da Redazione | Gen 14, 2025 | Diritto d'Impresa
Il Regolamento DORA (Digital Operational Resilience Act) rappresenta un punto di svolta per il settore finanziario europeo, introducendo un quadro normativo armonizzato per la gestione del rischio ICT e la resilienza operativa digitale. L’obiettivo principale della normativa è rafforzare la capacità delle entità finanziarie di prevenire, rilevare e rispondere a eventi che potrebbero compromettere la sicurezza dei dati e la continuità operativa. Per una sintesi delle disposizioni del Regolamento, rinviamo a un nostro precedente approfondimento.
La Banca d’Italia, attraverso la comunicazione pubblicata il 23 dicembre 2024, ha richiamato l’attenzione degli intermediari vigilati sull’importanza di conformarsi a tali disposizioni e di intraprendere un’accurata analisi dei rischi DORA, obbligatoria per tutti i soggetti destinatari. La comunicazione è destinata ai seguenti soggetti vigilati da Banca d’Italia: banche, imprese di investimento, gestori, istituti di pagamento, istituti di moneta elettronica, emittenti di token collegati ad attività, prestatori di servizi per le cripto-attività, fornitori di servizi di crowdfunding. Qui il testo della comunicazione.
Ricordiamo che a partire dal 17 gennaio 2025, il Regolamento DORA sarà pienamente applicabile, imponendo obblighi stringenti in materia di gestione dei rischi informatici e sicurezza delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC).
La normativa si integra con il Regolamento attuativo UE 2024/1774, che disciplina in dettaglio le modalità di implementazione delle politiche e dei protocolli per il presidio del rischio ICT. In questo contesto, l’analisi dei rischi DORA assume un ruolo centrale per garantire non solo la conformità normativa, ma anche la resilienza complessiva del sistema finanziario, ormai sempre più esposto a minacce cibernetiche e vulnerabilità sistemiche.
La comunicazione della Banca d’Italia ha inoltre fissato al 30 aprile 2025 la scadenza per la trasmissione dell’autovalutazione da parte degli intermediari finanziari. Questo documento, che dovrà essere approvato dall’organo di amministrazione, rappresenta un passaggio essenziale per verificare che le politiche, i protocolli e le pratiche interne siano pienamente in linea con i requisiti stabiliti dal Regolamento DORA.
L’urgenza di predisporre tale autovalutazione impone agli intermediari una pianificazione immediata delle attività necessarie per adempiere agli obblighi previsti, assicurando che le misure adottate siano adeguate a prevenire, controllare e mitigare i rischi ICT.
Analisi dei rischi DORA: obblighi per gli intermediari vigilati
Il Regolamento DORA, insieme al Regolamento attuativo UE 2024/1774, stabilisce un quadro normativo dettagliato che vincola gli intermediari finanziari a implementare una gestione del rischio ICT organica e integrata.
La Comunicazione della Banca d’Italia pubblicata il 23 dicembre 2024 evidenzia come tali obblighi si articolino in una serie di requisiti stringenti, che impongono agli intermediari di adattare le loro politiche e procedure interne per fronteggiare le crescenti minacce alla sicurezza informatica. Al centro di questo quadro si colloca l’analisi dei rischi DORA, che rappresenta un presupposto fondamentale per assicurare la compliance a tale normativa.
Il Regolamento prevede che ogni intermediario adotti un sistema di gestione dei rischi ICT strutturato, che comprenda politiche e protocolli volti a prevenire, rilevare e mitigare le vulnerabilità cibernetiche.
In particolare, è richiesto che vengano implementati presidi efficaci per la protezione della confidenzialità, integrità e disponibilità dei dati. Tale sistema deve essere integrato con strumenti di monitoraggio continuo delle attività anomale, in modo da rilevare tempestivamente eventi che possano compromettere i servizi offerti.
La Banca d’Italia, richiamando le evidenze delle sue analisi di supervisione, sottolinea che gli incidenti cibernetici più frequenti sono causati da accessi non autorizzati e da inadeguatezze nei processi di modifica dei sistemi ICT, i quali richiedono un controllo particolarmente rigoroso.
Gli obblighi di compliance includono anche la necessità di adottare strategie specifiche per la gestione dei rischi derivanti da terze parti. I fornitori di servizi TIC rappresentano un punto critico per la sicurezza degli intermediari, e il Regolamento impone che i contratti con tali soggetti siano conformi a standard di sicurezza elevati.
Un ulteriore aspetto evidenziato nella Comunicazione della Banca d’Italia riguarda l’adattamento delle politiche interne degli intermediari. Queste devono essere allineate alle disposizioni del Regolamento DORA e del Regolamento attuativo UE 2024/1774, garantendo che ogni decisione strategica sia supportata da dati accurati e da un’analisi del rischio ben fondata.
La carenza di sistemi di aggregazione e reportistica dei dati sui rischi, come emerso dalle analisi di supervisione, può infatti compromettere la solidità del processo decisionale e minare la capacità dell’ente di fronteggiare le minacce informatiche.
Analisi dei rischi DORA: il ruolo dell’autovalutazione nella gestione dei rischi ICT
L’autovalutazione è uno step fondamentale nell’implementazione delle disposizioni previste dal Regolamento DORA e dal Regolamento attuativo UE 2024/1774. La Comunicazione della Banca d’Italia sottolinea la necessità che tutti gli intermediari vigilati, su base consolidata o individuale, conducano un’analisi approfondita della loro capacità di gestione dei rischi ICT, valutando in che misura le loro politiche e i loro protocolli siano conformi ai requisiti normativi.
Questo processo, che culmina con l’approvazione da parte dell’organo di amministrazione, non è solo un obbligo formale, ma uno strumento strategico per garantire la resilienza operativa e la continuità aziendale.
La analisi dei rischi DORA richiede agli intermediari di esaminare attentamente vari aspetti delle loro operazioni. Tra questi, le strategie di gestione del rischio di terza parte rivestono un ruolo prioritario. Gli intermediari devono valutare l’adeguatezza dei contratti stipulati con i fornitori di servizi TIC e verificare che le clausole contrattuali prevedano standard di sicurezza in linea con le disposizioni del Regolamento. Inoltre, è fondamentale che siano messe in atto misure di monitoraggio per garantire che i fornitori rispettino tali standard nel tempo.
Un’altra area critica riguarda i programmi di test di resilienza operativa digitale. Questi test, che devono essere svolti regolarmente, mirano a verificare la capacità dell’intermediario di affrontare incidenti operativi o cibernetici, prevenire la compromissione dei sistemi e proteggere la riservatezza dei dati. L’analisi dei rischi DORA richiede che tali test siano progettati in modo da coprire tutti gli aspetti operativi critici, compresi i processi interni, i sistemi TIC e le relazioni con i fornitori terzi.
La Banca d’Italia sottolinea, inoltre, l’importanza di un efficace ICT change management, in quanto i cambiamenti non adeguatamente gestiti rappresentano una delle principali cause di incidenti operativi. Gli intermediari devono quindi valutare che i propri processi di gestione delle modifiche siano coerenti con i requisiti del Regolamento DORA, includendo politiche specifiche, attribuzioni di responsabilità e meccanismi di controllo.
L’autovalutazione deve coinvolgere tutte le funzioni di controllo interne, sia di secondo che di terzo livello, garantendo un approccio trasversale alla gestione del rischio ICT.
Questo processo non solo consente agli intermediari di identificare eventuali lacune, ma offre anche l’opportunità di sviluppare un sistema di gestione dei rischi che sia proattivo e dinamico.
Analisi dei rischi DORA: impatti della normativa sulla governance aziendale
L’analisi dei rischi DORA non si limita a rafforzare la resilienza operativa degli intermediari finanziari, ma incide profondamente sulla loro governance aziendale. Il Regolamento DORA e il Regolamento delegato UE 2024/1774 attribuiscono agli organi di amministrazione un ruolo centrale nella gestione dei rischi ICT, imponendo loro di approvare e supervisionare le strategie, le politiche e le procedure necessarie per garantire la conformità normativa e la continuità operativa.
Questa responsabilità non è semplicemente tecnica, ma si estende a un livello strategico che coinvolge l’intero assetto decisionale dell’organizzazione.
La Comunicazione della Banca d’Italia evidenzia come gli organi di amministrazione siano chiamati a garantire un controllo efficace e a promuovere una cultura aziendale orientata alla gestione proattiva del rischio ICT. L’approvazione dell’autovalutazione, che rappresenta uno degli elementi cardine dell’analisi dei rischi DORA, richiede un coinvolgimento diretto delle funzioni apicali, che devono essere adeguatamente informate e formate sui requisiti della normativa. Questo passaggio implica non solo la validazione dei processi esistenti, ma anche la definizione di linee guida per affrontare le criticità emerse durante l’autovalutazione.
Un aspetto fondamentale è la responsabilità degli organi di governance nella gestione del rischio di terza parte, in particolare nei confronti dei fornitori di servizi TIC. Gli intermediari devono assicurarsi che le strategie di gestione delle terze parti siano integrate nel sistema di governance e che le relazioni contrattuali includano clausole specifiche per la sicurezza ICT.
Gli organi di amministrazione devono inoltre monitorare regolarmente l’operato dei fornitori, verificando che rispettino gli standard richiesti dal Regolamento DORA e adottando misure correttive in caso di non conformità.
L’analisi dei rischi DORA influenza anche la capacità degli organi di amministrazione di prendere decisioni basate su dati accurati e aggiornati. La capacità di aggregare e analizzare i dati sui rischi ICT, come evidenziato dalle indagini della Banca d’Italia, è essenziale per supportare il processo decisionale e garantire una gestione efficace dei rischi.
La mancata implementazione di sistemi adeguati per la raccolta e l’analisi dei dati può compromettere la solidità della governance e aumentare la vulnerabilità dell’organizzazione a incidenti operativi e cibernetici.
Infine, il Regolamento DORA richiede che gli organi di amministrazione adottino un approccio dinamico alla gestione del rischio, in grado di adattarsi alle continue evoluzioni del panorama tecnologico e normativo. Questo include la promozione di programmi di formazione interna, lo sviluppo di strumenti per il monitoraggio continuo dei rischi e la creazione di protocolli per la gestione delle crisi.
La governance aziendale, in questo contesto, diventa il fulcro attorno al quale ruota l’intera strategia di conformità al Regolamento DORA, garantendo non solo la protezione delle operazioni, ma anche la fiducia degli stakeholders.
Conclusioni: un approccio strategico per l’analisi dei rischi DORA
L’analisi dei rischi DORA rappresenta un passaggio obbligato per tutte le entità finanziarie soggette al Regolamento DORA. La scadenza del 30 aprile 2025 per la trasmissione dell’autovalutazione alla Banca d’Italia richiede un approccio strategico e tempestivo, orientato non solo a garantire la conformità normativa, ma anche a rafforzare la resilienza operativa e la sicurezza dell’intero sistema finanziario.
Gli obblighi imposti dalla normativa, che spaziano dalla gestione del rischio ICT all’implementazione di test di resilienza operativa digitale, evidenziano la necessità di una pianificazione accurata e di un coinvolgimento diretto degli organi di governance.
Il quadro normativo delineato dal Regolamento DORA impone agli intermediari di adottare misure che non solo prevengano e rilevino le minacce informatiche, ma che consentano anche di rispondere in modo efficace alle criticità. La gestione del rischio di terza parte, l’adattamento delle politiche interne e l’implementazione di sistemi di monitoraggio continuo sono solo alcune delle sfide che gli intermediari devono affrontare. Allo stesso tempo, l’autovalutazione rappresenta un’opportunità per individuare aree di miglioramento e per rafforzare la capacità dell’organizzazione di affrontare un panorama di rischi in continua evoluzione.
La governance aziendale svolge un ruolo fondamentale in questo contesto, fungendo da motore per la conformità e la resilienza nel quadro dell’analisi dei rischi DORA. Gli organi di amministrazione non solo devono approvare l’autovalutazione, ma anche guidare l’intera organizzazione verso l’adozione di un sistema di gestione dei rischi che sia dinamico e allineato alle evoluzioni tecnologiche e normative.
La capacità di adattarsi rapidamente e di anticipare le minacce rappresenta un vantaggio competitivo per le entità finanziarie che operano in un contesto sempre più digitalizzato e interconnesso.
In questo scenario complesso, lo Studio si rende disponibile per fornire chiarimenti e consulenza sulle strategie di conformità al Regolamento DORA e a organizzare percorsi di formazione specifici per gli apicali dell’intermediario o dei suoi fornitori.

Analisi dei rischi DORA nel settore finanziario. Studio legale D’agostino a Roma, con expertise specifica in ambito corporate compliance e cyber security.
da Redazione | Gen 9, 2025 | Diritto d'Impresa
Il Contratto di licenza in SaaS rappresenta uno strumento giuridico di fondamentale importanza per regolare l’utilizzo del software fornito in modalità Software-as-a-Service. Questo tipo di contratto, sempre più diffuso nel panorama tecnologico delle start-up, si distingue per la sua funzione di disciplinare il rapporto tra il Licenziante, titolare dei diritti di proprietà intellettuale sul software, e il Licenziatario, ovvero l’utente autorizzato a fruirne.
Nel contesto del SaaS, il software non viene ceduto in proprietà, ma è reso disponibile per l’utilizzo remoto, su base contrattuale e per un periodo determinato. La centralità del Contratto di licenza in SaaS risiede nella sua capacità di tutelare adeguatamente i diritti del Licenziante, garantendo al contempo al Licenziatario un utilizzo conforme e sicuro.
Uno degli aspetti più critici riguarda la tutela della proprietà intellettuale dello sviluppatore, che deve essere garantita attraverso clausole precise e rigorose. Il contratto deve infatti prevenire l’utilizzo non autorizzato del software, proteggere il codice sorgente da eventuali tentativi di decompilazione o modifica e limitare la possibilità di condivisione impropria con soggetti terzi. In Italia esistono, invero, regole specifiche e anche limitazioni alla brevettabilità del Software.
La definizione di queste clausole è essenziale per evitare abusi e per salvaguardare le tecniche e gli algoritmi sottesi al funzionamento del software, che rappresentano il cuore del know-how aziendale.
Parallelamente, il Contratto di licenza in SaaS deve tener conto delle esigenze del Licenziatario, il quale necessita di chiare indicazioni circa i propri diritti e i limiti all’uso del software. Questo equilibrio tra tutela del Licenziante e garanzia di un uso lecito da parte del Licenziatario rappresenta uno degli elementi distintivi di un contratto ben redatto.
Nel presente articolo verranno esaminati gli elementi fondamentali di un Contratto di licenza in SaaS, con particolare attenzione alle clausole volte a tutelare la proprietà intellettuale, garantendo il rispetto delle normative applicabili e la protezione del patrimonio tecnologico del Licenziante.
Le definizioni nel Contratto di Licenza in SaaS: elementi essenziali
Nel Contratto di licenza in SaaS, la sezione dedicata alle definizioni è una componente essenziale per stabilire con chiarezza i termini tecnici e giuridici che ricorrono nel testo contrattuale. Questa parte iniziale del contratto non ha una funzione meramente descrittiva, ma costituisce il fondamento per l’interpretazione uniforme delle clausole da parte delle parti contraenti. La precisione e la completezza di questa sezione sono fondamentali per evitare incomprensioni o contenziosi futuri.
Tra le definizioni più rilevanti in un Contratto di licenza in SaaS, emerge il termine “Software”, inteso come l’insieme organizzato e strutturato di istruzioni capace di svolgere operazioni specifiche su un sistema elettronico. È cruciale specificare che l’accesso al Software, in modalità SaaS, non implica la cessione di proprietà del programma, bensì il diritto limitato al suo utilizzo per finalità ben definite. A ciò si aggiunge il “Codice sorgente”, che rappresenta il linguaggio di programmazione con cui il software è stato sviluppato. La sua protezione è un elemento centrale, in quanto consente di preservare il know-how tecnologico e gli algoritmi proprietari del Licenziante, escludendo qualsiasi tentativo di decompilazione o modifica non autorizzata.
Altro termine essenziale è “Regime SaaS”, che definisce la modalità di erogazione del servizio. In questo contesto, il Software è reso disponibile per l’utilizzo remoto tramite un’infrastruttura cloud, senza che vi sia necessità di installazione su dispositivi locali. Ciò comporta importanti implicazioni in termini di accesso, sicurezza e aggiornamento, che devono essere regolamentate nel contratto.
Di rilievo sono anche le “Informazioni riservate”, che includono dati tecnici, operativi o strategici del Licenziante e del Licenziatario. Tali informazioni, se divulgate, potrebbero pregiudicare le aspettative economiche o la competitività delle parti, e pertanto il contratto prevede specifici obblighi di riservatezza. Nel contesto di un Contratto di licenza in SaaS, questi dati comprendono anche quelli generati dal Software, come i risultati di analisi e i dati elaborati in modalità automatizzata, la cui titolarità deve essere chiaramente attribuita.
Ulteriori definizioni significative includono i “Profili di utilizzo”, che distinguono tra diverse configurazioni del Software (ad esempio, base, avanzato o business) in relazione alle funzionalità e al numero di copie autorizzate. Allo stesso modo, il termine “Progetti” identifica l’ampiezza e il dettaglio delle funzionalità o delle facoltà attribuire in licenza Software, eventualmente specificati nella scheda tecnica. Tali definizioni non solo delimitano l’oggetto del contratto, ma consentono al Licenziante di strutturare un’offerta modulare e scalabile, adattabile alle diverse esigenze dei Licenziatari.
La completezza della sezione dedicata alle definizioni in un Contratto di licenza in SaaS non è solo un esercizio di formalismo, ma una necessità per assicurare trasparenza, chiarezza e tutela delle parti. Ogni termine deve essere calibrato con attenzione, affinché i diritti e gli obblighi contrattuali risultino inequivocabili e coerenti con la normativa vigente.
La licenza d’uso nel Contratto di Licenza in SaaS: diritti e limitazioni
La clausola relativa alla licenza d’uso rappresenta il cuore del Contratto di licenza in SaaS, in quanto stabilisce i termini entro cui il Licenziatario è autorizzato a utilizzare il software. A differenza di altre tipologie di licenze, nel modello SaaS l’utente non acquisisce alcun diritto di proprietà sul software, ma ottiene una semplice autorizzazione all’uso, circoscritta dalle condizioni contrattuali.
Questa impostazione consente al Licenziante di mantenere il pieno controllo sulla propria opera intellettuale, preservandone la titolarità e limitandone l’utilizzo a quanto espressamente pattuito.
Un elemento essenziale della licenza è la sua non esclusività, che permette al Licenziante di concedere il medesimo software ad altri utenti, massimizzando così il rendimento economico del prodotto. La licenza è inoltre non trasferibile, impedendo al Licenziatario di cedere a terzi i diritti d’uso senza l’esplicito consenso del Licenziante. Questa previsione tutela il Licenziante da eventuali violazioni delle clausole contrattuali, garantendo che l’uso del software avvenga solo da parte dei soggetti autorizzati.
La clausola deve inoltre specificare le limitazioni d’uso, fondamentali per prevenire abusi. Nel Contratto di licenza in SaaS, ciò si traduce spesso nel divieto di alterare, decompilare, o effettuare operazioni di reverse engineering sul software. Queste limitazioni proteggono il codice sorgente, che costituisce l’elemento più prezioso del prodotto, essendo il risultato di un complesso processo creativo e tecnologico. L’utilizzo del software è poi vincolato a un determinato numero di utenti o sedi aziendali, come stabilito dal profilo acquistato e descritto nel modulo d’ordine o nella scheda tecnica.
Un altro aspetto rilevante è la durata della licenza, che deve essere chiaramente definita nel contratto. Il Contratto di licenza in SaaS prevede generalmente una validità limitata, spesso su base mensile o annuale, con la possibilità di rinnovo. Al termine del periodo stabilito, il Licenziatario deve cessare l’utilizzo del software, a meno che non sia previsto un rinnovo o un’estensione concordata.
Infine, la clausola di licenza deve disciplinare il comportamento del Licenziatario in caso di malfunzionamenti del software. È comune prevedere l’obbligo di segnalare tempestivamente eventuali difetti al Licenziante, vietando al Licenziatario di apportare modifiche al codice sorgente. Questo garantisce che la proprietà intellettuale resti integra e che eventuali problemi tecnici vengano gestiti esclusivamente dal Licenziante o dai suoi delegati.
In buona sostanza, in un Contratto di licenza in SaaS, una clausola di licenza d’uso ben redatta è fondamentale per proteggere gli interessi del Licenziante, regolando in modo chiaro e dettagliato i diritti e i limiti concessi al Licenziatario. Ciò assicura che il software venga utilizzato conformemente alle finalità previste e nel rispetto della proprietà intellettuale del Licenziante.
Proprietà del software e diritti di proprietà intellettuale nel Contratto di Licenza in SaaS
Nel Contratto di licenza in SaaS, la clausola relativa alla proprietà del software e ai diritti di proprietà intellettuale svolge un ruolo cruciale nella tutela del know-how tecnologico e creativo del Licenziante. Questa clausola mira a preservare il valore economico e strategico del software, garantendo che il Licenziatario non possa avanzare alcuna pretesa sui diritti di proprietà né compiere attività che possano compromettere l’integrità del prodotto.
Il contratto stabilisce in modo inequivocabile che il Licenziante detiene la titolarità esclusiva del software, inclusi il codice sorgente, gli algoritmi e ogni altra componente tecnica o creativa che ne costituisce la struttura. Tale titolarità si estende anche alle eventuali implementazioni, migliorie o aggiornamenti del software, che rimangono di proprietà esclusiva del Licenziante, anche qualora siano sviluppati in risposta a specifiche esigenze del Licenziatario. In questo modo, il Contratto di licenza in SaaS previene qualsiasi ambiguità circa la paternità intellettuale delle innovazioni tecnologiche.
Un elemento particolarmente rilevante è la protezione del codice sorgente, il quale rappresenta il cuore del software e il risultato di un processo creativo e tecnico altamente specializzato. Il contratto vieta espressamente al Licenziatario di accedere, modificare o effettuare operazioni di reverse engineering sul codice sorgente, configurando tali azioni come violazioni contrattuali gravi. Inoltre, ogni tentativo di riprodurre, copiare o alterare il software è considerato un atto di concorrenza sleale e può dar luogo a conseguenze legali, incluso il risarcimento dei danni.
La clausola sulla proprietà intellettuale include anche disposizioni relative ai risultati di analisi generati dal software durante il suo utilizzo. Questi output, che possono includere dati aggregati, suggerimenti o report, sono spesso utilizzabili liberamente dal Licenziatario per finalità aziendali. Tuttavia, i processi di apprendimento automatico e le informazioni generate dall’interazione degli utenti con il software rimangono di esclusiva proprietà del Licenziante. Questa distinzione consente al Licenziante di valorizzare ulteriormente il proprio prodotto, integrando le conoscenze acquisite per migliorare le funzionalità future.
Un ulteriore aspetto riguarda i marchi e gli altri segni distintivi apposti sul software e sulla documentazione correlata. Il contratto chiarisce che tali elementi rimangono di proprietà esclusiva del Licenziante e non possono essere alterati, rimossi o utilizzati dal Licenziatario per finalità non autorizzate. Questa previsione è fondamentale per proteggere l’identità commerciale del Licenziante e preservare la riconoscibilità del prodotto sul mercato.
Sicurezza dei dati e obblighi di riservatezza nel Contratto di Licenza in SaaS
Nel Contratto di licenza in SaaS, la sicurezza dei dati e la riservatezza costituiscono elementi di primaria importanza, poiché l’erogazione del software in modalità SaaS comporta l’elaborazione, la conservazione e il trattamento di informazioni sensibili, sia del Licenziante sia del Licenziatario. Tali obblighi trovano fondamento non solo nel contratto, ma anche nelle normative applicabili, tra cui il Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR) e le disposizioni nazionali in materia di protezione dei dati personali.
Una clausola ben strutturata deve innanzitutto definire il concetto di “Informazioni riservate”, includendo ogni dato tecnico, commerciale o operativo relativo al software o all’azienda del Licenziante e del Licenziatario, nonché i dati personali trattati durante l’utilizzo del software. Il contratto stabilisce che tali informazioni non possono essere divulgate o utilizzate per finalità non previste, imponendo a entrambe le parti un obbligo di custodia e protezione. Questo obbligo si estende anche ai dati generati dal software, come i report e i risultati di analisi, che, pur essendo utilizzabili dal Licenziatario, devono essere trattati nel rispetto delle disposizioni contrattuali e normative.
Il Contratto di licenza in SaaS include tipicamente disposizioni dettagliate sulle misure di sicurezza che il Licenziatario deve adottare per proteggere l’accesso al software. Tra queste figurano la custodia delle credenziali di accesso, la limitazione dell’utilizzo ai soli utenti autorizzati e l’adozione di protocolli tecnici e organizzativi per prevenire accessi non autorizzati o violazioni.
Il Licenziante, dal canto suo, è responsabile di garantire che il software sia progettato e mantenuto in conformità agli standard di sicurezza più elevati, prevenendo rischi di data breach o perdita di informazioni.
Un aspetto particolarmente delicato riguarda il trattamento dei dati personali. Nel modello SaaS, il Licenziatario agisce spesso come titolare del trattamento, stabilendo le finalità e i mezzi del trattamento stesso, mentre il Licenziante funge da responsabile del trattamento, garantendo che i dati siano gestiti nel rispetto delle istruzioni contrattuali e delle normative vigenti.
Questa distinzione deve essere chiaramente esplicitata nel contratto, che può includere una specifica Data Processing Agreement (DPA) come allegato, per regolamentare in modo dettagliato i diritti e gli obblighi delle parti in materia di protezione dei dati personali.
Un’altra clausola essenziale riguarda l’obbligo di notificare eventuali violazioni dei dati personali (data breach). Il contratto deve prevedere che il Licenziante informi tempestivamente il Licenziatario in caso di incidente di sicurezza, fornendo tutte le informazioni necessarie per valutare l’impatto e adottare misure correttive. Tale obbligo si estende anche alle notifiche verso le autorità competenti, come il Garante per la protezione dei dati personali, nei casi previsti dalla normativa.
In conclusione, le clausole sulla sicurezza dei dati e sulla riservatezza sono essenziali in ogni Contratto di licenza in SaaS. Esse non solo proteggono le informazioni sensibili e i dati personali delle parti, ma garantiscono anche la conformità alle normative applicabili, riducendo i rischi legali e reputazionali associati a eventuali violazioni. La redazione accurata di queste clausole richiede competenze specifiche in materia di diritto della privacy e sicurezza informatica, assicurando una tutela completa per tutte le parti coinvolte.
Clausole di manleva e limitazioni di responsabilità nel Contratto di Licenza in SaaS
Le clausole di manleva e di limitazione di responsabilità rappresentano una componente essenziale del Contratto di licenza in SaaS, poiché mirano a bilanciare i rischi derivanti dall’utilizzo del software e a proteggere le parti da rivendicazioni e danni che potrebbero insorgere nel corso del rapporto contrattuale. Tali disposizioni, se ben strutturate, offrono una tutela significativa sia al Licenziante che al Licenziatario, evitando oneri sproporzionati o responsabilità impreviste.
La clausola di manleva stabilisce che una delle parti, solitamente il Licenziatario, si impegna a risarcire l’altra parte per eventuali danni, costi o spese derivanti da violazioni contrattuali o comportamenti illeciti. Nel caso del Contratto di licenza in SaaS, il Licenziatario può essere chiamato a manlevare il Licenziante rispetto a rivendicazioni di terzi connesse all’uso improprio del software o alla violazione di diritti di proprietà intellettuale. Ad esempio, qualora il Licenziatario utilizzi il software per elaborare dati che violano i diritti di terzi o norme di legge, sarà tenuto a indennizzare il Licenziante per i danni subiti, incluse eventuali spese legali. Questa clausola è particolarmente rilevante in contesti in cui il software gestisce dati sensibili o opera in settori regolamentati.
La clausola di limitazione di responsabilità, invece, definisce i confini entro cui il Licenziante è responsabile per eventuali danni derivanti dall’utilizzo del software. Nel Contratto di licenza in SaaS, il Licenziante solitamente declina ogni responsabilità per danni indiretti o consequenziali, come la perdita di profitti, l’interruzione dell’attività o il deterioramento dei dati. Inoltre, il Licenziante non può essere ritenuto responsabile per disservizi derivanti da fattori esterni, come problemi di connettività Internet, malfunzionamenti dell’hardware del Licenziatario o attacchi informatici non riconducibili a proprie omissioni. È altresì comune escludere la responsabilità per i risultati ottenuti dall’utilizzo del software, specificando che quest’ultimo è fornito “così com’è” e “come disponibile”.
Un aspetto particolarmente rilevante in questo contesto è l’esclusione di responsabilità per eventi di forza maggiore, quali disastri naturali, attacchi informatici su larga scala o altre circostanze al di fuori del controllo del Licenziante. Tali eventi, se adeguatamente definiti nel contratto, sollevano il Licenziante dall’obbligo di fornire il servizio o di risarcire i danni derivanti dalla mancata esecuzione delle proprie prestazioni.
Queste clausole, pur essendo a vantaggio del Licenziante, devono essere redatte con equilibrio, tenendo conto dei diritti del Licenziatario e della necessità di evitare squilibri contrattuali. Il contratto può prevedere, ad esempio, che il Licenziante garantisca la risoluzione tempestiva di eventuali difetti o malfunzionamenti del software, evitando così che le limitazioni di responsabilità si traducano in un’esclusione totale degli obblighi contrattuali.
In sintesi, le clausole di manleva e di limitazione di responsabilità nel Contratto di licenza in SaaS sono strumenti indispensabili per gestire i rischi associati all’erogazione del servizio. Esse devono essere redatte con attenzione e precisione, assicurando un equilibrio tra la tutela del Licenziante e la protezione degli interessi del Licenziatario, in modo da garantire un rapporto contrattuale equo e conforme alle normative vigenti.
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Il Contratto di licenza in SaaS rappresenta uno strumento imprescindibile per regolamentare i rapporti tra Licenziante e Licenziatario, assicurando al primo la protezione della propria proprietà intellettuale e al secondo un utilizzo conforme del software.
Dalle definizioni ai diritti di utilizzo, dalla sicurezza dei dati alle limitazioni di responsabilità, ogni elemento del contratto concorre a creare un quadro giuridico equilibrato, in grado di tutelare sia gli interessi economici del Licenziante che le legittime aspettative del Licenziatario.
Affinché il contratto sia efficace, è fondamentale che venga redatto da professionisti esperti, in grado di adattare le clausole alle specifiche esigenze del settore tecnologico e alle peculiarità del prodotto offerto. La nostra expertise ci consente di supportare sviluppatori e start-up digitali nella creazione di Contratti di licenza in SaaS che proteggano adeguatamente la loro proprietà intellettuale e il loro business. Inoltre, forniamo assistenza nella redazione di privacy policy e di altra documentazione contrattuale indispensabile per assicurare il rispetto delle normative e per garantire un rapporto solido e trasparente con gli utenti.
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da Redazione | Dic 28, 2024 | Notizie e Aggiornamenti Legislativi
La Legge 25 novembre 2024 n. 177 di riforma del Codice della Strada (CdS) segna un cambiamento significativo nell’ambito della circolazione stradale, introducendo nuove disposizioni in materia di sicurezza e responsabilità degli utenti della strada. Questo intervento legislativo, entrato in vigore il 14 dicembre 2024, mira a rafforzare il sistema sanzionatorio e a promuovere un approccio più rigoroso alla disciplina della circolazione stradale.
Abbiamo esaminato nello specifico le nuove disposizioni concernenti la disciplina della guida in stato d’ebbrezza da alcol o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti in un precedente articolo; in questa sede si occuperemo di dare uno sguardo alle altre novità introdotte nel Codice della Strada (CdS) dalla Legge 177/2024.
L’intero impianto normativo si fonda su un concetto chiave: incrementare il livello di sicurezza sulle strade italiane mediante strumenti più efficaci e sanzioni più incisive. In particolare, le modifiche al CdS intervengono su una vasta gamma di aspetti, che spaziano dalle nuove regole per i neopatentati, fino a discipline specifiche per le violazioni commesse in ZTL o per eccessi di velocità, o relative all’utilizzo dei monopattini elettrici.
Nuove sanzioni per il superamento dei limiti di velocità nel Codice della Strada (CdS)
La riforma del Codice della Strada (CdS) introdotta con la Legge 25 novembre 2024 n. 177, ha apportato modifiche importanti anche al regime sanzionatorio per il superamento dei limiti di velocità, inasprendo le pene per chi commette queste violazioni. Tali modifiche riflettono la volontà del legislatore di adottare un approccio più severo, soprattutto nei casi di infrazioni reiterate o commesse in contesti particolarmente sensibili, come i centri abitati.
Per chi supera i limiti di velocità, le sanzioni amministrative pecuniarie restano proporzionate all’entità dell’infrazione, ma con alcune novità. Le multe per il superamento di oltre 10 km/h e fino a 40 km/h restano comprese tra 173 e 694 euro, mentre per il superamento di oltre 40 km/h e fino a 60 km/h si va da 544 a 2.174 euro, con la sospensione della patente da uno a tre mesi. La violazione più grave, ossia il superamento di oltre 60 km/h, comporta una sanzione tra 847 e 3.389 euro, oltre alla sospensione della patente da sei a dodici mesi.
Un’aggiunta rilevante riguarda i casi di violazioni reiterate all’interno dei centri abitati. La riforma al CdS prevede che il superamento dei limiti di velocità per almeno due volte in un anno, in queste aree, possa comportare la sospensione della patente da 15 a 30 giorni, in aggiunta alla sanzione pecuniaria. Questo inasprimento sottolinea l’attenzione verso la protezione degli utenti più vulnerabili, come pedoni e ciclisti, che frequentano maggiormente gli spazi urbani.
La modifica più innovativa riguarda il trattamento delle infrazioni multiple rilevate in un breve periodo. Con l’introduzione del comma 6-ter nell’articolo 142, il legislatore ha stabilito che, in caso di più violazioni commesse dallo stesso veicolo nell’arco di 60 minuti, venga applicata un’unica sanzione, calcolata sulla base della multa più grave tra quelle accertate, aumentata di un terzo. Questo approccio mira a evitare duplicazioni di sanzioni e garantire una maggiore proporzionalità nel trattamento delle infrazioni.
Nel complesso, la riforma rende più severo il regime sanzionatorio per le violazioni dei limiti di velocità, con l’obiettivo di rafforzare la sicurezza stradale e ridurre la sinistrosità.
CdS, uso di dispositivi elettronici alla guida e sospensione breve della patente
La Legge 25 novembre 2024 n. 177 ha introdotto il comma 3-bis all’articolo 173 CdS, rafforzando le misure sanzionatorie per chi utilizza dispositivi elettronici durante la guida in violazione delle regole previste. Sebbene l’articolo 173 già disciplinasse il divieto di utilizzo di apparecchi radiotelefonici, smartphone, tablet, computer portatili e dispositivi analoghi che comportano anche solo temporaneamente l’allontanamento delle mani dal volante, la riforma del 2024 ha introdotto specifiche sanzioni amministrative e accessorie di maggiore gravità per contrastare più efficacemente questa condotta.
In base al nuovo comma 3-bis, chiunque violi il divieto di cui al comma 2 è ora soggetto a una sanzione amministrativa pecuniaria compresa tra 250 e 1.000 euro, nonché alla sospensione della patente per un periodo che varia da quindici giorni a due mesi. Inoltre, in caso di recidiva nell’arco di un biennio, le pene vengono aggravate: la sanzione pecuniaria aumenta, passando da 350 a 1.400 euro, e la sospensione della patente è estesa da uno a tre mesi.
Questa nuova disposizione mira a contrastare la distrazione alla guida, che rappresenta una delle principali cause di incidenti stradali, e a incentivare l’uso esclusivo di dispositivi a viva voce o auricolari che non richiedono l’uso delle mani.
Va inoltre ricordato che le violazioni gravi, come l’uso del cellulare alla guida, possono incidere sul punteggio della patente. La sospensione breve, disciplinata dall’articolo 218-ter CdS, può essere applicata in aggiunta alle sanzioni pecuniarie, prevedendo la sospensione della patente per un periodo che varia in base al punteggio residuo del conducente, da sette giorni (se il punteggio è inferiore a 20 ma pari almeno a 10) fino a quindici giorni (se il punteggio è inferiore a 10).
CdS e sospensione breve della patente: durata e applicazione
Una delle novità più rilevanti introdotte dalla Legge 25 novembre 2024 n. 177 riguarda l’introduzione dell’articolo 218-ter CdS che disciplina la sospensione breve della patente in relazione al punteggio residuo del conducente. Questa misura mira a colpire con tempestività e proporzionalità alcune violazioni specifiche, rafforzando il sistema sanzionatorio e incentivando comportamenti più responsabili alla guida.
L’articolo 218-ter prevede che, in caso di violazioni gravi, la patente possa essere sospesa per un breve periodo direttamente dall’organo accertatore, senza necessità di un provvedimento del Prefetto. La durata della sospensione varia in base al punteggio residuo del conducente al momento dell’accertamento. Nei casi in cui il punteggio sia inferiore a venti ma pari almeno a dieci, la sospensione avrà una durata di sette giorni.
Se il punteggio residuo è inferiore a dieci, la sospensione si estende a quindici giorni. In presenza di un incidente stradale causato dal conducente, anche senza coinvolgimento di terzi, la durata della sospensione è raddoppiata, segnalando l’intento del legislatore di trattare con maggiore severità i comportamenti che comportano un rischio concreto per la sicurezza stradale.
Tra le violazioni che possono comportare l’applicazione della sospensione breve rientrano il mancato rispetto di segnali di senso vietato e divieto di sorpasso, il superamento dei limiti di velocità, l’uso improprio del cellulare alla guida, la guida sotto l’effetto di alcol o droghe, e la mancata osservanza della distanza di sicurezza. L’elenco di tali infrazioni riflette un approccio mirato, volto a intervenire su comportamenti particolarmente pericolosi e spesso causa di incidenti gravi.
La sospensione breve decorre immediatamente dal momento del ritiro della patente da parte dell’agente accertatore e può essere applicata contestualmente alla contestazione della violazione. Se, per qualsiasi motivo, il ritiro non può avvenire contestualmente, la sospensione decorre dalla data di notificazione del verbale. La patente ritirata viene conservata presso l’ufficio dell’organo accertatore fino al termine del periodo di sospensione, dopo il quale sarà restituita al conducente o a un suo delegato. Questa procedura semplificata riduce i tempi amministrativi e garantisce l’efficacia immediata della misura.
Chiunque venga sorpreso a circolare durante il periodo di sospensione incorre in sanzioni severe, che includono una multa amministrativa compresa tra 2.046 e 8.186 euro, la revoca della patente e il fermo amministrativo del veicolo per tre mesi. Tali misure accessorie previste dal CdS dimostrano la volontà del legislatore di dissuadere in modo deciso i conducenti dal violare il divieto di guida durante il periodo di sospensione.
Sebbene queste disposizioni siano state accolte positivamente per la loro capacità di garantire una risposta immediata a comportamenti pericolosi, non mancano osservazioni critiche. Alcuni esperti evidenziano che la correlazione tra il punteggio residuo e la durata della sospensione potrebbe non sempre riflettere adeguatamente la gravità dell’infrazione, generando potenziali squilibri. Inoltre, l’efficacia della misura dipenderà dalla capacità degli organi accertatori di applicarla con uniformità e rigore.
Violazioni ripetute nel Codice della Strada (CdS): disciplina delle infrazioni multiple
La Legge 25 novembre 2024 n. 177 introduce un’importante innovazione nel CdS attraverso la disciplina delle violazioni ripetute, con l’obiettivo di rendere il sistema sanzionatorio più proporzionato e coerente. In particolare, la riforma interviene sull’articolo 142, inserendo il nuovo comma 6-ter, che regola le conseguenze di più infrazioni per il superamento dei limiti di velocità commesse dallo stesso veicolo nell’arco di un’ora. Questa modifica mira a evitare duplicazioni di sanzioni per condotte che, pur reiterate in un breve lasso di tempo, derivano dalla medesima situazione di violazione.
La nuova disciplina prevede che, qualora un veicolo commetta più infrazioni ai limiti di velocità nell’arco di sessanta minuti e all’interno della giurisdizione dello stesso ente, venga applicata un’unica sanzione. In tali casi, sarà calcolata la multa più grave tra quelle rilevate, aumentata di un terzo. Questo approccio consente di punire in maniera proporzionata il comportamento complessivo del conducente, evitando di infliggere pene cumulative che potrebbero risultare eccessivamente gravose. La decorrenza del periodo considerato inizia dalla prima infrazione accertata e si applicano le disposizioni dell’articolo 198-bis del Codice della Strada (CdS), che regolano la continuità delle infrazioni.
La ratio di queste disposizioni risiede nella volontà di garantire un’applicazione più equa e razionale delle sanzioni, riducendo al contempo i rischi di contenzioso. Tuttavia, la loro introduzione non è stata priva di critiche. Alcuni esperti hanno evidenziato che questa semplificazione potrebbe ridurre l’effetto deterrente delle sanzioni, incoraggiando comportamenti meno responsabili da parte di alcuni conducenti. Altri, invece, sottolineano che il calcolo di una sola sanzione potrebbe non riflettere adeguatamente la gravità complessiva delle violazioni commesse in un breve periodo.
ZTL, aree pedonali e il Codice della Strada (CdS): regole per le violazioni multiple
La Legge 25 novembre 2024 n. 177 introduce significative novità nel Codice della Strada (CdS), disciplinando in modo più razionale e proporzionato le violazioni commesse in Zone a Traffico Limitato (ZTL), aree pedonali urbane e altre zone soggette a limitazioni o divieti di accesso. Le modifiche, in particolare quelle apportate all’articolo 198 tramite l’inserimento del comma 2-bis, mirano a tutelare gli utenti della strada da una moltiplicazione delle sanzioni per infrazioni che, pur ripetute, possono essere considerate come un’unica condotta continuativa.
La nuova disciplina stabilisce che, in caso di più violazioni dello stesso tipo rilevate senza contestazione immediata tramite dispositivi di controllo remoto, venga applicata una sola sanzione per ciascun giorno di calendario. Questo principio si applica anche quando le infrazioni si verificano in fasce orarie diverse o in condizioni in cui le limitazioni si estendono a cavallo di due giorni consecutivi. Ad esempio, se un veicolo accede a una ZTL senza autorizzazione più volte nella stessa giornata, il conducente sarà sanzionato una sola volta per quella specifica giornata.
Questa innovazione normativa è stata concepita per garantire maggiore proporzionalità nel sistema sanzionatorio, evitando situazioni in cui una serie di violazioni possa portare a sanzioni cumulative particolarmente onerose per il conducente. Le sanzioni applicabili restano comunque significative e sono calcolate sulla base delle disposizioni vigenti per ciascun tipo di infrazione. Inoltre, nel caso di violazioni commesse su più giorni distinti, il principio dell’unica sanzione giornaliera non si applica, e ogni infrazione sarà sanzionata separatamente.
L’obiettivo di questa disposizione è duplice: da un lato, promuovere una maggiore equità nel trattamento delle violazioni, dall’altro, semplificare le procedure amministrative e ridurre il rischio di contenziosi. La riforma al CdS consente agli utenti di comprendere meglio l’entità delle sanzioni e di evitare contestazioni legate alla sovrapposizione di multe per condotte assimilabili.
CdS e obblighi assicurativi: responsabilità del proprietario del veicolo
Tra le novità introdotte dalla Legge 25 novembre 2024 n. 177, una particolare attenzione è rivolta alla responsabilità del proprietario del veicolo per quanto concerne la copertura assicurativa. La modifica all’articolo 193 CdS rafforza gli obblighi in capo al proprietario, ampliando la portata delle responsabilità per prevenire la circolazione di veicoli privi di regolare polizza assicurativa.
Il nuovo testo normativo stabilisce che il proprietario di un veicolo, indipendentemente dall’eventuale cessione del mezzo a terzi, deve vigilare affinché il veicolo sia coperto da un’assicurazione valida. Questo obbligo si applica anche qualora il veicolo venga ceduto a titolo di comodato, locazione o altra forma di disponibilità temporanea. La ratio della norma è evidente: evitare che veicoli non assicurati possano circolare, esponendo gli utenti della strada e i pedoni a rischi economici e legali in caso di incidenti. La modifica rafforza così la tutela collettiva, mirando a ridurre il fenomeno dell’elusione dell’obbligo assicurativo.
L’articolo 193 CdS prevede sanzioni severe per i proprietari inadempienti. Chiunque consenta la circolazione di un veicolo privo di copertura assicurativa è soggetto a una sanzione amministrativa pecuniaria significativa, oltre al fermo amministrativo del mezzo. Inoltre, la normativa consente alle autorità competenti di procedere al sequestro del veicolo fino alla regolarizzazione della posizione assicurativa. Il proprietario è altresì tenuto a coprire i costi derivanti dalla custodia del mezzo durante il periodo di fermo, aggiungendo un ulteriore aggravio economico per i trasgressori.
Questa innovazione normativa, pur rispondendo a un’esigenza di maggiore controllo e sicurezza, non è esente da critiche. Alcuni esperti hanno sottolineato che l’obbligo di vigilanza potrebbe risultare eccessivamente gravoso per i proprietari che concedono l’uso del veicolo a terzi in buona fede. In particolare, la responsabilità diretta del proprietario rischia di penalizzare chi non ha strumenti concreti per verificare costantemente la validità della polizza assicurativa, soprattutto in caso di utilizzi sporadici o temporanei del mezzo.
Nonostante queste perplessità, la riforma appare coerente con l’intento del legislatore di contrastare il fenomeno della circolazione senza copertura assicurativa, che rappresenta una delle principali cause di incertezza nella gestione degli incidenti stradali. La maggiore responsabilizzazione del proprietario si affianca a strumenti tecnologici sempre più avanzati, come i sistemi di rilevazione automatica, che consentono di individuare rapidamente i veicoli non assicurati.
Micromobilità e il Codice della Strada (CdS): nuove regole per monopattini e dispositivi elettrici
La Legge 25 novembre 2024 n. 177 introduce nel Codice della Strada (CdS) un quadro normativo più stringente per regolamentare l’uso dei dispositivi di micromobilità, con particolare attenzione ai monopattini elettrici. Questi mezzi, sempre più diffusi nelle aree urbane, sono stati al centro di un acceso dibattito per i rischi connessi alla loro circolazione e per l’assenza, fino a oggi, di regole uniformi. La riforma mira a garantire maggiore sicurezza per gli utenti e per i pedoni, attraverso una serie di disposizioni che disciplinano non solo l’uso dei monopattini, ma anche le modalità di parcheggio e i requisiti tecnici.
Tra le novità principali (apportate modificando la Legge 27 dicembre 2019, n. 160, e non direttamente il CdS), vi è l’introduzione dell’obbligo di assicurazione RC, una misura che pone i monopattini sullo stesso piano degli altri veicoli a motore in termini di responsabilità civile. L’obiettivo è quello di tutelare tutte le parti coinvolte in caso di incidenti, garantendo un adeguato risarcimento per eventuali danni causati da questi dispositivi. A ciò si aggiunge l’obbligo del casco per tutti i conducenti, senza distinzione di età, con una chiara volontà di ridurre il numero di incidenti gravi e lesioni legate alla scarsa protezione individuale.
Per quanto riguarda il parcheggio, la riforma stabilisce il divieto di sosta sui marciapiedi, salvo specifiche deroghe comunali. Questa misura risponde all’esigenza di evitare che i monopattini parcheggiati in modo disordinato costituiscano un ostacolo per i pedoni, in particolare per le persone con disabilità, e che compromettano il decoro urbano. Le amministrazioni locali saranno chiamate a regolamentare le modalità di sosta, prevedendo spazi dedicati per questi dispositivi, al fine di favorire un utilizzo più responsabile.
Le sanzioni per chi non rispetta le nuove disposizioni sono particolarmente incisive, con multe da 200 a 800 euro, a seconda della gravità della violazione. L’introduzione di tali sanzioni dimostra la volontà del legislatore di adottare un approccio più rigido nei confronti degli utenti di monopattini elettrici, spesso accusati di comportamenti imprudenti o pericolosi.
Nonostante le critiche, la riforma si configura come un tentativo di bilanciare l’innovazione con la sicurezza, rispondendo a un’esigenza reale di regolamentare la micromobilità in modo più efficace. Le nuove regole riflettono l’intento del legislatore di promuovere un uso responsabile dei monopattini elettrici, incentivando al contempo le amministrazioni locali a predisporre le infrastrutture necessarie per integrare questi mezzi nel sistema di mobilità urbana.
Resta ora da verificare se l’effetto deterrente delle sanzioni e l’applicazione uniforme delle regole saranno in grado di migliorare la sicurezza e l’ordine nelle città italiane, senza penalizzare eccessivamente gli utenti della micromobilità.
Sorpasso e velocipedi nel Codice della Strada (CdS): distanza di sicurezza obbligatoria
Una delle modifiche più significative introdotte dalla Legge 25 novembre 2024 n. 177 al Codice della Strada (CdS) riguarda il sorpasso dei velocipedi, con particolare attenzione alla sicurezza di questa categoria di utenti vulnerabili della strada. La nuova disciplina, che interviene sull’articolo 148 CdS, stabilisce l’obbligo per i veicoli a motore di mantenere una distanza laterale minima di 1,5 metri durante il sorpasso di biciclette, introducendo così una regola chiara e uniforme per ridurre i rischi di incidenti.
La norma impone al conducente che intenda sorpassare un velocipede di verificare preventivamente che la strada sia libera, che la manovra possa essere effettuata senza pericolo e che le condizioni di visibilità e spazio siano adeguate. La distanza di sicurezza laterale deve essere calcolata tenendo conto della velocità relativa dei mezzi e dell’ingombro del veicolo a motore, in modo da garantire la stabilità del velocipede e prevenire situazioni di pericolo per il ciclista. L’obiettivo di questa disposizione è quello di ridurre le situazioni di rischio derivanti da sorpassi troppo ravvicinati, che possono facilmente portare a cadute o a incidenti gravi.
Le sanzioni per la violazione di questa regola sono significative: il conducente che non rispetta la distanza di sicurezza è soggetto a una multa compresa tra 167 e 665 euro, oltre alla sospensione della patente da uno a tre mesi, secondo le disposizioni del Codice della Strada (CdS). Nei casi in cui il trasgressore sia un neopatentato, ossia in possesso della patente da meno di tre anni, la durata della sospensione è aumentata a un periodo compreso tra tre e sei mesi, a conferma della maggiore severità applicata ai conducenti meno esperti.
Questa modifica al CdS riflette la crescente attenzione del legislatore verso la protezione degli utenti più vulnerabili, in linea con gli obiettivi di sicurezza stradale promossi a livello europeo. La distanza minima di 1,5 metri, già adottata in altri Paesi dell’Unione Europea, rappresenta uno standard importante per garantire un livello di protezione adeguato ai ciclisti e per promuovere una cultura della condivisione responsabile della strada.
Tuttavia, l’introduzione di questa norma non è stata priva di critiche. Alcuni osservatori hanno evidenziato difficoltà pratiche nell’applicazione della regola in contesti urbani caratterizzati da strade strette o traffico intenso, dove il mantenimento della distanza laterale potrebbe non essere sempre possibile senza compromettere la fluidità della circolazione. Altri hanno sottolineato la necessità di accompagnare questa misura con una maggiore educazione stradale, rivolta sia ai conducenti di veicoli a motore sia ai ciclisti, per favorire un rispetto reciproco delle regole.
Motocicli 125 cc e il Codice della Strada (CdS): condizioni di circolazione su autostrade
Tra le novità introdotte dalla Legge 25 novembre 2024 n. 177, una delle più attese riguarda la possibilità, regolata dall’articolo 175 del Codice della Strada (CdS), di consentire ai motocicli di cilindrata 125 cc di circolare sulle autostrade e sulle strade extraurbane principali, purché vengano rispettate specifiche condizioni. Questa modifica, introdotta con il nuovo comma 2-bis, rappresenta una significativa apertura per i conducenti di veicoli di piccola cilindrata, offrendo loro una maggiore libertà di movimento, ma subordinata a rigidi requisiti di sicurezza.
La normativa di riforma al CdS prevede che i motocicli di cilindrata non inferiore a 120 cc se a motore termico, o di potenza non inferiore a 6 kW se a motore elettrico, possano circolare su queste strade, ma esclusivamente se condotti da persone maggiorenni. La restrizione mira a garantire che tali veicoli siano utilizzati da conducenti con una maggiore esperienza e maturità, riducendo il rischio di incidenti in contesti di traffico veloce e complesso, come quelli autostradali.
Questa deroga ai divieti tradizionalmente imposti dall’articolo 175 del Codice della Strada (CdS) risponde alla necessità di allinearsi alle tendenze europee in materia di mobilità leggera, consentendo un utilizzo più versatile dei motocicli di piccola cilindrata. Tuttavia, restano in vigore i divieti per veicoli con cilindrata inferiore a 120 cc o con potenza inferiore a 6 kW, nonché per i motocicli condotti da conducenti minorenni, confermando l’approccio prudenziale adottato dal legislatore.
Nonostante le opportunità offerte da questa modifica, la misura non è stata accolta unanimemente. Alcuni esperti hanno espresso preoccupazioni riguardo ai rischi potenziali per i conducenti di motocicli 125 cc, soprattutto in situazioni di traffico intenso o in presenza di veicoli pesanti. In particolare, l’assenza di adeguate barriere protettive o di corsie di emergenza sufficientemente ampie potrebbe rappresentare un pericolo significativo per questi utenti della strada.
Conclusioni: un Codice della Strada (CdS) più severo e moderno, ma con margini di criticità
La Legge 177/2024 ha introdotto un significativo aggiornamento del Codice della Strada (CdS), con l’obiettivo di rafforzare la sicurezza stradale e adeguare la normativa alle nuove esigenze di tutela degli utenti della strada.
Tra le principali novità si segnalano le restrizioni imposte ai neopatentati, con limiti di potenza dei veicoli e obblighi formativi aggiuntivi; la disciplina della sospensione breve della patente, applicabile in base al punteggio residuo e pensata per sanzionare condotte specifiche, come l’eccesso di velocità o il mancato rispetto della distanza di sicurezza; e le nuove regole per la micromobilità elettrica, che introducono l’obbligo di casco e polizza assicurativa per i monopattini. Di altre novità, riguardanti la guida in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, abbiamo trattato in un precedente articolo.
Sono stati inoltre introdotti il regime di accorpamento delle sanzioni per violazioni multiple ai limiti di velocità commesse in breve tempo e le modifiche all’articolo 173, con sanzioni più severe per l’uso improprio di dispositivi elettronici alla guida. Ulteriori innovazioni riguardano la sicurezza dei veicoli, con l’obbligo per i costruttori di avviare campagne di richiamo per correggere difetti che potrebbero compromettere la sicurezza, e la regolamentazione del sorpasso dei velocipedi, che impone una distanza minima laterale di 1,5 metri.
Da ultimo, il nuovo CdS prevede la possibilità per i motocicli 125 cc di circolare su autostrade, purché condotti da soggetti maggiorenni, e l’impiego delle auto di sicurezza per la regolazione del traffico in situazioni di emergenza.
Queste modifiche rappresentano un passaggio importante verso una mobilità più sicura e sostenibile, ma pongono anche sfide interpretative e applicative che richiederanno un costante monitoraggio.
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Codice della Strada (CdS): assistenza legale con lo Studio Legale D’Agostino a Roma per sanzioni e ricorsi in materia di circolazione stradale.
da Redazione | Dic 28, 2024 | Notizie e Aggiornamenti Legislativi, Diritto Penale
La Legge 25 novembre 2024 n. 177 di riforma del Codice della Strada segna un cambiamento significativo nell’ambito della circolazione stradale, introducendo nuove disposizioni in materia di sicurezza e responsabilità degli utenti della strada. Questo intervento legislativo, entrato in vigore il 14 dicembre 2024, mira a rafforzare il sistema sanzionatorio e a promuovere un approccio più rigoroso alla prevenzione degli incidenti stradali.
Tuttavia, tale riforma del Codice della Strada ha già suscitato ampie discussioni, lasciando adito a molti dubbi sia sul piano applicativo che su quello sostanziale. Secondo alcuni, le nuove disposizioni presentano profili di eccessivo rigore. Sebbene l’obiettivo dichiarato sia quello di incrementare la sicurezza sulle strade, non manca chi ritiene che alcune delle novità possano risultare sproporzionate rispetto alle situazioni che intendono disciplinare.
L’intero impianto normativo si fonda su un concetto chiave: incrementare il livello di sicurezza sulle strade italiane mediante strumenti più efficaci e sanzioni più incisive. In particolare, le modifiche al Codice della Strada intervengono su una vasta gamma di aspetti, che spaziano dalla guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, alle nuove regole per i neopatentati, fino a discipline specifiche per la micromobilità e l’utilizzo dei monopattini elettrici.
In questo articolo ci proponiamo di offrire una panoramica ragionata delle principali novità che riguardano la guida in stato d’ebbrezza e/o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.
Codice della Strada e guida in stato di ebbrezza: obblighi, dispositivi e sanzioni
La Legge 25 novembre 2024 n. 177 di riforma del Codice della Strada ha inasprito le misure volte a contrastare la guida in stato di ebbrezza e il consumo di sostanze stupefacenti da parte dei conducenti.
Una delle misure più significative è l’introduzione obbligatoria del dispositivo alcolock, che impedisce l’accensione del veicolo qualora il conducente presenti un tasso alcolemico superiore allo zero. Questo dispositivo, già ampiamente utilizzato in altri ordinamenti europei, viene ora prescritto anche dal Codice della Strada italiano per i conducenti recidivi, ossia coloro che sono stati condannati per guida in stato di ebbrezza.
L’obbligatorietà dell’alcolock si accompagna all’inserimento di codici unionali sulla patente di guida, come il “Codice 68” (divieto di consumo di alcol) e il “Codice 69” (obbligo di guida di veicoli dotati di alcolock). Tali prescrizioni restano valide per un minimo di due anni nei casi meno gravi e di tre anni per le infrazioni più gravi, salvo indicazioni diverse della commissione medica.
La mancata osservanza di queste disposizioni comporta sanzioni molto severe. Le pene previste per i reati di guida in stato di ebbrezza sono aumentate di un terzo per i conducenti obbligati all’uso dell’alcolock e raddoppiate in caso di manomissione o rimozione del dispositivo. Il Codice della Strada prevede, inoltre, la revisione della patente in tutti i casi di manomissione, a conferma della volontà del legislatore di adottare un approccio zero-tolerance nei confronti di tali comportamenti. La revisione è disposta dal Prefetto ai sensi dell’articolo 128, con l’obiettivo di garantire l’adeguamento delle patenti alle prescrizioni imposte.
In generale, resta invariata la classificazione delle violazioni in base al tasso alcolemico rilevato, articolata in tre fasce: da 0,5 a 0,8 g/l, da 0,8 a 1,5 g/l, e oltre 1,5 g/l. Tuttavia, la riforma del Codice della Strada ha aumentato le sanzioni pecuniarie e accessorie previste per ciascuna fascia, aggiungendo un ulteriore aggravio per i conducenti obbligati all’alcolock. Le multe sono aumentate di un terzo per chi è soggetto a tale obbligo, mentre il mancato rispetto delle prescrizioni o la manomissione del dispositivo comportano un raddoppio delle sanzioni e l’immediata revisione della patente ai sensi dell’articolo 128 del Codice della Strada.
Un altro elemento di continuità riguarda l’obbligo di sottoporsi agli accertamenti etilometrici in caso di sospetto da parte degli organi di polizia. La riforma non ha modificato le modalità operative dei controlli, che continuano a prevedere l’utilizzo di strumenti certificati per la rilevazione del tasso alcolemico. Restano invariate anche le conseguenze per il rifiuto di sottoporsi al test, assimilata quoad poneam alla guida con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l (art. 186, comma 7, Codice della Strada).
Permane l’obbligo per i conducenti professionali e per i neopatentati di mantenere un tasso alcolemico pari a zero, senza alcuna tolleranza. Questo principio, introdotto nelle precedenti riforme del Codice della Strada, è stato confermato e ulteriormente rafforzato attraverso l’incremento delle sanzioni pecuniarie e delle pene accessorie per le violazioni commesse da queste categorie di conducenti.
Codice della Strada e guida sotto l’effetto di stupefacenti: obblighi e sanzioni
Oltre alle disposizioni relative all’alcol, la riforma introduce cambiamenti significativi per la guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, intervenendo sull’articolo 187 del Codice della Strada. La nuova normativa elimina il riferimento allo “stato di alterazione psicofisica” del conducente, basandosi esclusivamente sulla positività agli accertamenti tossicologici.
Questa modifica, volta a semplificare l’applicazione delle sanzioni, ha suscitato critiche in quanto potrebbe portare a contestazioni fondate su dati meramente oggettivi, senza una valutazione completa dello stato del conducente. La revoca della patente è automatica per chi risulta positivo ai test, senza la necessità di dimostrare un’effettiva compromissione della capacità di guida.
La riforma introduce, inoltre, una procedura dettagliata per gli accertamenti tossicologici, basata sull’utilizzo di tecniche non invasive, come il prelievo di campioni dal cavo orale. Gli esami devono essere effettuati in laboratori certificati, garantendo così la massima affidabilità dei risultati. In caso di esito positivo al test preliminare, gli organi di polizia possono disporre il ritiro immediato della patente, vietando al conducente di continuare a guidare per un periodo massimo di dieci giorni, in attesa dei risultati definitivi.
Non mancano, infine, le misure accessorie. Il Prefetto può disporre la sospensione cautelare della patente e l’obbligo di visita medica entro sessanta giorni. Qualora l’esito della visita confermi l’idoneità alla guida, la validità della patente sarà limitata a un anno, con possibilità di rinnovo per periodi successivi di tre e cinque anni. Nei casi di inidoneità, invece, è prevista la revoca definitiva della patente.
Questa disciplina, pur riconoscendosi come rigorosa e innovativa, solleva interrogativi circa la proporzionalità delle pene e l’efficacia pratica delle misure adottate. Sebbene il legislatore abbia inteso rafforzare la prevenzione, non sono mancati rilievi critici, soprattutto per quanto riguarda l’impatto sulle libertà individuali e la gestione delle contestazioni. Resta da vedere se queste disposizioni contribuiranno effettivamente a una riduzione degli incidenti stradali, come auspicato, o se sarà necessario un ulteriore intervento normativo per correggere eventuali criticità emerse nella fase applicativa.
Codice della Strada e sostanze stupefacenti: accertamenti tossicologici e revoca della patente
La riforma del Codice della Strada introdotta dalla Legge 25 novembre 2024 n. 177 apporta significative modifiche alle disposizioni riguardanti la guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, con particolare riferimento all’articolo 187 Codice della Strada. Come premesso, la nuova normativa si distingue per la semplificazione del quadro sanzionatorio e per l’introduzione di procedure più stringenti e dettagliate volte ad accertare il consumo di tali sostanze da parte dei conducenti. Il legislatore, infatti, ha scelto di eliminare il riferimento allo “stato di alterazione psicofisica”, prevedendo che la positività agli accertamenti tossicologici sia sufficiente per l’applicazione delle sanzioni previste dalla legge.
In particolare, la nuova disciplina introduce una procedura di accertamento articolata in più fasi. Gli organi di polizia stradale possono sottoporre i conducenti a test qualitativi preliminari non invasivi, eseguibili anche tramite apparecchi portatili. Qualora questi test diano esito positivo, o qualora vi siano ragionevoli motivi per ritenere che il conducente abbia assunto sostanze stupefacenti, è previsto il prelievo di campioni dal cavo orale.
Gli esami successivi devono essere condotti esclusivamente in laboratori certificati, conformi agli standard forensi, per garantire la validità e l’affidabilità dei risultati. Questa attenzione alla qualità e alla sicurezza degli accertamenti riflette la necessità di tutelare i diritti del conducente, pur in un contesto di rigore crescente.
La riforma introduce anche un’importante novità in caso di accertamenti positivi. Gli organi di polizia possono disporre il ritiro immediato della patente, che rimarrà sospesa per un massimo di dieci giorni, in attesa degli esiti definitivi degli accertamenti. Durante questo periodo, è vietato condurre veicoli, e il mezzo sarà trasferito a spese del conducente presso una località indicata o un’autorimessa. Qualora non sia possibile completare gli accertamenti, il Prefetto dispone comunque la sospensione cautelare della patente e impone al conducente di sottoporsi a una visita medica entro sessanta giorni.
Le sanzioni previste per la guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti sono severe e comprendono la revoca automatica della patente in caso di esito negativo degli accertamenti medici. In tali circostanze, il conducente non potrà richiedere una nuova patente prima di tre anni. Per i conducenti che risultano idonei alla guida, invece, la patente avrà una validità limitata a un anno, con successive estensioni per periodi di tre o cinque anni.
La disciplina è particolarmente rigorosa per i conducenti minori di ventuno anni, che non potranno conseguire la patente fino al compimento del ventiquattresimo anno di età qualora abbiano commesso reati legati alla guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.
Queste disposizioni, pur rispondendo all’esigenza di garantire maggiore sicurezza sulle strade, sollevano dubbi in merito alla loro rigidità e alla proporzionalità delle sanzioni. In particolare, la possibilità che la sola positività ai test tossicologici sia sufficiente per l’applicazione delle pene pone interrogativi sul rispetto dei principi di tutela delle libertà individuali e di giustizia sostanziale.
Modifiche al codice penale: omicidio e lesioni stradali aggravati dalla guida sotto l’effetto di stupefacenti
Con la Legge 25 novembre 2024 n. 177, il legislatore è intervenuto sul testo degli articoli 589-bis e 590-bis c.p., relativi ai reati di omicidio e lesioni personali stradali, per adeguarli alle modifiche apportate all’articolo 187 del Codice della Strada. Quest’ultimo, infatti, non contiene più alcun riferimento allo stato di “alterazione psicofisica” conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti, eliminando tale requisito per l’applicazione delle sanzioni amministrative.
Nel nuovo quadro normativo, per configurare le aggravanti previste dai commi 2 degli articoli 589-bis e 590-bis c.p., è necessario provare che il conducente fosse in uno stato di alterazione psicofisica effettiva, determinato dall’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope. Questo implica che, a differenza di quanto richiesto per l’applicazione delle sanzioni amministrative, la mera positività agli accertamenti tossicologici non è sufficiente per contestare l’aggravante penale: occorre dimostrare l’effettiva alterazione delle capacità psicofisiche del conducente al momento del sinistro.
Al contrario, per l’applicazione delle sanzioni amministrative, l’accertamento della positività a sostanze stupefacenti è di per sè sufficiente, indipendentemente dall’effettivo stato di alterazione. In definitiva, la dimostrazione del concreto stato di alterazione psicofisica rileva soltanto per la contestazione della circostanza aggravante nei casi di omicidio o lesioni stradali, mentre non è necessaria per l’applicazione delle sanzioni amministrative.
Questa distinzione tra sanzioni amministrative e aggravanti penali mira a bilanciare esigenze preventive e garanzie costituzionali, ma solleva anche diversi dubbi.
Profili di incostituzionalità nella riforma del Codice della Strada
Invero, la Legge 25 novembre 2024 n. 177, che ha riformato il Codice della Strada, ha suscitato un ampio dibattito in dottrina riguardo a possibili profili di incostituzionalità. Le critiche si concentrano su alcune disposizioni che, secondo i detrattori, violano principi costituzionali fondamentali quali l’uguaglianza, la ragionevolezza delle norme, la tutela delle libertà individuali e il diritto al lavoro.
Un primo aspetto riguarda il principio di uguaglianza, sancito dall’articolo 3 della Costituzione. L’imposizione automatica del dispositivo alcolock per i conducenti condannati per guida in stato di ebbrezza non consente di valutare caso per caso la gravità dell’infrazione o le circostanze personali del trasgressore. La rigidità della norma potrebbe comportare un trattamento non proporzionato tra soggetti che, pur trovandosi in situazioni personali differenti, subiscono le medesime sanzioni, in contrasto con il principio di equità.
Altre critiche si concentrano sul principio di ragionevolezza, anch’esso tutelato dall’articolo 3. La revoca automatica della patente per positività ai test tossicologici, senza accertare uno stato di alterazione psicofisica o un’effettiva pericolosità alla guida, introduce una presunzione assoluta che alcuni ritengono eccessiva. La Corte Costituzionale ha in passato ribadito che le sanzioni devono essere proporzionate e collegate a comportamenti concreti, per evitare violazioni del principio di giustizia sostanziale.
La riforma solleva dubbi anche in relazione alla libertà personale, garantita dall’articolo 13 della Costituzione. Sebbene le misure come la revoca della patente o il ritiro immediato non configurino una privazione della libertà in senso stretto, esse incidono significativamente sull’autodeterminazione individuale, soprattutto se applicate in modo automatico senza possibilità di difesa preventiva.
Un ulteriore elemento di criticità riguarda il diritto al lavoro, tutelato dall’articolo 4 della Costituzione. La revoca della patente può avere conseguenze particolarmente gravi per i lavoratori che utilizzano il veicolo come strumento essenziale per la propria attività professionale. L’assenza di deroghe per specifiche categorie di conducenti potrebbe determinare una compressione del diritto al lavoro, con ripercussioni economiche e sociali rilevanti.
Ricordiamo peraltro che la Corte Costituzionale si è recentemente pronunciata (v. sentenza n. 52/2024) dichiarando l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni del Codice della Strada che sancivano automatismi applicativi. Ciò lascia supporre che, anche le novellate disposizioni, si espongono a censure di incostituzionalità.
In conclusione, sebbene la riforma del Codice della Strada miri a rafforzare la sicurezza stradale attraverso misure innovative e severe, essa pone interrogativi sul bilanciamento tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali. Una corretta applicazione delle norme, accompagnata da eventuali interventi correttivi del legislatore o della Corte Costituzionale, potrebbe essere necessaria per evitare tensioni con i principi costituzionali, garantendo così un’efficace protezione degli utenti della strada e il rispetto delle libertà individuali.
Neopatentati e il Codice della Strada: nuove restrizioni e obblighi formativi
La riforma introdotta dalla Legge 25 novembre 2024 n. 177 dedica particolare attenzione alla categoria dei neopatentati, modificando in modo significativo l’articolo 117 del Codice della Strada. L’obiettivo del legislatore è di aumentare la sicurezza stradale attraverso l’imposizione di limitazioni più stringenti e l’introduzione di obblighi formativi che mirano a garantire una maggiore consapevolezza e preparazione dei conducenti più giovani. Queste disposizioni, entrate in vigore il 14 dicembre 2024, rispondono all’esigenza di contrastare la frequenza degli incidenti stradali che coinvolgono conducenti inesperti.
Tra le novità principali, spiccano i nuovi limiti di potenza per i veicoli guidabili dai neopatentati. Per i primi tre anni dal conseguimento della patente di categoria B, è vietata la guida di veicoli con una potenza specifica superiore a 75 kW per tonnellata, salvo alcune eccezioni per i veicoli elettrici o ibridi plug-in, per i quali il limite è fissato a 105 kW. Questa limitazione si pone l’obiettivo di ridurre il rischio di condotte di guida pericolose, evitando che i neopatentati possano mettersi alla guida di mezzi particolarmente potenti o difficili da gestire.
Un altro aspetto innovativo della riforma riguarda l’obbligo di effettuare esercitazioni pratiche specifiche, come previsto dall’articolo 122, comma 5-bis del Codice della Strada. L’aspirante conducente dovrà svolgere esercitazioni su autostrade, strade extraurbane principali e in condizioni di visione notturna. Tali esercitazioni, che dovranno essere certificate da una scuola guida accreditata, costituiscono un prerequisito essenziale per ottenere l’idoneità alla guida. Questa misura mira a preparare i neopatentati a gestire situazioni di traffico complesse e condizioni di guida impegnative, riducendo così il rischio di incidenti.
La riforma introduce anche una maggiore severità nelle sanzioni per i neopatentati che violano le norme del Codice della Strada. In caso di trasgressioni gravi, come il superamento dei limiti di velocità o la guida sotto l’effetto di alcol o sostanze stupefacenti, le pene accessorie, quali la sospensione della patente, risultano aggravate rispetto a quelle previste per i conducenti più esperti. Questa differenziazione, basata sul principio di maggiore responsabilità proporzionale all’esperienza di guida, intende agire come deterrente per comportamenti pericolosi.
Le nuove disposizioni per i neopatentati, pur essendo accolte positivamente per il loro intento di promuovere una guida più sicura, non mancano di suscitare critiche. In particolare, alcuni osservatori hanno evidenziato che l’obbligo di esercitazioni pratiche potrebbe rappresentare un onere economico significativo per le famiglie, penalizzando soprattutto chi dispone di risorse limitate. Inoltre, i limiti di potenza sono stati talvolta considerati troppo restrittivi, limitando la possibilità di scegliere veicoli adeguati alle esigenze quotidiane, come l’utilizzo familiare. Tuttavia, il legislatore sembra aver adottato un approccio prudenziale, valutando prioritario l’interesse collettivo alla sicurezza rispetto a eventuali difficoltà individuali.
Conclusioni: un Codice della Strada più severo, ma con margini di criticità
La Legge 25 novembre 2024 n. 177 di riforma del Codice della Strada, ha inasprito le sanzioni per promuovere una maggiore sicurezza stradale. Con l’introduzione di nuove regole sulla guida in stato di ebbrezza, sugli accertamenti tossicologici, sulle limitazioni per i neopatentati, il legislatore ha inteso adattare la normativa alle esigenze di un sistema in costante evoluzione.
Le modifiche apportate evidenziano un approccio improntato al rigore e alla prevenzione. Si tratta, tuttavia, di una riforma che non va esente da criticità. In particolare, alcune delle nuove disposizioni sono state giudicate da più parti eccessivamente rigide, sollevando dubbi sulla proporzionalità delle sanzioni e sull’impatto sociale di alcune regole. Inoltre, il successo della riforma dipenderà in larga misura dalla capacità di garantire una corretta informazione e sensibilizzazione degli utenti della strada.
In conclusione, il nuovo Codice della Strada segna un passaggio significativo verso una mobilità più sicura e responsabile, ma richiede una riflessione costante per bilanciare rigore e proporzionalità. Gli utenti della strada sono chiamati a un ruolo attivo nel recepire e rispettare le nuove regole, contribuendo così a rendere le strade italiane un luogo più sicuro per tutti.
Per qualsiasi chiarimento o per ricevere assistenza legale sul Codice della Strada o su sinistri, lo Studio Legale D’Agostino è a disposizione per fornire consulenze personalizzate, affiancando gli utenti nella comprensione e nell’applicazione delle normative, tutelando i loro diritti con competenza e professionalità.

Codice della Strada: assistenza legale dello Studio Legale D’Agostino per casi di incidenti stradali, alcol e stupefacenti a Roma.
da Redazione | Dic 12, 2024 | Diritto Penale
La particolare tenuità del fatto, disciplinata dall’art. 131-bis del codice penale, costituisce una causa di non punibilità ispirata ai principi di proporzionalità, offensività e sussidiarietà del diritto penale. Introdotto con il D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, e successivamente riformato dalla Riforma Cartabia (D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150), l’istituto mira a escludere la punibilità di condotte che, pur configurando astrattamente un reato, presentano un grado minimo di offensività.
L’obiettivo principale è deflattivo, essendo volto a razionalizzare il carico giudiziario concentrando l’intervento penale sui casi realmente gravi e meritevoli di sanzione. Tale approccio, ispirato alla concezione gradualistica del reato, si traduce in un’applicazione del diritto penale come extrema ratio.
In questo contesto, il ruolo dell’avvocato è di centrale importanza. Grazie alla sua competenza, l’avvocato può evidenziare, sia al pubblico ministero sia al giudice, gli elementi che dimostrano la particolare tenuità dell’offesa, promuovendo così provvedimenti di archiviazione o di proscioglimento. L’intervento dell’avvocato è essenziale per assicurare che il caso concreto venga analizzato nella sua specificità, valorizzando tutte le circostanze che possono condurre all’applicazione di quest’istituto.
L’obiettivo del presente articolo è fornire una panoramica esaustiva della disciplina relativa alla tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.), analizzandone i principi fondamentali, i presupposti di applicazione e le principali novità introdotte dalla Riforma Cartabia. Inoltre, saranno approfonditi i più rilevanti orientamenti giurisprudenziali e i profili processuali legati all’istituto.
L’intento è quello di evidenziare non solo le peculiarità normative dell’art. 131-bis, ma anche le sue implicazioni pratiche per il difensore, che svolge un ruolo determinante nel garantire una corretta applicazione della norma a tutela degli interessi del proprio assistito.
L’art. 131-bis, nella sua originaria formulazione, prevedeva l’applicabilità della causa di non punibilità ai reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni o con pena pecuniaria, sola o congiunta. La Riforma Cartabia ha ampliato tale ambito di applicazione, spostando l’attenzione sul limite minimo della pena, ora fissato a due anni.
Ulteriore elemento di innovazione è rappresentato dal rilievo attribuito alla condotta susseguente al reato, considerata dal legislatore un ulteriore criterio per la valutazione della tenuità dell’offesa. Questi interventi normativi riflettono una concezione più equilibrata del diritto penale, che valorizza la specificità del caso concreto.
La tenuità del fatto (art. 131-bis): nozione e principi generali
L’istituto della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) è il precipitato di un approccio moderno al diritto penale, che mira a modulare l’intervento repressivo in base alla concreta offensività della condotta. Esso rappresenta una causa di non punibilità che si applica quando, pur essendo integrati gli elementi costitutivi del reato, l’offesa risulta di minima gravità, sia per le modalità della condotta sia per l’esiguità del danno o del pericolo, come previsto dall’art. 133, primo comma, del codice penale.
La particolare tenuità del fatto consente, in sostanza, di escludere la punibilità per condotte che, pur essendo astrattamente rilevanti, non raggiungono una soglia di gravità tale da giustificare l’irrogazione di una pena.
In origine, l’art. 131-bis c.p. limitava l’applicabilità dell’istituto ai reati puniti con una pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, oppure con pena pecuniaria, sola o congiunta. Tuttavia, con la Riforma Cartabia, il legislatore ha rimodulato la portata della norma, introducendo il criterio del minimo edittale. Attualmente, la causa di non punibilità può essere applicata ai reati puniti con una pena detentiva non superiore nel minimo a due anni.
Di particolare rilievo è anche la natura giuridica dell’istituto, su cui si sono a lungo confrontate dottrina e giurisprudenza. Mentre una parte della dottrina lo considerava una condizione dell’azione penale, l’orientamento prevalente ne ha riconosciuto la natura sostanziale, qualificandolo come una vera e propria causa di non punibilità.
Questo inquadramento è stato ribadito dalla giurisprudenza, che ha sottolineato come l’applicazione della norma richieda un accertamento rigoroso sia sulla commissione del fatto sia sulla sussistenza dell’elemento soggettivo.
In questo quadro, il ruolo dell’avvocato emerge come centrale. Egli è chiamato a dimostrare l’insussistenza di comportamenti abituali e a valorizzare gli aspetti della condotta che possano qualificare l’offesa come di particolare tenuità. Attraverso un’analisi dettagliata del caso concreto, il difensore contribuisce a garantire che la norma venga applicata in modo coerente con i principi fondamentali dell’ordinamento, rappresentando un fondamentale baluardo contro l’eccessiva criminalizzazione di fatti di minima rilevanza.
Ambito di applicazione della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis)
L’ambito di applicazione della tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) è stato delineato dal legislatore tenendo conto sia della tipologia dei reati sia delle circostanze che possono escludere la configurabilità della causa di non punibilità.
La valutazione circa la particolare tenuità del fatto è rimessa al potere discrezionale del giudice, che deve verificare, in relazione al caso concreto, se le modalità della condotta e l’entità del danno o del pericolo siano tali da rendere l’offesa particolarmente tenue. Questo giudizio richiede un esame attento delle modalità esecutive del fatto, come il luogo, il tempo e i mezzi impiegati, nonché il grado della colpevolezza. Tuttavia, la norma esclude l’applicabilità dell’istituto in presenza di condotte particolarmente gravi, come quelle caratterizzate da crudeltà, sevizie o approfittamento di condizioni di minorata difesa della vittima.
L’istituto della particolare tenuità del fatto trova applicazione non solo nei reati consumati, ma anche in quelli tentati, purché sia accertata l’esiguità dell’offesa nel caso in cui il reato avesse raggiunto il compimento. Analogamente, i reati di pericolo astratto o presunto non sono esclusi a priori dall’ambito di applicazione, poiché anche in tali ipotesi è possibile riscontrare una minima offensività dell’azione. Tuttavia, la norma non si estende ai giudizi dinanzi al Giudice di Pace, per i quali permangono discipline specifiche, sebbene su questo punto vi siano state interpretazioni divergenti in giurisprudenza.
Il ruolo dell’avvocato si dimostra centrale nella valorizzazione degli elementi che possono condurre all’applicazione della tenuità del fatto (art. 131-bis). Attraverso una puntuale rappresentazione delle peculiarità del caso concreto, il difensore può agevolare una decisione favorevole, dimostrando che l’offesa risulta effettivamente priva di un significativo disvalore penale. L’analisi attenta e approfondita di tutte le circostanze, comprese quelle relative all’eventuale non abitualità del comportamento, consente al giudice di valutare con maggiore precisione l’idoneità del fatto ad essere considerato di particolare tenuità.
Reati esclusi dall’applicazione della tenuità del fatto (art. 131-bis)
Nonostante la sua ampia applicabilità, l’istituto della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) prevede importanti limitazioni, escludendo la possibilità di dichiarare la non punibilità per una serie di delitti specificamente individuati dalla legge. Queste esclusioni riflettono la volontà del legislatore di riservare l’applicazione della norma a condotte realmente prive di significativa offensività, escludendo quei comportamenti considerati ex lege intrinsecamente gravi o lesivi di interessi fondamentali.
In primo luogo, l’art. 131-bis c.p. non si applica ai delitti puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, se commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive. Tale previsione risponde alla necessità di contrastare con fermezza episodi di violenza o disordini in un contesto che coinvolge un’ampia partecipazione pubblica.
Sono altresì esclusi i delitti previsti dagli articoli 336, 337 e 341-bis c.p., quando commessi nei confronti di pubblici ufficiali o agenti di polizia nell’esercizio delle loro funzioni. La norma si estende anche al delitto di cui all’art. 343 c.p., rafforzando la tutela dell’autorità pubblica contro comportamenti che ne minano la credibilità e il regolare funzionamento.
Un ulteriore gruppo di esclusioni riguarda delitti particolarmente gravi, sia consumati che tentati, tra cui figurano quelli previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319 e seguenti, che disciplinano reati contro la pubblica amministrazione, come la corruzione e la concussione, nonché delitti contro la persona aggravati (artt. 582, aggravato dagli artt. 576 e 577, e 583-bis). Sono inclusi anche reati sessuali (artt. 609-bis e seguenti) e delitti contro il patrimonio aggravati, come la rapina (art. 628, comma 3) e l’estorsione (art. 629 c.p.).
Rientrano nelle esclusioni i delitti previsti dall’art. 19, quinto comma, della legge n. 194/1978, e dall’art. 73 del D.P.R. n. 309/1990, tranne quelli specificati al comma 5 dello stesso articolo, così come i delitti di rilevanza finanziaria disciplinati dagli articoli 184 e 185 del D.Lgs. n. 58/1998. Infine, non è applicabile ai reati di contraffazione previsti dalla sezione II del capo III del titolo III della legge n. 633/1941, salvo per le fattispecie più lievi di cui all’art. 171 della medesima legge.
Queste esclusioni confermano l’intento del legislatore di riservare l’applicazione dell’art. 131-bis ai casi in cui il disvalore del fatto sia effettivamente lieve, escludendo reati che, per la loro gravità intrinseca o per l’interesse protetto, richiedono una risposta penale più rigorosa. Anche in questo contesto, il ruolo dell’avvocato è essenziale per valutare con precisione l’applicabilità dell’istituto e tutelare al meglio gli interessi del proprio assistito, assicurando che ogni esclusione sia interpretata in coerenza con i principi fondamentali del diritto penale.
Le novità introdotte dalla Riforma Cartabia e la tenuità del fatto (art. 131-bis)
La Riforma Cartabia ha apportato modifiche significative all’istituto della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.), modificandone l’ambito di applicazione e introducendo nuovi criteri di valutazione. Una delle innovazioni principali riguarda il limite edittale della pena: la norma, nella sua versione originaria, prevedeva l’applicabilità dell’istituto ai reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni. La riforma, intervenendo sull’art. 131-bis, ha sostituito tale parametro con quello del minimo edittale, fissandolo a due anni di reclusione.
Un altro elemento innovativo introdotto dalla riforma riguarda il rilievo attribuito alla condotta susseguente al reato. Il legislatore ha espressamente previsto che il giudice debba tener conto anche del comportamento dell’autore successivo alla commissione del fatto, come ulteriore criterio per valutare la tenuità dell’offesa.
Sebbene il testo normativo non specifichi quali condotte post delictum debbano essere considerate, tale indeterminatezza consente al giudice di apprezzare una vasta gamma di elementi, quali eventuali iniziative riparatorie, il risarcimento del danno o l’impegno a limitare le conseguenze pregiudizievoli del reato.
La riforma ha dunque abbandonato una visione statica della norma, che in passato correlava l’esiguità dell’offesa unicamente alle modalità della condotta e all’entità del danno o del pericolo, valorizzando invece un approccio globale e dinamico. Il riferimento alla condotta susseguente sottolinea la necessità di valutare il fatto nel suo complesso, tenendo conto non solo delle circostanze concomitanti al reato, ma anche delle scelte e dei comportamenti adottati dall’autore in seguito.
Alcuni orientamenti giurisprudenziali sulla particolare tenuità del fatto (art. 131-bis)
La giurisprudenza ha svolto un ruolo determinante nell’interpretazione e nell’applicazione dell’istituto della tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.), contribuendo a delinearne i confini e a risolvere le principali questioni interpretative. Uno degli aspetti più dibattuti ha riguardato la natura giuridica dell’istituto.
Dopo un iniziale contrasto tra chi lo considerava una condizione dell’azione penale e chi, invece, lo qualificava come una causa di non punibilità, l’orientamento prevalente ha optato per questa seconda tesi, evidenziando il carattere sostanziale della norma. Tale impostazione è stata confermata dalla giurisprudenza di legittimità, che ha ribadito la necessità di un accertamento rigoroso sulla sussistenza del fatto, dell’elemento soggettivo e delle condizioni previste dall’art. 131-bis.
Un’altra questione significativa affrontata dalla giurisprudenza riguarda l’applicabilità dell’istituto ai reati continuati o abituali. Mentre alcuni orientamenti escludono l’applicazione della norma in presenza di condotte reiterate o seriali, ritenendole espressione di un comportamento abituale ostativo al riconoscimento della tenuità del fatto, altri riconoscono la possibilità di valutare l’esiguità delle singole condotte, purché ciascun episodio sia analizzato autonomamente.
Tali divergenze testimoniano la complessità dell’istituto e l’importanza di un’interpretazione caso per caso, che tenga conto delle circostanze concrete e della ratio sottesa alla norma.
La giurisprudenza ha anche chiarito che la particolare tenuità dell’offesa non può essere applicata a reati connotati da una gravità intrinseca o da modalità particolarmente lesive, come i reati commessi con crudeltà, per motivi abietti o con l’uso di sevizie. Inoltre, la norma non si estende ai reati che, per loro natura, presuppongono una reiterazione di condotte, come il delitto di abusivo esercizio di una professione, in quanto configurano comportamenti abituali incompatibili con i presupposti dell’art. 131-bis.
Particolare attenzione è stata riservata ai profili applicativi nei casi di reati di pericolo astratto. In queste ipotesi, la giurisprudenza ha riconosciuto che anche in presenza di una fattispecie astrattamente offensiva, l’esiguità del danno o del pericolo concreto può giustificare l’applicazione della norma. Questo orientamento riflette la volontà di valorizzare il principio di offensività, attribuendo rilievo alla concreta lesione o minaccia del bene giuridico tutelato.
Profili processuali della tenuità del fatto (art. 131-bis)
I profili processuali dell’istituto della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) sono fondamentali, poiché la norma si presta a essere rilevata d’ufficio in qualsiasi fase del procedimento penale.
Tale peculiarità ne fa uno strumento particolarmente versatile, applicabile sia nella fase delle indagini preliminari che durante il giudizio, fino all’appello. La possibilità di dichiarare la non punibilità per particolare tenuità del fatto è prevista, infatti, non solo in sede di archiviazione, ma anche attraverso provvedimenti come la sentenza di non luogo a procedere o il proscioglimento predibattimentale.
Nella fase delle indagini preliminari, il pubblico ministero può richiedere al giudice per le indagini preliminari l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, qualora ritenga che non vi siano i presupposti per proseguire l’azione penale. In tale contesto, l’avvocato può svolgere un ruolo determinante, segnalando tempestivamente al pubblico ministero gli elementi di fatto e di diritto che giustificano l’applicazione della norma. Analogamente, nelle fasi successive, il giudice può emettere sentenza di proscioglimento qualora ritenga che la condotta dell’imputato soddisfi i criteri stabiliti dall’art. 131-bis.
Un aspetto peculiare riguarda gli effetti della declaratoria di non punibilità per tenuità del fatto. Sebbene l’istituto escluda l’irrogazione della pena, la sentenza che ne accerta i presupposti comporta una conferma della responsabilità penale dell’imputato. Ai sensi dell’art. 651-bis c.p.p., tale pronuncia ha efficacia di giudicato in sede civile per il risarcimento del danno, consentendo alla parte offesa di far valere le proprie pretese nei confronti dell’autore del reato. Questo aspetto rende particolarmente delicata l’applicazione della norma, poiché l’esito del procedimento penale può influire sulle dinamiche risarcitorie in ambito civile.
Un ulteriore tema rilevante è la compatibilità della tenuità del fatto con i principi del processo penale. La Corte di Cassazione ha chiarito che la causa di non punibilità non può essere invocata per la prima volta in sede di legittimità, qualora fosse già applicabile al momento della sentenza di appello. Inoltre, le Sezioni Unite hanno stabilito che i provvedimenti di archiviazione o proscioglimento per tenuità del fatto devono essere iscritti nel casellario giudiziale, ma non figurano nei certificati rilasciati a richiesta dell’interessato, del datore di lavoro o della pubblica amministrazione.
Conclusioni: La particolare tenuità del fatto (art. 131-bis) e l’importanza della strategia difensiva
L’istituto della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) rappresenta un’importante evoluzione nel panorama del diritto penale italiano, ponendosi come strumento volto a ridurre il ricorso alla sanzione penale nei casi di minima offensività.
Esso consente di calibrare l’intervento repressivo in modo più proporzionato, rispettando i principi di offensività, sussidiarietà e proporzionalità, che costituiscono valori ineludibili del diritto penale moderno. L’applicazione di questo istituto, tuttavia, non è automatica, ma richiede un’analisi attenta e complessa delle circostanze del caso concreto, affidata alla valutazione discrezionale del giudice.
In questo contesto, il ruolo dell’avvocato assume una portata centrale. Attraverso un’approfondita analisi dei fatti, il difensore è in grado di individuare e valorizzare gli elementi che possono condurre all’applicazione della causa di non punibilità.
Che si tratti di far emergere la tenuità dell’offesa, l’assenza di comportamenti abituali o l’importanza della condotta susseguente al reato, l’intervento dell’avvocato è dirimente per assicurare che la norma venga applicata in modo equo e coerente.
Infine, l’istituto rappresenta anche una sfida per il sistema penale, poiché richiede un delicato bilanciamento tra le esigenze di deflazione processuale e la necessità di garantire giustizia alle vittime.
Il nostro Studio Legale, specializzato in diritto penale, si distingue per la capacità di offrire assistenza legale altamente qualificata in ogni fase del processo penale. Con un approccio dedicato e personalizzato, garantiamo una difesa solida e mirata alle esigenze specifiche del Cliente, sia esso imputato o parte civile, con l’obiettivo di far valere al massimo i suoi diritti nel rispetto delle garanzie processuali. Dedichiamo notevole attenzione all’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto.
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