Abusivismo finanziario e valute virtuali: limiti di legalità in una recente pronuncia della Cassazione Penale

Abusivismo finanziario e valute virtuali: limiti di legalità in una recente pronuncia della Cassazione Penale

Tra le più recenti pronunce della Corte di Cassazione Penale in materia di abusivismo finanziario, figurano casi relativi all’offerta e gestione di criptoattività in assenza delle prescritte abilitazioni. Con il presente articolo ci proponiamo di delineare i criteri interpretativi adottati dal giudice penale per ricondurre le operazioni aventi a oggetto valute virtuali nell’ambito applicativo dell’art. 166 del D. Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo Unico della Finanza – TUF), norma incriminatrice dell’esercizio abusivo di servizi e attività di investimento.

La complessità della materia – che intreccia diritto penale dell’economia e diritto dei mercati finanziari – impone una lettura coordinata delle fonti interne ed europee, nonché un confronto con le definizioni elaborate dalla giurisprudenza di legittimità, anche in ambito civilistico.

In tale prospettiva, particolare rilievo assume la sentenza della Corte di Cassazione, Sezione V Penale, 19 luglio 2024, n. 29649, che ha affrontato in modo approfondito il tema della riconducibilità delle criptovalute alla nozione di prodotto finanziario.

Il commento alla decisione è stato oggetto di una nostra nota pubblicata nel fascicolo 2/2025 della rivista “Diritto di Internet”, nella quale sono stati esaminati gli approdi ermeneutici della Suprema Corte e le possibili ricadute in termini di responsabilità penale.

L’articolo che segue si propone dunque di riprendere e sviluppare ulteriormente tali profili, mettendo in luce i criteri giuridici attraverso cui l’abusivismo finanziario viene riconosciuto anche nei confronti di soggetti operanti nel mercato delle valute virtuali.

Tassatività penale e abusivismo finanziario: il caso giudiziario affrontato dalla Corte

La vicenda affrontata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 29649 del 19 luglio 2024 prende le mosse dalla condanna riportata da un soggetto ritenuto responsabile del reato di abusivismo finanziario per aver svolto, in maniera sistematica e senza alcuna abilitazione, attività di investimento e offerta fuori sede di prodotti e strumenti finanziari, tra cui figuravano anche investimenti in criptovalute.

Il Tribunale di Verona, con sentenza confermata in appello, aveva accertato che l’imputato aveva gestito capitali per oltre due milioni di euro, promuovendo operazioni rivolte a un numero rilevante di risparmiatori.

In sede di legittimità, la difesa ha invocato il principio di tassatività della norma penale, sostenendo l’insussistenza del reato di cui all’art. 166 TUF in quanto i prodotti finanziari offerti risultavano, salvo che per le criptovalute, del tutto inesistenti nella realtà fenomenica e giuridica. Secondo tale impostazione, la condotta avrebbe dovuto essere sussunta – eventualmente – sotto altre fattispecie, come quella di truffa, ma non sarebbe stata idonea a integrare il reato di abusivismo finanziario, il quale richiederebbe l’offerta o la gestione di prodotti effettivamente esistenti e riconducibili all’ordinamento di settore.

La Corte ha tuttavia rigettato tale ricostruzione, rilevando come l’essenza dell’infrazione consista nell’esercizio non autorizzato di attività riservate, indipendentemente dalla liceità o dalla validità intrinseca dei prodotti prospettati.

Anche qualora l’attività concretamente svolta si riveli priva di valore economico reale, ciò che rileva è la percezione da parte del pubblico e la funzione economica assunta dall’operazione, se connotata da aspettativa di rendimento e da un rischio di investimento. L’interpretazione offerta dalla Cassazione si muove dunque lungo una linea di continuità con la funzione protettiva dell’art. 166 TUF, intesa a tutelare non soltanto l’interesse individuale del risparmiatore, ma anche l’integrità e il corretto funzionamento del mercato finanziario.

In questa prospettiva, l’abusivismo finanziario può configurarsi anche in relazione ad asset privi di valore oggettivo, laddove il promotore ne abbia fatto oggetto di un’attività riconducibile ai servizi di investimento disciplinati dal Testo Unico della Finanza.

Abusivismo finanziario e criptovalute: natura dell’asset e criteri interpretativi

L’art. 166, comma 1, del D. Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (TUF) prevede che: «È punito con la reclusione da uno a otto anni e con la multa da euro quattromila a euro diecimila chiunque, senza esservi abilitato ai sensi del presente decreto: a) svolge servizi o attività di investimento o di gestione collettiva del risparmio; […] c) offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento». La norma incriminatrice individua quindi due diverse tipologie di condotte penalmente rilevanti: da un lato, l’esercizio abusivo di servizi di investimento; dall’altro, l’offerta, promozione o collocamento di prodotti finanziari senza abilitazione, anche tramite tecniche di comunicazione a distanza.

Nel caso deciso dalla Cassazione con la sentenza n. 29649/2024, l’imputato era accusato di aver posto in essere condotte riconducibili alle ipotesi di cui alle lettere a) e c) dell’art, 166, avendo promosso operazioni speculative in criptovalute, ricevendo direttamente le somme dai risparmiatori e gestendo portafogli digitali per loro conto, pur essendo privo delle necessarie autorizzazioni.

Il ricorrente ha contestato la configurabilità del reato, sostenendo che le criptovalute non potessero essere ricondotte né alla nozione di prodotto finanziario né a quella di strumento finanziario, in quanto non espressamente menzionate nel TUF.

La Suprema Corte ha respinto tale impostazione, sottolineando che ciò che rileva, ai fini dell’integrazione del reato di abusivismo finanziario, è la funzione economica concretamente assunta dall’operazione. In particolare, la Corte ha accertato che l’imputato non si limitava a facilitare l’acquisto di criptovalute come mezzo di scambio, bensì gestiva portafogli virtuali riconducibili ai clienti, perseguendo un obiettivo di rendimento finanziario. Tale modalità operativa consente di qualificare le valute virtuali come strumenti impiegati con finalità di investimento e, pertanto, suscettibili di essere ricondotti nell’ambito applicativo dell’art. 166 TUF.

La Corte valorizza, in questo senso, una nozione funzionale del prodotto finanziario, ponendo al centro dell’analisi la finalità economica dell’operazione e la percezione che ne ha il pubblico, piuttosto che la tassatività della tipologia contrattuale o la denominazione dello strumento. In questa prospettiva, la condotta contestata rientra appieno nella disciplina penale dell’abusivismo finanziario, anche in assenza di un’espressa tipizzazione delle valute virtuali come strumenti regolamentati.

Abusivismo finanziario e criteri civilistici di finanziarietà

L’inquadramento delle criptovalute tra i prodotti finanziari rilevanti ai fini dell’art. 166 TUF presuppone una riflessione sul concetto di investimento finanziario, che non può esaurirsi in un elenco tassativo di strumenti normativamente tipizzati.

In tal senso, la giurisprudenza civile ha progressivamente elaborato una nozione “aperta” di prodotto finanziario, capace di adattarsi alle continue evoluzioni del mercato. Ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. u), del Testo Unico della Finanza, i prodotti finanziari sono definiti come «gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria».

Tale formula evidenzia un approccio funzionale e non formale alla nozione di prodotto, volto a ricomprendere tutte quelle operazioni che, pur prive di una veste giuridica codificata, presentano elementi oggettivi di finanziarietà.

Secondo un consolidato orientamento della Corte di Cassazione civile (v. Sez. I, sent. n. 10598 del 19 maggio 2005; Sez. II, sent. n. 2736 del 5 febbraio 2013), costituisce investimento di natura finanziaria ogni operazione nella quale ricorra un conferimento di denaro da parte del risparmiatore, un’aspettativa di rendimento o di utilità, e l’assunzione di un rischio, rispetto all’impiego delle disponibilità in un determinato intervallo temporale.

L’effetto economico dell’operazione, e non la forma contrattuale utilizzata, rappresenta il criterio guida per accertare la sussistenza della “finanziarietà”. Tale impostazione consente di includere nella disciplina di protezione anche le operazioni atipiche o innominate, in linea con le esigenze di tutela degli investitori nei confronti di iniziative di mercato sempre più articolate e tecnologicamente avanzate.

Nel solco di tale interpretazione, la Cassazione penale, nella sentenza n. 29649/2024, ha valorizzato proprio questi indici civilistici per affermare la sussumibilità delle operazioni aventi a oggetto criptovalute nella nozione di investimento finanziario penalmente rilevante.

È la stessa Corte a richiamare, in motivazione, il principio secondo cui il prodotto finanziario costituisce una categoria aperta, elaborata dal legislatore per rispondere alla creatività del mercato e alla necessità di intercettare tutte le forme, anche non convenzionali, di offerta al pubblico del risparmio.

L’abusivismo finanziario, pertanto, può configurarsi anche in relazione a strumenti non espressamente elencati dal TUF, purché sussistano gli elementi oggettivi dell’investimento secondo i criteri funzionali indicati dalla giurisprudenza civile. Tale convergenza interpretativa tra i giudici civili e penali rafforza la coerenza sistematica dell’ordinamento e consente di attribuire rilievo penalistico anche a condotte che si pongono al di fuori dei modelli contrattuali tradizionali, ma che realizzano di fatto una gestione speculativa del risparmio.

Valute virtuali, abusivismo finanziario e limiti di legalità nell’offerta di cryptoasset

L’estensione della fattispecie di abusivismo finanziario alle condotte aventi a oggetto le criptoattività solleva interrogativi rilevanti sotto il profilo della legalità penale e della prevedibilità del precetto. In effetti, la tipologia eterogenea delle valute virtuali, la mancanza di un’espressa ricomprensione delle stesse nella nozione codificata di strumento finanziario e l’assenza, fino a tempi recenti, di una disciplina armonizzata sul piano europeo, rendono necessario un esercizio interpretativo particolarmente rigoroso da parte dell’interprete.

La Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, affronta tali criticità chiarendo che l’elemento decisivo non risiede nella classificazione astratta dell’asset, bensì nella finalità economica dell’operazione e nella percezione che ne deriva in capo agli investitori.

Secondo il principio affermato dalla Suprema Corte, l’abusivismo finanziario ex art. 166, comma 1, TUF, si configura ogniqualvolta un soggetto, senza autorizzazione, offra al pubblico strumenti o servizi che si presentano come investimenti di natura finanziaria. Ciò include le ipotesi in cui l’offerta sia effettuata al di fuori della sede legale o attraverso tecniche di comunicazione a distanza, anche mediante canali digitali o piattaforme telematiche.

La Cassazione ha più volte chiarito che, qualora l’attività di vendita di valute virtuali sia accompagnata dalla prospettazione di rendimenti attesi, obblighi di riacquisto, strategie di valorizzazione o altre forme di sollecitazione del risparmio, essa assume natura finanziaria e ricade nel perimetro delle condotte sanzionate dall’art. 166, lett. c).

L’offerta di cryptoasset diventa, quindi, penalmente rilevante non in ragione della nomenclatura dell’oggetto scambiato, ma della struttura economica e comunicativa dell’operazione, che deve essere valutata caso per caso.

Ciò impone al giudice penale un’attenta verifica in ordine alla concreta destinazione del capitale, alla presenza di una prospettiva di rendimento, al rischio assunto dall’investitore e alla modalità con cui l’operazione è stata promossa. Tale verifica, ispirata ai criteri civilistici della finanziarietà, permette di rispettare il principio di legalità senza sacrificare l’effettività della tutela del mercato.

Assistenza legale qualificata sul tema Blockchain&Cryptoasset: l’esperienza dello Studio Legale D’Agostino

La crescente diffusione delle valute virtuali come strumenti di investimento e la progressiva affermazione di un’interpretazione estensiva della nozione di prodotto finanziario pongono rilevanti esigenze di orientamento e tutela per operatori economici, investitori, start-up tecnologiche e piattaforme attive nell’ambito delle criptoattività.

La disciplina dell’abusivismo finanziario è soltanto un esempio. Emergono diversi ambiti e profili di responsabilità per soggetti che – spesso in buona fede – svolgano attività di promozione, intermediazione o gestione di valori virtuali, senza considerare la necessità di abilitazioni o iscrizioni presso le autorità di vigilanza .

Il nostro Studio Legale, grazie alla guida dell’Avv. Luca D’Agostino, ha maturato una consolidata esperienza nella valutazione di progetti imprenditoriali relativi a criptoasset, assistendo imprenditori, società fintech, sviluppatori di piattaforme nella valutazione di legalità dei modelli operativi, nella predisposizione di documentazione conforme alla normativa vigente e nella difesa tecnica in procedimenti presso la Consob e altre autorità pubbliche di vigilanza. L’attività si estende anche al contenzioso amministrativo e all’interlocuzione con le autorità competenti per l’adeguamento ai requisiti autorizzatori, alla trasparenza dell’offerta e alla prevenzione di possibili illeciti.

Siamo a disposizione per un confronto operativo e proattivo volto alla soluzione di problematiche specifiche. Contattaci qui.

 

Immagine di mani di un uomo d'affari in manette con documenti finanziari e computer sullo sfondo, rappresentante i reati aziendali e il diritto penale d'impresa.

Diritto penale d’impresa e white-collar crimes – Studio Legale Luca D’Agostino, Roma.

Contratto di sviluppo di programma informatico: ecco le clausole essenziali a tutela della software house

Contratto di sviluppo di programma informatico: ecco le clausole essenziali a tutela della software house

Il contratto di sviluppo software  è quell’accordo che disciplina gli aspetti essenziali del rapporto tra committente e sviluppatore in relazione alla creazione di programmi informatici. Pur non essendo espressamente tipizzato dal legislatore, il contratto di sviluppo si è affermato nella prassi quale accordo a contenuto variabile, modellato sulla base delle esigenze concrete del progetto e delle parti coinvolte.

L’obiettivo del presente contributo è quello di illustrare le principali clausole contrattuali che devono essere oggetto di attenta valutazione e regolazione in sede di negoziazione, al fine di prevenire incertezze interpretative, responsabilità impreviste o criticità operative nella fase esecutiva.

Saranno esaminati, in chiave sistematica, i profili relativi all’inquadramento giuridico della prestazione, alla definizione dell’oggetto, alla disciplina dei diritti di proprietà intellettuale, alle garanzie di funzionamento, alla protezione dei dati personali e agli obblighi di riservatezza, con l’obiettivo di fornire al lettore una guida chiara per la redazione o la verifica di un contratto di sviluppo coerente con i principi dell’ordinamento civile e con le best practices in materia di innovazione tecnologica.

Contratto di sviluppo: natura giuridica e qualificazione come contratto a causa mista

Il contratto di sviluppo di un programma informatico personalizzato presenta, sotto il profilo sistematico, una struttura complessa che si presta a una qualificazione giuridica di tipo misto, risultando talvolta riconducibile all’appalto, talaltra al contratto d’opera intellettuale, e non di rado configurandosi come negozio atipico a prestazioni corrispettive. A seconda delle modalità esecutive e delle clausole pattuite, tale contratto può infatti assolvere una pluralità di funzioni, le quali si riflettono sulla disciplina applicabile.

Nei casi in cui il fornitore si obblighi alla realizzazione completa di un software su misura, con consegna del risultato finale funzionante, trova applicazione la normativa in tema di appalto, con possibilità per il committente, in presenza di difetti, di avvalersi degli strumenti di tutela previsti dagli artt. 1667 e ss. c.c. In alternativa, qualora l’attività si esaurisca in una prestazione tecnica altamente specializzata e intellettuale, affidata a un prestatore d’opera non organizzato in forma imprenditoriale, la fattispecie può essere sussunta nell’ambito del contratto d’opera di cui agli artt. 2222 e ss. c.c., con eventuale applicazione della limitazione di responsabilità ex art. 2236 c.c. in caso di problemi tecnici di particolare difficoltà.

Tuttavia, nelle prassi commerciali più evolute, è frequente la presenza di clausole di esonero dalla responsabilità per mancato conseguimento di risultati, nonché di previsioni che escludono ogni garanzia circa la conformità del software a esigenze non esplicitamente rappresentate.

Tali previsioni depongono per la configurazione del contratto di sviluppo come prestazione di mezzi, e non di risultato, secondo l’orientamento giurisprudenziale e dottrinale che ne ravvisa la causa tipica nel facere tecnico e non nel trasferimento di un bene finito. In questa prospettiva, è usuale inserire nei contratti formule esplicite, quali: “Il Committente riconosce che lo Sviluppatore non assume alcuna garanzia in ordine alla conformità del Software a uno specifico risultato, obiettivo aziendale o destinazione d’uso, salvo quanto espressamente previsto nel contratto”.

Tale impostazione è coerente con il principio di buona fede contrattuale, che impone una valutazione attenta del sinallagma alla luce della cooperazione del committente, della complessità del bene immateriale fornito e dell’effettivo contributo tecnico dello sviluppatore alla progettazione.

Contratto di sviluppo: determinazione dell’oggetto e articolazione delle prestazioni

Nel contratto di sviluppo, l’esatta delimitazione dell’oggetto contrattuale costituisce elemento di rilevanza centrale per la corretta individuazione delle obbligazioni assunte dalle parti. A differenza della semplice licenza d’uso di software standardizzato, il contratto di sviluppo presuppone un’attività progettuale personalizzata, calibrata sulle esigenze operative del committente, la cui attuazione comporta un facere qualificato, spesso articolato in più fasi tecniche.

In tale prospettiva, l’oggetto può includere sia la raccolta e l’analisi dei requisiti funzionali del sistema, sia la progettazione logica e l’implementazione progressiva di uno o più moduli software, fino al rilascio della versione finale dell’applicativo.

La prassi contrattuale più accorta prevede che il contratto sia strutturato in fasi autonome e progressivamente vincolanti: ad esempio, una prima fase di analisi e modellazione, una seconda fase di prototipazione o sviluppo di un “proof of concept”, e una terza fase eventuale di finalizzazione dell’applicativo definitivo.

Questa segmentazione favorisce la flessibilità operativa e consente di subordinare l’avanzamento del progetto all’esito positivo delle fasi precedenti. È inoltre frequente che l’oggetto contrattuale comprenda anche attività ulteriori, come il rilascio della documentazione tecnica, il supporto al collaudo, la manutenzione correttiva o evolutiva, la formazione del personale interno del committente e la consulenza in tema di proprietà intellettuale.

Al fine di evitare incertezze interpretative, è consigliabile che le parti definiscano sin dall’origine i confini dell’obbligazione, precisando le funzionalità richieste, gli standard attesi e le modalità tecniche di interazione con altri sistemi.

In tal senso, costituisce buona prassi allegare al contratto una scheda progettuale o un documento tecnico di accompagnamento, suscettibile di aggiornamento mediante accordi integrativi. Come recita una delle clausole-tipo frequentemente impiegate: “Il presente contratto ha per oggetto lo sviluppo di un applicativo personalizzato, secondo le specifiche tecniche e le tempistiche indicate nel documento progettuale allegato, che costituisce parte integrante dell’accordo”.

Obblighi delle parti, tempistiche di consegna e autonomia organizzativa nel contratto di sviluppo software

Nell’ambito del contratto di sviluppo, le obbligazioni assunte dalle parti non si esauriscono nell’individuazione dell’oggetto della prestazione, ma implicano un’accurata definizione degli oneri collaborativi e delle condizioni esecutive. Lo sviluppatore, in qualità di prestatore d’opera intellettuale, assume l’obbligo di eseguire l’incarico con la diligenza qualificata richiesta dalla natura specialistica dell’attività e secondo le specifiche concordate.

Tale obbligazione è, salvo diverso patto, da intendersi come obbligazione di mezzi e non di risultato, con applicazione del regime di responsabilità previsto dall’art. 2236 c.c. nei casi che comportino la soluzione di problemi tecnici di particolare complessità.

Elemento centrale del rapporto è l’autonomia tecnico-organizzativa dello sviluppatore, il quale opera secondo modalità proprie, con facoltà di strutturare liberamente le fasi operative, di scegliere strumenti, collaboratori e ambienti di sviluppo, e di determinare la metodologia da adottare.

Tale autonomia esclude ogni rapporto di subordinazione e consente una più efficiente gestione del progetto, fermi restando gli obblighi di conformità ai requisiti previsti dal contratto. In sede negoziale, è frequente l’inserimento di formule che ne chiariscono la portata, quali “il fornitore eseguirà le attività in piena autonomia tecnico-organizzativa, restando responsabile del risultato solo nei limiti delle specifiche tecniche documentate”.

Specularmente, il committente è tenuto a collaborare attivamente fornendo tempestivamente dati, informazioni, documenti, ambienti di test, credenziali di accesso e ogni altro elemento ritenuto necessario dallo sviluppatore. Il ritardo o l’inadempimento in tali obblighi accessori può determinare il differimento dei termini di consegna, che decorrono normalmente “dalla data di ricezione completa dei materiali e della conferma di avvio del progetto da parte del fornitore”.

In progetti complessi, è consigliabile suddividere le attività dedotte nel contratto di sviluppo in stati di avanzamento (SAL), associando a ciascuna fase un obiettivo intermedio e un corrispettivo specifico, in modo da garantire una distribuzione proporzionata del rischio e del compenso tra le parti.

Responsabilità, garanzie e limitazioni negoziali nel contratto di sviluppo software

All’interno del contratto di sviluppo, la disciplina della responsabilità contrattuale e delle garanzie assume particolare rilievo, specie laddove l’attività dell’impresa incaricata implichi l’elaborazione di soluzioni personalizzate, innovative o fondate, ad esempio, su modelli di intelligenza artificiale.

Nella prassi, lo sviluppatore tende a limitare preventivamente il proprio rischio attraverso clausole che circoscrivano la responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, come ammesso dall’art. 2236 c.c. per le prestazioni d’opera intellettuale implicanti la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà.

È frequente, ad esempio, l’inserimento di formulazioni in cui si prevede che “lo sviluppatore non assume alcuna garanzia in ordine alla correttezza dell’output generato dal software, trattandosi di sistemi basati su modelli predittivi o algoritmi non deterministici, la cui variabilità è intrinseca”. Clausole di tal genere sono pienamente lecite, purché non determinino un’esclusione assoluta della responsabilità per colpa grave o per inadempimenti essenziali, ipotesi vietata ai sensi dell’art. 1229 c.c.

Va evidenziato che, nel caso di contratto qualificabile come appalto, la normativa applicabile prevede in ogni caso l’obbligo per l’appaltatore di eliminare i vizi dell’opera o ridurre il prezzo, ai sensi dell’art. 1668 c.c., nonché la possibilità di risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c. qualora il difetto renda il programma del tutto inidoneo all’uso.

Tuttavia, qualora le parti qualifichino il contratto di sviluppo come prestazione d’opera intellettuale o come contratto atipico a causa mista, sarà possibile adottare una disciplina più flessibile e coerente con le peculiarità del settore, specialmente nei progetti in cui il risultato sia influenzato anche da elementi esterni alla prestazione del fornitore.

In sintesi, la corretta allocazione del rischio contrattuale tra committente e sviluppatore passa attraverso la redazione di clausole chiare, proporzionate e non vessatorie, idonee a distinguere tra obblighi di diligenza, obblighi di risultato e margini di incertezza fisiologici dei sistemi software in fase di sviluppo o prototipazione.

Proprietà intellettuale e diritti sul software

Uno degli snodi centrali nella redazione di un contratto di sviluppo è rappresentato dalla disciplina dei diritti di proprietà intellettuale sul programma informatico realizzato.

In linea generale, lo sviluppatore – persona fisica o giuridica – è titolare originario dei diritti morali e patrimoniali d’autore sull’opera digitale, ai sensi della Legge 22 aprile 1941, n. 633. Ne deriva che, salvo patto contrario, i diritti di utilizzazione economica sul software personalizzato non si trasferiscono automaticamente al committente con la sola stipulazione del contratto.

Nel contratto di sviluppo è quindi fondamentale stabilire se e in quale misura il codice sorgente sarà ceduto al committente, se con licenza esclusiva, non esclusiva o con facoltà di riutilizzo da parte dello sviluppatore.

In taluni casi, si potrà convenire che la titolarità rimanga in capo al fornitore, il quale concederà una licenza d’uso non esclusiva, “con facoltà per il cliente di modificarlo, impiegarlo per finalità commerciali e affidarlo a soggetti terzi per il completamento o la manutenzione del sistema”.

Resta sempre fermo che il diritto morale d’autore, in particolare il diritto alla paternità dell’opera, è inalienabile e imprescrittibile, e consente all’autore – o alla società che lo rappresenta – di rivendicare la propria qualifica di ideatore anche nei confronti del pubblico o della stampa.

Nella prassi, la cessione definitiva del codice sorgente avviene solo al termine di uno sviluppo completo e su pagamento integrale del corrispettivo pattuito. È consigliabile formalizzare detta cessione mediante un documento separato, allegato al contratto, che precisi in modo puntuale gli oggetti trasferiti, le modalità di utilizzo consentite e gli eventuali vincoli di esclusiva.

In mancanza, il rischio è che si creino incertezze interpretative o contenziosi sulla titolarità dei risultati, con effetti negativi sul valore dell’applicativo e sulla libertà contrattuale delle parti.

Contratto di sviluppo: un’assistenza legale dedicata

La crescente complessità tecnologica dei progetti digitali, unitamente al valore strategico che il software rappresenta per molte imprese, impone un approccio giuridico rigoroso e consapevole alla redazione del contratto di sviluppo. È essenziale che ogni clausola sia calibrata in modo da tutelare gli interessi economici delle parti, prevenire ambiguità interpretative, regolare in modo puntuale i diritti sul codice sorgente, le licenze d’uso, le responsabilità connesse all’output generato e gli obblighi in materia di trattamento dei dati personali.

In questo contesto, lo Studio Legale D’Agostino offre una consulenza esperta a imprese, startup innovative e committenti pubblici o privati, con particolare competenza nei contratti aventi ad oggetto lo sviluppo di software, la proprietà intellettuale, la tutela del know-how e la compliance normativa applicabile al settore tecnologico e AI-based.

Lo Studio assiste i propri clienti sia nella fase di modellazione del contratto di sviluppo, nella negoziazione, sia nella predisposizione e revisione dei documenti contrattuali, condizioni generali e moduli d’ordine. Per ricevere un primo confronto, è possibile contattare lo Studio attraverso i recapiti disponibili nella sezione Contatti.

Tentativo di phishing nel rinnovo piano di hosting: attenzione alle frodi!

Tentativo di phishing nel rinnovo piano di hosting: attenzione alle frodi!

Il tentativo di phishing è, purtroppo, all’ordine del giorno. Negli ultimi mesi si è assistito a una crescente sofisticazione delle tecniche di frode online, con particolare riferimento al fenomeno del tentativo di phishing che sfrutta dati verosimili e circostanze concrete per ingannare l’utente.

Uno degli schemi più insidiosi recentemente emersi riguarda l’invio di comunicazioni fraudolente in occasione del rinnovo di servizi digitali, come il piano di hosting di un sito web. È quanto accaduto nel caso recentemente affrontato dal nostro Studio, in cui è stato rilevato un tentativo di phishing costruito intorno al rinnovo del piano di hosting presso Aruba (qui le informazioni che il provider mette a disposizione per individuare e segnalare un illecito).

Gli autori della truffa, evidentemente a conoscenza della data imminente di scadenza del servizio, hanno inviato un messaggio email apparentemente legittimo, completo di logo, intestazione e riferimenti temporali compatibili con le comunicazioni ufficiali del fornitore.

Il messaggio conteneva un link per procedere al rinnovo, che in realtà conduceva a un sito clone, creato per acquisire i dati della carta di pagamento dell’ignaro destinatario. Questo episodio conferma come il tentativo di phishing possa oggi manifestarsi con modalità estremamente credibili, rendendo necessario un elevato livello di attenzione da parte dell’utente, nonché un’adeguata consapevolezza giuridica circa le implicazioni di tale condotta fraudolenta.

Il tentativo di phishing come forma di spear phishing: tecniche e finalità

Il tentativo di phishing analizzato nel caso relativo al rinnovo del piano di hosting presso Aruba presenta tutte le caratteristiche tipiche di una tecnica evoluta, nota come spear phishing. A differenza delle campagne generiche, questa modalità prevede un’attività di profilazione preventiva dell’utente, finalizzata a rendere il messaggio fraudolento altamente personalizzato e quindi più persuasivo.

L’inclusione di dati attendibili, quali la scadenza effettiva del contratto o il nome del provider, accresce il livello di verosimiglianza della comunicazione e riduce le difese dell’utente, che può essere indotto a cliccare sul link e a inserire dati sensibili senza sospetti.

Dal punto di vista giuridico, tali condotte possono integrare diverse fattispecie penalmente rilevanti, tra cui – a seconda dei casi – l’accesso abusivo a sistema informatico (art. 615-ter c.p.), la truffa (art. 640 c.p.) o la frode informatica (art. 640-ter c.p.) e/o l’utilizzo indebito di strumenti di pagamento elettronico (art. 493-ter c.p.).

Profili di responsabilità e rimedi in caso di tentativo di phishing riuscito

Qualora il tentativo di phishing sortisca effetto, con conseguente sottrazione di dati bancari o l’effettuazione di pagamenti non autorizzati, si aprono scenari complessi dal punto di vista della responsabilità penale e civile.

In primo luogo, l’autore dell’attacco dovrebbe rispondere delle ipotesi di reato sopra enucleate; ciò significa che la vittima potrà avvalersi degli strumenti di tutela offerti dal codice di procedura penale (dalla possibilità di denunciare il fatto alle competenti autorità, alla costituzione di parte civile nel procedimento penale).

Inoltre il soggetto passivo del reato potrà, in base alle circostanze, valutare gli opportuni rimedi contrattuali o civilistici a propria tutela.

Tentativo di phishing: quando rivolgersi a un professionista

L’elevato grado di sofisticazione raggiunto dalle moderne campagne di phishing impone una reazione non solo tecnica, ma anche giuridica. Intercettare tempestivamente la frode, verificare le condizioni contrattuali eventualmente implicate, denunciare l’accaduto alle autorità competenti e agire in giudizio per la tutela dei propri diritti richiedono competenze specifiche e una visione sistemica delle normative in materia di reati informatici.

Nel case study qui in esame, la tempestività nell’individuazione del tentativo di phishing e la verifica della provenienza del messaggio hanno impedito conseguenze patrimoniali dannose. Tuttavia, numerosi utenti e imprese, specialmente in ambito digitale, non dispongono dei mezzi per riconoscere immediatamente una frode e rischiano di subire danni economici e reputazionali rilevanti.

Per questa ragione, il nostro Studio è a disposizione per offrire consulenza specialistica sui reati informatici, sia in fase preventiva — attraverso audit contrattuali e formazione interna — sia in caso di attacco già avvenuto, per valutare l’azione legale più idonea e la tutela giudiziale o stragiudiziale percorribile.

 

Le 4 fasi tipiche della costituzione di società commerciale (in particolare Srl). Assistenza, consulenza legale e il ruolo dell’avvocato.

Le 4 fasi tipiche della costituzione di società commerciale (in particolare Srl). Assistenza, consulenza legale e il ruolo dell’avvocato.

La costituzione di società a responsabilità limitata rappresenta una delle modalità più ricorrenti mediante le quali un soggetto, persona fisica o giuridica, può avviare un’attività economica organizzata. La società a responsabilità limitata è una società di capitali, disciplinata dagli articoli da 2462 a 2483 del codice civile, dotata di personalità giuridica autonoma e contraddistinta dall’istituto dell’autonomia patrimoniale perfetta.

In forza di tale principio, la società risponde delle obbligazioni assunte con il solo patrimonio sociale, rimanendo escluso l’obbligo patrimoniale diretto in capo ai soci, salvo i casi espressamente previsti dalla legge o derivanti da garanzie personali rilasciate dagli stessi.

A differenza delle società di persone, nelle quali l’elemento soggettivo è centrale e comporta una responsabilità solidale e illimitata dei soci, la società a responsabilità limitata si fonda su una struttura patrimoniale e organizzativa flessibile, adattabile alle più diverse esigenze imprenditoriali. Essa può essere costituita da una pluralità di soci oppure da un solo socio, senza che ciò pregiudichi il regime normativo ordinario. Il legislatore ha inteso offrire uno strumento societario idoneo tanto alla gestione di imprese individuali strutturate, quanto allo sviluppo di iniziative collettive con un alto potenziale di evoluzione. Alle start-up innovative abbiamo dedicato una specifica guida, alla quale facciamo rinvio.

In tale contesto, il presente contributo si propone di offrire una guida sistematica alla costituzione di società a responsabilità limitata, illustrando in modo puntuale e progressivo ciascuna delle fasi e degli adempimenti necessari per l’avvio regolare e conforme alla legge di un’attività economica in forma societaria.

Fase 1 – Studio preliminare e redazione dell’atto costitutivo, dello statuto e dei patti parasociali

Costituzione di società: contenuto obbligatorio dell’atto costitutivo e dello statuto

Nell’ambito della costituzione di società a responsabilità limitata, l’atto costitutivo e lo statuto rappresentano i documenti fondamentali che delineano la struttura genetica e funzionale dell’ente societario. Ai sensi dell’articolo 2463 del codice civile, l’atto costitutivo deve essere redatto in forma di atto pubblico a pena di nullità e può essere predisposto anche da un unico socio. Esso deve contenere, tra gli altri, l’indicazione dei dati anagrafici dei soci, la denominazione sociale, la sede legale, l’oggetto sociale, l’ammontare del capitale, le modalità di conferimento, la composizione dell’organo amministrativo e l’eventuale nomina dell’organo di controllo o del soggetto incaricato della revisione legale dei conti.

Lo statuto, pur potendo essere contenuto nel corpo dell’atto costitutivo o in documento separato, ne costituisce parte integrante e ne condivide la medesima forma pubblica. Esso regola in modo puntuale l’organizzazione interna della società, definendo le regole di funzionamento degli organi sociali, i quorum deliberativi, le modalità di convocazione e svolgimento delle assemblee, la disciplina delle partecipazioni sociali e ogni altra clausola funzionale alla vita societaria. In particolare, lo statuto può prevedere l’attribuzione di diritti particolari a singoli soci, clausole di prelazione, gradimento o esclusione, nonché condizioni specifiche per il trasferimento delle quote.

La costituzione di società richiede pertanto un’attenta attività di redazione dei documenti costitutivi, i quali, oltre a conformarsi alla normativa vigente, devono essere strutturati in modo coerente con le esigenze economiche, strategiche e operative dell’impresa.

Patti parasociali e studio dell’assetto organizzativo: adempimenti preliminari alla costituzione di società

Nel processo di costituzione di società commerciale, la definizione dell’assetto organizzativo e dei rapporti tra i futuri soci si rivela spesso fondamentale per la corretta impostazione dell’impresa e per la prevenzione di futuri conflitti interni.

In tale contesto, l’elaborazione di patti parasociali è un scelta fortemente caldeggiata per regolare accordi che, pur restando esterni rispetto all’atto costitutivo, producono effetti giuridici vincolanti tra i soci in ordine alla governance, alla circolazione delle quote, alla distribuzione degli utili o all’esercizio dei diritti di voto. Ad essi abbiamo dedicato uno specifico approfondimento.

I patti parasociali, disciplinati all’articolo 2341-bis del codice civile (applicabile in via analogica anche alle società a responsabilità limitata), consentono una gestione più flessibile e riservata degli equilibri interni, risultando particolarmente utili in contesti partecipativi complessi o in presenza di soci finanziatori, investitori esterni o gruppi familiari.

Al tempo stesso, lo studio della futura attività imprenditoriale e dei suoi obiettivi richiede un’attenta analisi giuridico-economica delle risorse disponibili, della divisione dei ruoli, della strategia di ingresso nel mercato e dei rischi connessi. L’individuazione della miglior organizzazione dei mezzi e delle funzioni è, pertanto, un passaggio non eludibile e deve precedere la formalizzazione dell’atto costitutivo.

In tale fase, il ruolo dell’avvocato si configura non solo come tecnico del diritto, ma come consulente strategico capace di affiancare i soci fondatori nella costruzione di un’impresa solida, coerente con gli obiettivi perseguiti e conforme alla normativa applicabile.

Fase 2 – Stipula dell’atto pubblico e disciplina dei conferimenti

Forma dell’atto costitutivo e ruolo del notaio

La costituzione di società a responsabilità limitata richiede, quale condizione di validità, la forma dell’atto pubblico, come espressamente previsto dall’articolo 2463 del codice civile. Ciò implica l’intervento obbligatorio di un notaio, il quale riveste una funzione centrale non solo in qualità di pubblico ufficiale rogante, ma anche come soggetto deputato al controllo di legalità dell’atto.

L’atto costitutivo redatto in forma pubblica garantisce infatti l’accertamento della volontà delle parti, la verifica della capacità giuridica dei contraenti, la conformità delle clausole statutarie alla legge e la sussistenza delle condizioni prescritte per la validità della società.

Nel procedimento di costituzione di società, il notaio svolge una funzione essenziale di “filtro” tra l’autonomia privata dei soci fondatori e l’ordinamento giuridico, assicurando che l’atto costitutivo sia idoneo a produrre effetti giuridici validi e opponibili. Solo attraverso questa fase di formalizzazione pubblica si pone il presupposto legale per procedere agli adempimenti successivi, primo tra tutti l’iscrizione nel Registro delle Imprese.

Costituzione di società: versamento del capitale sociale e disciplina dei conferimenti

Nel procedimento di costituzione di società a responsabilità limitata, l’effettuazione dei conferimenti è contestuale alla stipula dell’atto costitutivo. Ai sensi dell’articolo 2464 del codice civile, i soci devono conferire beni o diritti suscettibili di valutazione economica, che costituiscono il patrimonio iniziale della società.

I conferimenti, in via generale, avvengono in denaro mediante assegni circolari, consegnati nelle mani dell’amministratore designato all’atto costitutivo, come espressamente previsto dalla prassi notarile e dalla disciplina societaria.

Nelle S.r.l. ordinarie, quando il capitale sociale è pari o superiore a euro 10.000,00, la legge consente che i soci versino, al momento della costituzione, solo il venticinque per cento del capitale sottoscritto in denaro, ferma restando l’obbligazione di versare l’intero ammontare in un momento successivo. Tale obbligazione residua ha natura giuridica di debito verso la società e grava su ciascun socio in misura proporzionale alla quota sottoscritta.

L’integrale versamento dovrà avvenire nei tempi e con le modalità stabilite dall’assemblea o dall’organo amministrativo, potendo la società esigere coattivamente l’adempimento. Diversamente, nel caso di S.r.l. unipersonale, il versamento deve avvenire per intero contestualmente alla costituzione, a tutela del principio di effettività patrimoniale.

Ove il conferimento abbia ad oggetto beni in natura, crediti o prestazioni d’opera, il valore del conferimento deve essere determinato con precisione e documentato, nei casi richiesti, mediante relazione giurata di stima redatta da un revisore legale.

I conferimenti non in denaro devono essere eseguiti integralmente all’atto costitutivo, e la loro esecuzione condiziona la validità dell’operazione. Una valutazione errata o inattendibile del valore dei beni conferiti può determinare squilibri patrimoniali, profili di responsabilità del conferente e potenziali invalidità statutarie.

Fase 3 – Iscrizione della società al Registro delle Imprese

Cosa accade dopo la costituzione di società: iscrizione al Registro delle Imprese e acquisizione della personalità giuridica

La costituzione di società commerciale si perfeziona mediante l’iscrizione dell’atto costitutivo nel Registro delle Imprese, la quale segna il momento genetico della personalità giuridica. Ai sensi dell’articolo 2330, comma 1, del codice civile, è compito del notaio rogante provvedere al deposito dell’atto costitutivo entro il termine perentorio di dieci giorni dalla stipula, presso l’ufficio del Registro delle Imprese competente in base alla sede legale della società.

L’iscrizione ha effetto costitutivo, nel senso che solo con essa la società acquista la capacità di essere titolare di diritti e obblighi giuridici e può validamente operare sul mercato.

L’ufficio del Registro delle Imprese è chiamato a verificare la regolarità formale della documentazione depositata e a riscontrare la sussistenza delle condizioni richieste dall’articolo 2329 del codice civile, ovvero: la sottoscrizione integrale del capitale sociale, la regolarità dei conferimenti (con particolare riferimento agli articoli 2342, 2343 e 2343-ter c.c.), nonché l’acquisizione delle autorizzazioni eventualmente previste da normative settoriali. Il notaio, tuttavia, svolge un controllo sostanziale e preliminare più ampio, volto a garantire il rispetto della legge già nella fase redazionale dell’atto costitutivo.

Senza l’iscrizione nel Registro delle Imprese la costituzione di società commerciale è un contenitore vuoto: essa non può operare e per gli atti eventualmente compiuti sono responsabili i soggetti che li hanno posti in essere, come stabilito dall’articolo 2331 c.c. (“Con l’iscrizione nel registro la società acquista la personalità giuridica. Per le operazioni compiute in nome della società prima dell’iscrizione sono illimitatamente e solidalmente responsabili verso i terzi coloro che hanno agito. Sono altresì solidalmente e illimitatamente responsabili il socio unico fondatore e quelli tra i soci che nell’atto costitutivo o con atto separato hanno deciso, autorizzato o consentito il compimento dell’operazione”).

Fase 4 – Attribuzione della partita IVA e adempimenti funzionali all’operatività

Quali sono gli adempimenti necessari dopo l’iscrizione nel Registro delle Imprese?

Completata l’iscrizione presso il Registro delle Imprese, la costituzione di società a responsabilità limitata (o altra società commerciale) prosegue con l’esecuzione di ulteriori adempimenti amministrativi necessari per acquisire la piena operatività giuridico-fiscale.

In primo luogo, è necessario richiedere l’attribuzione del codice fiscale e della partita IVA, mediante presentazione del relativo modello all’Agenzia delle Entrate. Tale richiesta può essere contestuale alla pratica di Comunicazione Unica, che consente di assolvere, mediante un’unica trasmissione telematica, tutti gli obblighi anagrafici, previdenziali, assistenziali e fiscali previsti dalla normativa.

Tra gli adempimenti successivi alla costituzione di società, rientrano l’iscrizione all’INPS per la posizione aziendale e, se vi sono dipendenti o soci lavoratori, l’iscrizione alla gestione previdenziale appropriata.

Inoltre, se la società esercita attività che comportano rischi specifici, è obbligatoria anche l’iscrizione all’INAIL per la copertura assicurativa contro gli infortuni sul lavoro. Non può poi essere omessa la comunicazione al Comune territorialmente competente dell’inizio dell’attività, attraverso la presentazione della SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività), ove prevista per il settore economico considerato.

Alcune attività regolamentate, quali ad esempio quelle nel settore sanitario, finanziario, edilizio o alimentare, richiedono anche autorizzazioni specifiche o l’iscrizione a registri settoriali, la cui assenza preclude l’effettivo esercizio dell’attività.

La consulenza legale, in questa fase risulta spesso determinante per garantire il coordinamento e il corretto svolgimento di tutti gli obblighi, assicurando che la società sia pienamente conforme al quadro normativo e abilitata a operare regolarmente.

Assistenza e consulenza legale per l’avvio d’impresa e la gestione societaria

Nella costituzione di società commerciale, è fondamentale poter contare su un’assistenza qualificata, capace di guidare l’imprenditore nelle scelte più rilevanti e di garantire la regolarità di ogni passaggio. Il nostro Studio Legale offre una consulenza integrata e multidisciplinare, finalizzata ad assicurare una costituzione conforme, tempestiva e strategicamente efficace della società.

In particolare, affianchiamo i nostri clienti nella scelta del tipo societario più idoneo agli obiettivi imprenditoriali, valutando gli aspetti normativi ed economici connessi. Redigiamo in modo personalizzato l’atto costitutivo e lo statuto, curando ogni clausola rilevante per la governance, la circolazione delle quote, la distribuzione degli utili e l’ingresso di nuovi soci. Elaboriamo patti parasociali per disciplinare in via riservata i rapporti tra i soci, anche in presenza di investitori, gruppi familiari o soci di capitali.

Lo Studio provvede inoltre a coordinare tutti gli adempimenti formali connessi alla costituzione di società, gestendo i rapporti con il notaio e con gli enti pubblici coinvolti nella procedura autorizzatoria.

Grazie a una consolidata esperienza nel diritto societario e nella consulenza d’impresa, lo Studio è in grado di offrire un servizio completo, efficiente e coerente con la visione di crescita dell’imprenditore.

Contattaci per ricevere una consulenza personalizzata e pianificare in modo consapevole e sicuro la costituzione della tua società.

 

Fase Attività di supporto legale dello Studio
Costituzione di società

Fase 1

Studio preliminare e redazione dell’atto costitutivo, dello statuto e dei patti parasociali

·       Analisi giuridica del progetto imprenditoriale

·       Scelta del tipo societario più idoneo

·       Redazione personalizzata di atto costitutivo e statuto-

·       Redazione e formalizzazione di patti parasociali

Costituzione di società

Fase 2

Stipula dell’atto pubblico e disciplina dei conferimenti

·       Coordinamento con il notaio

·       Verifica dei conferimenti

·       Predisposizione della documentazione di supporto

·       Assistenza alla corretta formalizzazione dell’atto pubblico

Costituzione di società

Fase 3

Iscrizione della società al Registro delle Imprese

·       Controllo della documentazione da depositare

·       Verifica della regolarità formale e sostanziale dell’iscrizione

Costituzione di società

Fase 4

Attribuzione di partita IVA, iscrizione presso enti pubblici e altri adempimenti operativi

·       Coordinamento con commercialista e consulenti fiscali

·       Supporto per SCIA, autorizzazioni e iscrizioni obbligatorie

·       Assistenza continuativa all’avvio operativo della società

 

 

 

 

 

Risarcimento del danno per morte o lesione di animale domestico: quali tutele?

Risarcimento del danno per morte o lesione di animale domestico: quali tutele?

Il risarcimento del danno da lesione di animale domestico è, da molti anni, un tema “caldo” e al centro del dibattito giurisprudenziale. Nell’ordinamento giuridico italiano, il rapporto tra individuo e animale domestico ha progressivamente assunto una dimensione sempre più significativa, in virtù di un’evoluzione culturale e sociale che ha portato al riconoscimento del valore affettivo e relazionale dell’animale d’affezione.

Tale cambiamento si riflette, sempre più frequentemente, nella prassi giurisprudenziale, la quale ha mostrato un’apertura, seppur non unanime, verso la possibilità di riconoscere forme di tutela risarcitoria in caso di lesione di animale domestico, sia essa determinata da condotta colposa, dolosa o da inadempimento contrattuale.

Nonostante la qualificazione dell’animale, ai sensi dell’art. 812 c.c., come bene mobile, l’ordinamento ha introdotto nel tempo disposizioni volte a riconoscere agli animali d’affezione una specificità ontologica e relazionale. Ne sono espressione la Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia del 1987, la Legge quadro n. 281/1991, volta a promuovere e disciplinare la tutela degli animali d’affezione, nonché la Legge n. 189/2004, che ha inserito nel codice penale le fattispecie di reato a tutela del sentimento per gli animali.

Parallelamente, la giurisprudenza di merito ha talvolta riconosciuto la perdita o la lesione dell’animale come fatto lesivo di situazioni soggettive meritevoli di tutela, in quanto incidenti sulla sfera affettiva e relazionale del soggetto leso, tutelata ex art. 2 della Costituzione.

Alla luce di tale evoluzione, il presente articolo si propone di offrire una ricostruzione sistematica del quadro normativo e giurisprudenziale in tema di risarcimento del danno per morte o lesione di animale domestico, illustrando le differenti basi giuridiche della responsabilità, le voci di danno risarcibili, i percorsi alternativi alla giurisdizione ordinaria e il ruolo centrale dell’avvocato nella piena tutela dei diritti lesi.

La tutela risarcitoria per lesione di animale domestico: tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale

La progressiva attenzione dell’ordinamento giuridico verso la lesione di animale domestico ha determinato un ampliamento delle categorie di danno suscettibili di ristoro, in particolare con riferimento alla possibilità di riconoscere non soltanto un danno patrimoniale, ma anche un danno non patrimoniale in capo al proprietario dell’animale o al soggetto affettivamente legato ad esso.

Il danno patrimoniale trova il suo fondamento normativo nell’art. 1223 c.c., applicabile anche in sede extracontrattuale per effetto del rinvio contenuto nell’art. 2056 c.c., e comprende tutte le perdite economicamente valutabili subite dal danneggiato, in conseguenza immediata e diretta del fatto illecito.

Con riguardo alla lesione di animale domestico, si possono ricomprendere in tale categoria le spese sostenute per cure veterinarie, interventi chirurgici, accertamenti diagnostici, trattamenti terapeutici e, in ipotesi di morte dell’animale, il suo valore di mercato. In giurisprudenza si è evidenziato come tali voci siano risarcibili a prescindere dalla natura di razza o meticcia dell’animale, purché adeguatamente provate nel loro importo e nella loro derivazione causale dal fatto dannoso.

Ben più complessa risulta, invece, l’elaborazione giuridica del danno non patrimoniale. Ai sensi dell’art. 2059 c.c., esso è risarcibile solo nei casi previsti dalla legge. In tale ambito, assume rilievo l’art. 185, comma 2, c.p., che estende la risarcibilità ai danni non patrimoniali derivanti da reato, e l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2 della Costituzione, in base alla quale si riconosce tutela a diritti inviolabili della persona, quali il diritto alla sfera affettiva e relazionale.

In questa prospettiva, talune pronunce di merito (Trib. Pavia, 16 settembre 2016; Trib. Venezia, 17 dicembre 2020; Trib. Pisa, 3 novembre 2023) hanno ritenuto che la lesione di animale domestico possa comportare un pregiudizio risarcibile non solo per il danno materiale, ma anche per la sofferenza morale e il turbamento psichico subiti dal soggetto danneggiato, configurando una lesione alla sua integrità affettiva.

Il riconoscimento del danno non patrimoniale non è tuttavia automatico, essendo subordinato alla prova dell’intensità del legame affettivo, della gravità del patema d’animo e della concretezza del pregiudizio subito. La valutazione giudiziale, pertanto, si sviluppa caso per caso, sulla base di elementi oggettivi e presuntivi idonei a dimostrare la centralità dell’animale nella vita del danneggiato.

La responsabilità extracontrattuale per lesione di animale domestico: l’art. 2043 c.c. e i presupposti di risarcibilità

La lesione di animale domestico può integrare, nei casi in cui non sussista un vincolo contrattuale tra le parti, un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 del codice civile (il quale sancisce che “qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”). L’applicazione di tale norma comporta la necessità di accertare la sussistenza di un fatto illecito, la colpa o il dolo dell’agente, un danno ingiusto e il nesso di causalità tra la condotta e il danno.

Con riguardo alla lesione di animale domestico, possono costituire fonte di responsabilità aquiliana, ad esempio, l’investimento dell’animale da parte di un conducente negligente, l’uso di mezzi pericolosi senza le dovute cautele, o atti di violenza gratuita su animali di proprietà altrui. Il fatto generatore del danno deve essere riconducibile con nesso causale diretto alla condotta illecita del soggetto agente e deve determinare un pregiudizio giuridicamente rilevante in capo al proprietario dell’animale.

Il danno è considerato “ingiusto” ogniqualvolta incida su un interesse giuridicamente tutelato, e la giurisprudenza più evoluta ha ritenuto che il legame affettivo tra il proprietario e l’animale d’affezione possa integrare un bene della vita rilevante ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, in quanto espressione del diritto all’identità personale e alla sfera relazionale.

In questo senso si è pronunciato, tra gli altri, il Tribunale di Venezia con la sentenza del 17 dicembre 2020 n. 1936, riconoscendo la risarcibilità del danno non patrimoniale in favore sia del proprietario dell’animale, sia del convivente, in virtù della comprovata relazione affettiva con il cane deceduto.

La prova del danno, in tali ipotesi, grava interamente sulla parte attrice, che è tenuta a dimostrare non solo l’evento dannoso e la responsabilità del convenuto, ma anche il nesso causale tra il comportamento illecito e la lesione di animale domestico, oltre alla serietà e concretezza del pregiudizio subito. Il giudice, accertata la fondatezza della domanda, potrà procedere alla liquidazione in via equitativa, tenuto conto delle circostanze del caso concreto e della documentazione probatoria offerta.

La responsabilità contrattuale o da contatto sociale qualificato per lesione di animale domestico: il ruolo del depositario e del professionista veterinario

Nel caso in cui la lesione di animale domestico si verifichi nell’ambito di un rapporto obbligatorio, quale un contratto di deposito o una prestazione d’opera professionale, trova applicazione la disciplina della responsabilità contrattuale di cui all’art. 1218 c.c., secondo cui “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. La responsabilità è, pertanto, presunta, e grava sul debitore l’onere di dimostrare l’assenza di colpa.

Emblematica, al riguardo, è la pronuncia del Tribunale di Prato del 2025, concernente la morte di una cagnolina affidata dai proprietari a una pensione per animali, in esecuzione di un contratto di deposito ai sensi dell’art. 1766 c.c. Il giudice ha ritenuto che la struttura fosse venuta meno all’obbligo di custodia e vigilanza, non avendo garantito la dovuta assistenza in presenza di sintomi di grave malessere, né avendo informato tempestivamente i proprietari, configurandosi un grave inadempimento dell’obbligazione principale. Il mancato attivarsi del depositario, pur avendo constatato le condizioni critiche dell’animale, ha determinato l’aggravamento della situazione clinica e, infine, il decesso dell’animale stesso.

Analogamente, nel rapporto tra cliente e veterinario, configurabile come contratto d’opera ai sensi dell’art. 2222 c.c., trova applicazione l’art. 1176 c.c. in tema di diligenza, che, nel caso di attività professionale, deve essere valutata in relazione alla natura della prestazione e alle conoscenze tecniche richieste. Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, la responsabilità del professionista è limitata ai casi di dolo o colpa grave, secondo quanto previsto dall’art. 2236 c.c.

Nella recente sentenza del Tribunale di Pisa del 3 novembre 2023 n. 1362, relativa a un caso di malpratica veterinaria per interventi chirurgici effettuati su un cucciolo affetto da grave displasia, il giudice ha accertato la responsabilità del professionista e della clinica per aver praticato una terapia operatoria inadeguata, che ha aggravato in modo irreversibile la condizione clinica dell’animale.

Pertanto, anche nell’ambito contrattuale, la lesione di animale domestico può costituire fatto idoneo a generare responsabilità risarcitoria per il debitore inadempiente, ogniqualvolta venga meno agli obblighi di diligenza, custodia o prestazione specialistica a cui è tenuto, con conseguente obbligo di ristoro del danno, secondo i criteri previsti dagli artt. 1223, 1226 e 2056 c.c.

Le soluzioni alternative al processo nei casi di lesione di animale domestico: mediazione e negoziazione assistita

Nel contesto della lesione di animale domestico, l’ordinamento riconosce alle parti la possibilità – e, in determinati casi, l’obbligo – di ricorrere a strumenti alternativi alla giurisdizione ordinaria per la risoluzione delle controversie. In tale ambito si collocano due istituti fondamentali: la mediazione e la negoziazione assistita da avvocati, entrambi diretti a favorire una composizione consensuale della lite, con evidenti benefici in termini di celerità, economicità e minore conflittualità.

La mediazione, disciplinata dal d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, è obbligatoria quando espressamente prevista dalla legge come condizione di procedibilità dell’azione giudiziaria. Sebbene la lesione di animale domestico non rientri tra le materie elencate all’art. 5, comma 1, del decreto, essa può tuttavia ricadere in ambiti soggetti a mediazione obbligatoria in base al titolo giuridico del rapporto tra le parti. In particolare, qualora la controversia abbia origine nell’inadempimento di un contratto d’opera (come avviene nei casi di lesione conseguente all’affidamento del cane a una pensione o a un centro di addestramento), la parte attrice sarà tenuta a promuovere un tentativo di mediazione prima di poter agire in giudizio. L’omissione di tale passaggio processuale comporta l’improcedibilità della domanda.

Accanto alla mediazione, assume rilievo anche l’istituto della negoziazione assistita, introdotto dal D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito dalla l. 10 novembre 2014, n. 162. La negoziazione assistita è obbligatoria ogniqualvolta si intenda proporre in giudizio una domanda di pagamento, a qualsiasi titolo, di una somma non eccedente i cinquantamila euro, anche nell’ambito della responsabilità extracontrattuale.

Pertanto, nei casi in cui il danneggiato intenda chiedere il risarcimento per lesione di animale domestico mediante richiesta di somma rientrante nella predetta soglia, la previa negoziazione rappresenta un passaggio necessario, pena l’improcedibilità dell’azione.

Tali strumenti si rivelano particolarmente adeguati in un ambito come quello della tutela degli animali d’affezione, in cui le componenti emotive e affettive si intrecciano con aspetti tecnici e giuridici, e in cui la ricerca di una soluzione condivisa può evitare l’ulteriore stress connesso al giudizio ordinario.

Lesione di animale domestico: supporto legale e tutela dei diritti

In una controversia risarcitoria relativa alla lesione di animale domestico l’assistenza legale può essere determinante sin dalla fase preliminare, per ricostruire i fatti nella loro esatta portata giuridica, valutare la documentazione probatoria disponibile e individuare le voci di danno risarcibile, con particolare attenzione alla qualificazione del legame affettivo tra il proprietario e l’animale d’affezione.

In ambito stragiudiziale, l’avvocato assiste il cliente nell’eventuale esperimento delle procedure di mediazione o di negoziazione assistita, assicurando il rispetto degli adempimenti procedurali richiesti e facilitando la definizione di soluzioni condivise, idonee a soddisfare in tempi ragionevoli le legittime pretese risarcitorie.

In sede contenziosa, la preparazione tecnica del legale diviene poi fondamentale per la redazione dell’atto introduttivo, per la costruzione del quadro probatorio, e per la corretta qualificazione delle singole poste di danno.

Il nostro Studio, grazie a una consolidata esperienza in materia di responsabilità civile, assiste i propri clienti nella gestione integrale di controversie aventi ad oggetto la morte o la lesione di animali domestici, con un approccio professionale che coniuga competenza tecnica e sensibilità per i diritti degli animali. Contattaci per un confronto, senza impegno.