Europea, esistono diverse normative che disciplinano l’e-commerce, come la Direttiva sul commercio elettronico (2000/31/CE), la Direttiva sui diritti dei consumatori (2011/83/UE) e, più recentemente, il Digital Services Act (DSA), che introduce nuovi obblighi per le piattaforme digitali, inclusi i marketplace.
Per i gestori di siti di e-commerce, adeguarsi a queste normative è fondamentale non solo per evitare sanzioni, ma anche per garantire una concorrenza leale e una maggiore fiducia da parte dei consumatori. Questo articolo fornisce una panoramica approfondita delle principali normative che regolano l’e-commerce, con un focus specifico sulle novità introdotte dal DSA e sugli obblighi previsti dal Codice del consumo italiano.
La direttiva sul commercio elettronico e sulla protezione dei consumatori
La Direttiva 2000/31/CE è uno dei principali strumenti normativi dell’Unione Europea in materia di commercio elettronico. Essa si applica a tutti i fornitori di servizi della società dell’informazione, e ha come obiettivo la creazione di un quadro giuridico armonizzato che favorisca lo sviluppo del mercato interno. La direttiva disciplina aspetti chiave legati alla prestazione di servizi online, garantendo trasparenza e fiducia nelle transazioni digitali.
Uno degli aspetti centrali della direttiva riguarda la conclusione dei contratti di e-commerce, ovvero i cosiddetti “contratti a distanza”. I fornitori di servizi sono obbligati a fornire informazioni dettagliate e accessibili ai consumatori, inclusi i dettagli sull’identità del venditore, il prezzo complessivo, le caratteristiche principali del prodotto o servizio, e i costi di spedizione. Inoltre, devono garantire che il consumatore riceva una conferma tempestiva del contratto una volta che l’ordine è stato inviato. Tale conferma può essere fornita tramite e-mail o un altro mezzo elettronico equivalente.
La direttiva stabilisce, inoltre, che i contratti elettronici abbiano piena validità giuridica, purché rispettino i requisiti di trasparenza e informazione previsti dalla normativa. Per garantire la sicurezza nelle transazioni online, i fornitori di servizi devono implementare meccanismi che consentano al consumatore di correggere eventuali errori prima della conclusione del contratto.
Successivamente, la Direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori è intervenuta per regolamentare i contratti a distanza. Questa direttiva rafforza la tutela dei consumatori nell’e-commerce, introducendo il diritto di recesso, che consente al consumatore di annullare l’acquisto entro 14 giorni dalla ricezione del bene o dalla conclusione del contratto, senza dover fornire alcuna motivazione. Il venditore è obbligato a informare chiaramente il consumatore di tale diritto e a rimborsare tutti i pagamenti, inclusi i costi di spedizione, entro 14 giorni dal ricevimento della comunicazione di recesso. Qualora il venditore non fornisca le informazioni necessarie sul diritto di recesso, il periodo per esercitare tale diritto può estendersi fino a 12 mesi.
Entrambe le direttive mirano a garantire un elevato livello di protezione per i consumatori che effettuano acquisti online, favorendo la trasparenza e la fiducia nelle transazioni digitali. Tuttavia, con l’evoluzione delle tecnologie e l’aumento del commercio elettronico, si è reso necessario un aggiornamento delle normative per affrontare nuove sfide, come la contraffazione online, la trasparenza degli algoritmi e la responsabilità delle piattaforme digitali.
Le novità introdotte dal Digital Services Act: cosa cambia per l’e-commerce?
Il Digital Services Act (DSA), divenuto applicabile a partire dal mese di febbraio del 2024, rappresenta un pilastro della normativa comunitaria in materia di servizi digitali, inclusi i siti di e-commerce. Il DSA integra e modifica alcune delle disposizioni della Direttiva 2000/31/CE, mantenendo in vigore i principi fondamentali della responsabilità limitata per gli intermediari online, ma introducendo nuovi obblighi di diligenza e trasparenza.
Una delle novità più rilevanti riguarda l’obbligo per le piattaforme di e-commerce di garantire la tracciabilità dei venditori. In base al DSA, i marketplace devono raccogliere e verificare informazioni come l’identità legale, il numero di partita IVA e altre informazioni rilevanti prima di consentire ai venditori di offrire i propri prodotti o servizi. Questa misura mira a contrastare la vendita di beni contraffatti e illegali, migliorando la sicurezza per i consumatori. Inoltre, le piattaforme devono assicurarsi che queste informazioni siano facilmente accessibili ai consumatori, in modo che possano identificare chiaramente chi è il venditore e quali sono i loro diritti in caso di problemi con il prodotto o servizio acquistato.
Un altro aspetto cruciale del DSA è l’introduzione di obblighi di trasparenza sugli algoritmi utilizzati dalle piattaforme per raccomandare prodotti o servizi. I consumatori devono essere informati su come vengono selezionati i prodotti che vedono, e devono avere la possibilità di scegliere se accettare o meno la personalizzazione delle raccomandazioni basata sui loro dati personali. Questo aumenta la trasparenza e la fiducia nelle transazioni digitali, poiché i consumatori possono prendere decisioni più consapevoli riguardo ai prodotti da acquistare.
Il DSA introduce anche nuove misure per la gestione dei contenuti illegali e la protezione dei minori. Le piattaforme di e-commerce devono implementare sistemi efficaci per la segnalazione e la rimozione di contenuti o prodotti che violano la legge, come quelli che infrangono i diritti di proprietà intellettuale o che mettono in pericolo la sicurezza dei consumatori. Inoltre, le piattaforme che sono utilizzate prevalentemente da minori devono adottare misure aggiuntive per proteggere i giovani utenti, garantendo che non vengano esposti a contenuti inappropriati o pericolosi.
Infine, il DSA rafforza le disposizioni sulla trasparenza delle recensioni dei prodotti. Le piattaforme devono adottare misure per garantire che le recensioni pubblicate siano autentiche e provenienti da utenti reali, prevenendo così pratiche ingannevoli che potrebbero danneggiare i consumatori.
Le disposizioni del Codice del consumo sull’e-commerce
Il Codice del consumo italiano, disciplinato dal Decreto Legislativo n. 206/2005, rappresenta uno dei pilastri fondamentali della tutela dei consumatori in Italia, con particolare attenzione alla disciplina dei contratti a distanza, incluso il commercio elettronico. Questo corpus normativo, che recepisce molte delle disposizioni contenute nella Direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori, stabilisce una serie di obblighi a carico dei professionisti e dei venditori online al fine di garantire la trasparenza e la tutela dei diritti dei consumatori.
Una delle disposizioni centrali del Codice del consumo riguarda l’obbligo per il venditore di fornire al consumatore informazioni chiare, comprensibili e dettagliate prima della conclusione del contratto. Il legislatore ha posto particolare enfasi su questo aspetto al fine di garantire che il consumatore sia pienamente consapevole delle caratteristiche essenziali del prodotto o del servizio offerto, del prezzo totale, comprese tutte le imposte e i costi aggiuntivi, e delle modalità di consegna e pagamento. Inoltre, è previsto che il venditore fornisca informazioni precise sui tempi di consegna, sulla durata del contratto (nel caso di servizi) e sulle condizioni per l’esercizio del diritto di recesso.
Il diritto di recesso costituisce un altro importante elemento di protezione per il consumatore nei contratti a distanza. Il Codice del consumo stabilisce che il consumatore ha il diritto di recedere dal contratto entro 14 giorni dalla ricezione del bene, o dalla conclusione del contratto nel caso di servizi, senza dover fornire alcuna motivazione. Questo diritto, introdotto per garantire la sicurezza nelle transazioni a distanza, consente al consumatore di esaminare il bene o valutare il servizio prima di decidere definitivamente di mantenerlo. Una volta che il consumatore ha esercitato il recesso, il venditore è obbligato a rimborsare tutte le somme ricevute, inclusi i costi di consegna standard, entro 14 giorni dal ricevimento della notifica di recesso.
Oltre al diritto di recesso, il Codice del consumo affronta anche la questione delle clausole vessatorie nei contratti a distanza. Le clausole che comportano un significativo squilibrio tra i diritti e gli obblighi delle parti, a svantaggio del consumatore, sono considerate nulle e non vincolanti. Questo principio è essenziale per evitare che il venditore possa imporre condizioni inique o sproporzionate, come ad esempio limitazioni indebite al diritto del consumatore di far valere le proprie pretese o modifiche unilaterali del contratto.
In sintesi, il Codice del consumo italiano impone una serie di obblighi ai venditori online, con l’obiettivo di garantire trasparenza, equità e protezione per i consumatori. L’osservanza di tali disposizioni è fondamentale per i gestori di siti di e-commerce, poiché il mancato rispetto delle normative non solo comporta sanzioni amministrative, ma può anche avere ripercussioni significative sulla fiducia dei consumatori e sulla reputazione dell’impresa.
Conclusioni sulla conformità legale nell’ambito dell’e-commerce
In un contesto normativo in rapida evoluzione come quello dell’e-commerce, la compliance legale è diventata un fattore imprescindibile per il successo e la sostenibilità di un’attività online. Le norme europee, come la Direttiva 2000/31/CE, la Direttiva 2011/83/UE, il Digital Services Act e il Codice del consumo italiano, offrono un quadro completo e articolato per la tutela dei consumatori e la regolamentazione dei contratti a distanza.
Ignorare o sottovalutare l’importanza della conformità a queste normative può esporre i gestori di siti di e-commerce o marketplace a sanzioni significative. In particolare, le violazioni delle disposizioni del Digital Services Act possono comportare multe fino al 6% del fatturato annuo globale dell’impresa, rendendo estremamente rischioso operare senza una corretta gestione della conformità.
Per chi decide di avviare o gestire un’attività di e-commerce, è fondamentale comprendere che il rispetto delle normative non è solo un obbligo giuridico, ma anche una garanzia per la stabilità e la crescita del business. L’inosservanza delle norme può comportare sanzioni amministrative, ma può anche avere conseguenze molto più gravi in termini di perdita di reputazione e di fiducia da parte dei consumatori, elementi chiave per il successo di qualsiasi attività online.star
Il nostro Studio Legale, grazie alla sua esperienza nel settore, offre consulenza specializzata per le imprese che operano nel commercio elettronico, aiutandole a navigare nel complesso panorama normativo e a garantire la piena conformità alle leggi in vigore. L’assistenza di un professionista è essenziale per evitare errori che potrebbero risultare fatali per l’impresa, sia dal punto di vista legale che economico. Forniamo supporto completo, dalla redazione e verifica delle condizioni generali di vendita, alla gestione dei reclami dei consumatori, fino alla protezione dei dati e alla conformità con le normative in materia di proprietà intellettuale e diritto d’autore.
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