Estorsione informatica: ecco le nuove misure contro i ransomware previste nel DDL presentato al Senato il 3 aprile 2025

Estorsione informatica: ecco le nuove misure contro i ransomware previste nel DDL presentato al Senato il 3 aprile 2025

L’estorsione informatica rappresenta oggi una delle minacce più gravi alla stabilità operativa di imprese, pubbliche amministrazioni e infrastrutture strategiche. A fronte di un contesto geopolitico sempre più instabile, caratterizzato da escalation ibride e dalla commistione tra crimine organizzato e attivismo informatico a matrice statuale, il nostro Paese ha registrato un incremento significativo degli attacchi cyber.

Secondo i dati riportati nella relazione illustrativa del disegno di legge presentato il 3 aprile 2025 dal Senatore Basso, nel solo anno 2023 si è verificato un aumento del 12% degli attacchi informatici rispetto all’anno precedente, con un’incidenza sproporzionata a livello globale: l’Italia, pur rappresentando solo l’1,8% del PIL mondiale, è stata bersaglio di circa il 10% degli attacchi informatici su scala planetaria. Di questi, oltre due terzi sono attribuibili ad attività a scopo estorsivo mediante ransomware.

Tali numeri impongono una riflessione sistemica sulla vulnerabilità strutturale del sistema-Paese, nonché sull’urgenza di strumenti normativi adeguati a fronteggiare l’evoluzione del crimine informatico. L’estorsione informatica, da reato tecnologico isolato, si configura ormai come un fattore strutturale di rischio economico, sociale e strategico.

In tale cornice, il disegno di legge in esame si propone di conferire al Governo una delega ampia per la definizione di una strategia nazionale organica, in grado di colmare le lacune dell’ordinamento vigente e di armonizzarsi con il quadro normativo europeo

Estorsione informatica e divieto di pagamento del riscatto: un cambio di paradigma per i soggetti pubblici e privati critici

Il disegno di legge delega il Governo a introdurre, tra le altre misure, un esplicito divieto di pagamento del riscatto per i soggetti pubblici e privati inclusi nel Perimetro di Sicurezza Nazionale Cibernetica, in caso di attacco informatico riconducibile a una forma di estorsione informatica.

Si tratta di una misura che, per la sua valenza sistemica, segna un deciso mutamento di paradigma nell’approccio del legislatore alla criminalità informatica, superando la logica della gestione discrezionale da parte della vittima e affermando un principio di ordine pubblico volto a colpire l’interesse economico dei gruppi criminali.

L’ispirazione di fondo richiama, per impostazione e finalità, la disciplina adottata con riferimento al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, introdotta dapprima con la legge n. 497/1974 e poi confluita, con modifiche, nella legge n. 82/1991. In quel contesto, l’art. 3 della legge del 1991 vietava il pagamento del riscatto da parte dei congiunti del sequestrato, salvo autorizzazione dell’autorità giudiziaria, al fine di interrompere la catena del profitto che incentivava il fenomeno criminoso.

Con analoghe finalità, l’attuale proposta normativa prevede che la violazione del divieto di pagamento del riscatto in caso di attacco ransomware comporti l’irrogazione di una sanzione amministrativa commisurata alla gravità della violazione. Solo in presenza di una minaccia grave ed imminente per la sicurezza nazionale, accertata e riconosciuta con provvedimento formale, il Presidente del Consiglio dei Ministri potrà autorizzare la deroga al divieto.

Questa clausola consente al sistema di mantenere un margine di flessibilità nei casi estremi, senza tuttavia vanificare l’effetto dissuasivo della norma. La previsione assume un valore fortemente simbolico e strutturale: privare i gruppi criminali della prospettiva di un pagamento certo rappresenta, anche nel caso dell’estorsione informatica, una misura per depotenziare il modello economico che sostiene le offensive ransomware su scala internazionale.

Estorsione informatica e qualificazione degli attacchi come minacce alla sicurezza nazionale

Una delle innovazioni più rilevanti del disegno di legge in materia di estorsione informatica è rappresentata dalla previsione, contenuta all’art. 1, comma 1, lettere b) e c), della possibilità per il Presidente del Consiglio dei Ministri di qualificare un attacco ransomware come incidente che comporta un pregiudizio per la sicurezza nazionale.

Si tratta di una disposizione che eleva l’evento informatico da minaccia di natura privatistica a questione di interesse primario per lo Stato, con conseguente attivazione delle misure straordinarie previste dalla legislazione vigente in materia di difesa e sicurezza.

In particolare, viene richiamato il regolamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 30 luglio 2020, n. 131, che all’art. 1, comma 1, lettere f), g) e h), definisce rispettivamente i concetti di compromissione, incidente e sicurezza nazionale, e si prevede che tale qualificazione possa essere adottata in via autonoma ai sensi dell’art. 2, comma 1, del decreto-legge 14 giugno 2021, n. 82, convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 2021, n. 109.

In forza di questa qualificazione, sarà consentito attivare misure di contrasto proprie dell’ambito intelligence cibernetica, tra cui quelle previste dall’art. 7-ter del decreto-legge 30 ottobre 2015, n. 174, convertito con modificazioni dalla legge 11 dicembre 2015, n. 198.

L’estorsione informatica, in questa prospettiva, viene assimilata a una forma di aggressione sistemica alla sovranità digitale del Paese, in quanto in grado di paralizzare infrastrutture critiche, erodere la fiducia dei cittadini nei servizi pubblici e destabilizzare il sistema economico e produttivo nazionale.

Si tratta di un’interpretazione evolutiva e coerente con le più recenti prassi internazionali, in cui le minacce ibride e le offensive cyber condotte da soggetti non statali sono sempre più spesso oggetto di qualificazione come attacchi alla sicurezza dello Stato. Attraverso questo meccanismo di riconoscimento formale, si consente allo Stato di mobilitare tempestivamente tutte le risorse operative, tecnologiche e strategiche necessarie, colmando un vuoto di tutela che in passato ha impedito una reazione efficace e centralizzata agli attacchi di estorsione informatica di matrice transnazionale.

Estorsione informatica e obbligo di notifica al CSIRT Italia: l’accelerazione della risposta nazionale

Nel sistema delineato dal disegno di legge in materia di estorsione informatica, un ruolo di primo ordine è affidato all’obbligo di notifica tempestiva degli attacchi ransomware da parte di tutti i soggetti, pubblici e privati, che ne siano colpiti. La norma, prevista dall’art. 1, comma 1, lettera e), impone l’invio di una segnalazione al Computer Security Incident Response Team – CSIRT Italia entro sei ore dal momento in cui il soggetto interessato sia venuto a conoscenza dell’evento, pena l’irrogazione di una sanzione amministrativa commisurata alla gravità dell’inadempimento.

Tale obbligo non si applica nei casi in cui le misure di sicurezza messe in atto dalla vittima abbiano efficacemente bloccato l’attacco prima della cifratura o dell’esfiltrazione dei dati. La notifica assume funzione non solo informativa ma anche abilitante, poiché costituisce condizione necessaria per accedere, in seguito, al Fondo nazionale di risposta agli attacchi ransomware.

Il CSIRT Italia, ricevuta la segnalazione, dovrà provvedere senza indugio a trasmetterla agli organismi istituzionalmente competenti: il Ministero dell’interno, ai sensi dell’art. 7-bis del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144; le autorità previste dal regolamento (UE) 2022/2554 (c.d. regolamento DORA), come recepito nel nostro ordinamento dal decreto legislativo 10 marzo 2025, n. 23; gli organismi informativi per la sicurezza di cui agli artt. 4, 6 e 7 della legge n. 124 del 2007; nonché, ove pertinente, al Ministero della difesa quale autorità nazionale per la gestione delle crisi informatiche, ai sensi dell’art. 13 del decreto legislativo 4 settembre 2024.

L’impianto normativo mantiene impregiudicati eventuali ulteriori obblighi di notifica già previsti da discipline settoriali, come la direttiva (UE) 2022/2555 (NIS 2) o il regolamento generale sulla protezione dei dati (UE) 2016/679.

Estorsione informatica e sostegno alle vittime: piano operativo, task force e Fondo nazionale

Nel quadro normativo delineato dal disegno di legge in materia di estorsione informatica, un rilievo particolare è attribuito alle misure di sostegno diretto alle vittime di attacchi ransomware, nella consapevolezza che la sola repressione non è sufficiente a garantire la resilienza complessiva del sistema.

A tal fine, la proposta normativa incarica l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (ACN) di predisporre un piano operativo di supporto a favore dei soggetti colpiti, con attenzione specifica alle pubbliche amministrazioni locali e alle piccole e medie imprese. Il piano dovrà contenere indicazioni tecniche concrete per la gestione dell’attacco, dalla fase di contenimento iniziale alla ripresa dell’operatività, nonché la valutazione delle alternative praticabili rispetto al pagamento del riscatto.

Al contempo, si prevede l’istituzione di una task force nazionale presso il CSIRT Italia, con compiti di coordinamento, assistenza tecnica, analisi condivisa delle informazioni e funzione di punto di contatto unico per le vittime, sia a livello nazionale che internazionale. Tale assetto organizzativo è finalizzato a garantire una reazione tempestiva e strutturata agli attacchi di estorsione informatica, superando la frammentazione operativa finora riscontrata nella gestione delle emergenze cibernetiche.

In aggiunta, il legislatore intende istituire un Fondo nazionale di risposta agli attacchi ransomware, alimentato con risorse pubbliche, destinato a fornire un ristoro – anche solo parziale – delle perdite economiche subite a seguito dell’evento lesivo. L’accesso al Fondo sarà subordinato al rispetto di precisi requisiti, tra cui l’effettuazione della notifica entro i termini stabiliti e l’adozione delle misure preventive indicate nel piano ACN. Questa previsione introduce un principio di corresponsabilità ex ante, in base al quale il supporto pubblico si fonda sull’adempimento diligente da parte del soggetto privato o pubblico, ribadendo così la centralità della prevenzione nell’architettura giuridica contro l’estorsione informatica.

Estorsione informatica, responsabilità e prevenzione: formazione, assicurazioni e nuovi reati

L’approccio delineato dal disegno di legge nei confronti dell’estorsione informatica si fonda anche sul rafforzamento della dimensione preventiva e sulla promozione di una cultura diffusa della sicurezza cibernetica. In tale prospettiva, la proposta normativa introduce obblighi e incentivi volti a promuovere comportamenti virtuosi e a rafforzare la capacità reattiva del sistema Paese. Viene innanzitutto previsto l’obbligo di formazione annuale in materia di cybersicurezza per tutto il personale delle pubbliche amministrazioni, con l’obiettivo di accrescere la consapevolezza individuale e ridurre il rischio derivante dal fattore umano, notoriamente tra i principali vettori di compromissione nei casi di ransomware.

Parallelamente, si prevedono incentivi fiscali in favore delle piccole e medie imprese che investano nella formazione del proprio personale, riconoscendo le difficoltà economiche e organizzative che spesso impediscono alle PMI di dotarsi di un’adeguata postura di sicurezza.

A tali misure si affianca la promozione della sottoscrizione di cyber-assicurazioni, mediante la previsione di ulteriori agevolazioni fiscali e contributive. Queste polizze, sebbene non sostitutive delle misure di prevenzione tecnica e organizzativa, possono costituire uno strumento di resilienza economica e una modalità efficace di gestione del rischio, specie per gli operatori di minori dimensioni.

Dal punto di vista normativo-repressivo, il disegno di legge introduce nuove previsioni sanzionatorie mirate, tra cui l’introduzione di fattispecie autonome di illecito per lo sviluppo, la promozione o la diffusione di piattaforme Ransomware-as-a-Service (RaaS), anche in assenza di un diretto coinvolgimento negli attacchi.

Tale previsione risponde all’esigenza di colpire non solo gli esecutori materiali dell’estorsione informatica, ma anche l’infrastruttura tecnica ed economica che ne consente la proliferazione. Infine, in coerenza con le migliori pratiche internazionali, si prevede l’introduzione di un regime di protezione giuridica per i soggetti che segnalino in buona fede vulnerabilità informatiche, secondo le modalità della divulgazione responsabile.

Questa clausola di safe harbor ha l’obiettivo di incentivare la collaborazione della società civile, in particolare della comunità tecnica e accademica, con le istituzioni, al fine di rafforzare in modo sistemico la sicurezza informatica nazionale e contenere il fenomeno dell’estorsione informatica prima che esso si manifesti nelle sue forme più dannose.

Il nostro supporto alle imprese e alle PA. Consulenza legale qualificata in materia di cybersecurity e reati informatici

Le misure previste nel disegno di legge presentato il 3 aprile 2025 in tema di estorsione informatica rappresentano una novità di estremo rilievo nel panorama della legislazione nazionale. Tuttavia, esse si configurano allo stato attuale come principi e criteri direttivi affidati alla futura attività del Governo, cui spetterà il compito di dare attuazione alla delega mediante l’adozione di uno o più decreti legislativi, entro il termine di sei mesi dalla futura ed eventuale entrata in vigore della legge.

I futuri decreti legislativi dovranno chiarire la portata effettiva delle sanzioni previste, i rapporti con gli obblighi di notifica già esistenti a livello europeo e nazionale, e il coordinamento tra i diversi livelli di autorità coinvolti nella risposta agli attacchi di estorsione informatica.

In ogni caso, pur trattandosi ad oggi di un mero disegno di legge l’iniziativa legislativa riveste un’importanza strategica notevole, poiché segna l’emersione di un indirizzo normativo chiaro e coerente, volto a rafforzare la resilienza del Paese nei confronti di una minaccia sempre più diffusa e insidiosa.

In caso di attacco ransomware, o di altri eventi riconducibili a condotte di estorsione informatica, è fondamentale disporre di un supporto legale tempestivo e specialistico, in grado di orientare l’ente nelle comunicazioni con le autorità competenti, nella tutela del patrimonio informativo, nell’adempimento degli obblighi regolatori e nella gestione della propria responsabilità.

Il nostro Studio offre assistenza legale specialistica in materia di estorsione informatica e, in genere, di reati informatici, supportando imprese e pubbliche amministrazioni nella prevenzione, nella risposta e nella messa in sicurezza dell’organizzazione a fronte di attacchi informatici a scopo estorsivo.

Ricorso alla Corte di Giustizia UE. Notizie della stampa sul downlisting del lupo comune

Ricorso alla Corte di Giustizia UE. Notizie della stampa sul downlisting del lupo comune

Riportiamo di seguito alcune informazioni sul ricorso alla Corte di Giustizia, patrocinato dall’avvocato Luca D’Agostino, sul tema del downlisting nel regime di tutela del lupo, riportate sulla stampa nazionale ed europea.

Il ricorso, promosso da cinque associazioni ambientaliste e animaliste – Green Impact, Earth, Nagy Tavak, LNDC Animal Protection e One Voice – è stato depositato dinanzi al Tribunale dell’Unione Europea con l’obiettivo di ottenere l’annullamento della Decisione (UE) 2024/2669 del Consiglio, con la quale l’Unione Europea ha proposto alla Convenzione di Berna il declassamento del lupo grigio (Canis lupus) dall’Appendice II all’Appendice III della Convenzione stessa. Tale modifica, che ha ricevuto il voto favorevole dell’Unione Europea nella riunione del 3 dicembre 2024, comporta una riduzione del regime di protezione del lupo, aprendo la strada a misure di gestione meno rigorose e potenzialmente più permissive delle pratiche di abbattimento (v. Comunicato Stampa).

Le associazioni ricorrenti sostengono che la Decisione impugnata sia viziata da profili di illegittimità, tra cui il mancato rispetto dei principi di precauzione, proporzionalità e del criterio della best available science, nonché l’assenza di una motivazione fondata su dati scientifici aggiornati e verificabili.

Il ricorso alla Corte di Giustizia mira a ottenere non solo l’annullamento della Decisione del Consiglio, ma anche di tutti gli atti successivi connessi, inclusa la proposta dell’UE alla Convenzione di Berna e il voto espresso in quella sede. L’accoglimento del ricorso avrebbe effetti giuridici rilevanti, in quanto determinerebbe l’invalidità dell’intero procedimento di declassamento del lupo, impedendo che la modifica della Convenzione di Berna possa essere applicata nell’ordinamento giuridico europeo.

I motivi espressi nel ricorso alla Corte di Giustizia

Il ricorso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea si fonda su due principali motivi di diritto, entrambi connessi alla violazione delle norme europee in materia di protezione della biodiversità e al mancato rispetto dei principi sanciti dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), dalla Direttiva Habitat e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE (v. notizia del ricorso pubblicato in Gazzetta Ufficiale).

Le ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 191, paragrafo 3, TFUE, dell’art. 6, paragrafo 1, TUE e dell’art. 37 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, in quanto il Consiglio ha adottato la Decisione impugnata senza tenere conto dei dati scientifici e tecnici disponibili.

Il ricorso alla Corte di Giustizia evidenzia come la documentazione scientifica esistente – compresi i rapporti elaborati dalla Large Carnivore Initiative for Europe (LCIE) e da altri istituti di ricerca accreditati – indichi chiaramente che il lupo non ha raggiunto uno stato di conservazione favorevole in Europa. Nonostante ciò, il Consiglio e la Commissione hanno deciso di proporre il declassamento della specie basandosi sugli stessi dati che, nel 2022, avevano portato l’Unione Europea a rifiutare una proposta analoga avanzata dalla Svizzera.

Inoltre, la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE ha più volte ribadito che le deroghe al regime di protezione del lupo possono essere concesse solo se non pregiudicano il mantenimento di uno stato di conservazione soddisfacente della popolazione della specie nella sua area di ripartizione naturale. Tale principio, espresso nelle recenti sentenze C-436/22 e C-601/22, è stato completamente ignorato dal Consiglio nel proporre il declassamento della specie a livello continentale, senza considerare le differenze nei singoli stati membri e senza garantire una valutazione rigorosa basata su parametri scientifici aggiornati.

Oltre alla violazione di tali principi, il ricorso alla Corte di Giustizia evidenzia come la Decisione impugnata si ponga in contrasto con la Raccomandazione n. 56 (1997) del Comitato Permanente della Convenzione di Berna, che impone che le modifiche agli allegati della Convenzione avvengano in modo coerente e fondato sulle migliori conoscenze scientifiche disponibili. Il mancato rispetto di tali obblighi mina l’intero impianto normativo europeo in materia di tutela della fauna selvatica, creando un precedente pericoloso che potrebbe essere esteso ad altre specie protette.

A ulteriore conferma delle criticità della Decisione impugnata, il Mediatore Europeo ha recentemente aperto un fascicolo d’indagine, sollevando dubbi sulla trasparenza del processo decisionale e sulla metodologia adottata dalla Commissione Europea nella raccolta e nella valutazione dei dati scientifici. L’assenza di un’adeguata istruttoria e il peso preponderante delle pressioni politiche nella decisione finale rappresentano ulteriori elementi che il Tribunale dell’Unione Europea dovrà valutare nell’ambito del giudizio di annullamento.

I prossimi sviluppi del ricorso alla Corte di Giustizia

Il ricorso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea contro il declassamento del lupo ha ora raggiunto un’importante fase procedurale. L’atto introduttivo è stato formalmente registrato e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea,

Le Associazioni ricorrenti (v. Comunicato sulla stampa internazionale) ribadiscono la loro posizione secondo cui il declassamento del lupo è stato adottato in violazione delle migliori conoscenze scientifiche disponibili, con un’eccessiva ingerenza di considerazioni politiche prive di fondamento tecnico. La giurisprudenza della Corte di Giustizia ha più volte stabilito che le decisioni relative alla protezione della fauna selvatica devono essere basate su dati scientifici solidi e su un’istruttoria rigorosa, senza essere distorte da pressioni di natura socio-economica che non trovano riscontro nei dati oggettivi.

Nei prossimi mesi, il procedimento giudiziario proseguirà con le memorie difensive delle istituzioni convenute, seguite dall’eventuale fase dibattimentale, durante la quale il Tribunale dell’Unione Europea sarà chiamato a valutare la legittimità della Decisione del Consiglio UE e la fondatezza dei motivi di ricorso presentati dalle Associazioni.

L’esito del ricorso alla Corte di Giustizia avrà un impatto significativo non solo sulla tutela del lupo grigio in Europa, ma anche sui futuri standard di protezione della biodiversità nell’Unione. In un contesto globale in cui la crisi ecologica e la perdita di biodiversità sono riconosciute come emergenze prioritarie, la vicenda giudiziaria in corso rappresenta un banco di prova per l’efficacia della governance ambientale europea e per il rispetto dei principi sanciti dai Trattati dell’Unione.

Per ulteriori informazioni sul ricorso alla Corte di Giustizia contattaci qui.

Comodato d’uso del veicolo a familiare convivente: occorre la delega e l’annotazione sulla carta di circolazione?

Comodato d’uso del veicolo a familiare convivente: occorre la delega e l’annotazione sulla carta di circolazione?

Il tema del comodato d’uso del veicolo assume una rilevanza sempre maggiore nell’ambito della regolamentazione della circolazione stradale, soprattutto in virtù delle recenti disposizioni normative che mirano a garantire una maggiore tracciabilità e trasparenza nell’utilizzo dei veicoli. La normativa vigente pone l’attenzione sui casi in cui un veicolo sia utilizzato da un soggetto diverso dall’intestatario per periodi prolungati, introducendo specifici obblighi di annotazione sulla carta di circolazione.

Il quadro normativo di riferimento è delineato dall’articolo 94, comma 4-bis, del Codice della Strada, che sancisce l’obbligo di annotare sulla carta di circolazione e nell’Archivio Nazionale dei Veicoli la disponibilità del veicolo da parte di un soggetto terzo per un periodo superiore a trenta giorni. Tale disposizione, introdotta per garantire un controllo più rigoroso nella circolazione dei veicoli, si applica a situazioni quali contratti di comodato, affidamenti giudiziali o altre forme di utilizzo continuativo del mezzo da parte di un soggetto diverso dall’intestatario.

In aggiunta, il Regolamento di attuazione ed esecuzione del Codice della Strada, all’articolo 247-bis, fornisce ulteriori dettagli applicativi, introducendo specifiche eccezioni all’obbligo di annotazione. In particolare, viene chiarito che l’obbligo non si applica ai componenti del nucleo familiare convivente con l’intestatario del veicolo, garantendo in tal modo una maggiore flessibilità per i rapporti familiari. Questa previsione normativa, dunque, solleva i familiari conviventi dall’onere di adempiere agli obblighi burocratici, purché la convivenza possa essere documentata secondo i criteri anagrafici previsti dalla legge.

Con questo articolo, in linea con altri approfondimenti precedenti, si intende fornire ai lettori un breve approfondimento su questo tema, chiarendo gli ambiti di applicazione della normativa e le eccezioni previste, nonché evidenziando l’importanza di una corretta gestione degli adempimenti previsti dalla legge.

Comodato d’uso del veicolo e obbligo di annotazione sulla carta di circolazione

Il comodato d’uso del veicolo può rientrare tra i casi specificamente disciplinati dall’articolo 94, comma 4-bis, del Codice della Strada, il quale impone l’obbligo di annotare sulla carta di circolazione e nell’Archivio Nazionale dei Veicoli i dati relativi alla disponibilità del veicolo qualora esso venga utilizzato, per un periodo superiore a trenta giorni, da un soggetto diverso dall’intestatario. Questa norma si pone l’obiettivo di assicurare una maggiore tracciabilità e responsabilità nell’utilizzo dei veicoli, in particolare in quei contesti in cui un mezzo di trasporto venga concesso a terzi per un uso continuativo o stabile.

La ratio di tale disposizione normativa risiede nell’esigenza di garantire una gestione più trasparente del parco veicoli circolante, in modo da poter identificare con precisione il soggetto che, di fatto, utilizza il veicolo in modo continuativo. Ciò assume particolare importanza in materia di responsabilità amministrativa e civile derivante dalla circolazione stradale, nonché nell’ambito delle sanzioni pecuniarie per violazioni del Codice della Strada.

Il comodato d’uso del veicolo, secondo quanto stabilito dalla normativa vigente, comporta quindi un obbligo formale di comunicazione agli uffici competenti del Dipartimento per i Trasporti. Questa comunicazione si traduce in una modifica della carta di circolazione, nella quale deve essere riportato il nominativo del soggetto che ha la disponibilità del veicolo e, in caso di comodato scritto, la durata prevista dal contratto.

Tale obbligo, se non adempiuto, comporta specifiche sanzioni amministrative a carico sia del proprietario sia del conducente. Le sanzioni sono mirate a incentivare il rispetto delle norme e a garantire che il veicolo venga sempre utilizzato nel rispetto della disciplina di legge, specialmente in contesti di utilizzo prolungato da parte di terzi non rientranti nel nucleo familiare convivente.

La disciplina del comodato d’uso del veicolo conferma, dunque, l’importanza di gestire correttamente la documentazione relativa alla disponibilità del mezzo. Per evitare possibili sanzioni o contestazioni, è essenziale che gli utenti siano pienamente consapevoli dei propri obblighi legali e che, in caso di dubbi, si affidino a consulenti esperti per una gestione conforme agli adempimenti richiesti dalla normativa.

Comodato d’uso del veicolo a familiare convivente: esenzione dall’obbligo di annotazione

Un aspetto fondamentale della disciplina del comodato d’uso del veicolo riguarda l’esenzione dall’obbligo di annotazione sulla carta di circolazione per i casi in cui il veicolo sia concesso in utilizzo a un familiare convivente dell’intestatario.

Tale esenzione è espressamente prevista dall’articolo 247-bis, comma 2, del Regolamento di attuazione ed esecuzione del Codice della Strada, il quale specifica che l’obbligo di aggiornamento della carta di circolazione non si applica ai componenti del nucleo familiare convivente.

Questa previsione normativa trova il proprio fondamento nella necessità di semplificare gli adempimenti burocratici in presenza di legami familiari e di una convivenza accertata. La ratio legis risiede nell’idea che i membri di uno stesso nucleo familiare, pur utilizzando un veicolo intestato a un altro convivente, non necessitano di particolari formalità aggiuntive per documentare tale utilizzo, poiché la convivenza garantisce un presupposto di tracciabilità e responsabilità condivisa. Tuttavia, per poter beneficiare di questa esenzione, la convivenza deve essere adeguatamente documentata tramite i registri anagrafici comunali.

L’interpretazione della norma porta a chiarire che l’esenzione si applica esclusivamente ai soggetti che coabitano stabilmente con l’intestatario del veicolo. Ciò esclude, ad esempio, parenti o familiari che, pur avendo rapporti stretti con il proprietario, non risiedono nella medesima abitazione. È quindi essenziale verificare con attenzione lo status anagrafico del nucleo familiare al momento dell’eventuale controllo da parte delle autorità competenti.

Nonostante l’esenzione dall’obbligo di annotazione sulla carta di circolazione, è importante sottolineare che il conducente familiare convivente deve comunque rispettare tutte le altre disposizioni del Codice della Strada, incluse quelle relative alla disponibilità dei documenti di circolazione e alla responsabilità derivante dalla conduzione del veicolo.

Il comodato d’uso del veicolo tra non conviventi: obblighi e sanzioni

La disciplina del comodato d’uso del veicolo diventa particolarmente stringente nei casi in cui il mezzo sia concesso in utilizzo a soggetti non conviventi con l’intestatario. In tali circostanze, l’obbligo di annotazione sulla carta di circolazione e nell’Archivio Nazionale dei Veicoli, previsto dall’articolo 94, comma 4-bis, del Codice della Strada, assume carattere imperativo.

La norma, infatti, impone di comunicare formalmente agli uffici del Dipartimento per i Trasporti l’identità del conducente che ha la disponibilità esclusiva e continuativa del veicolo per periodi superiori a trenta giorni.

A differenza dei casi di utilizzo da parte di familiari conviventi, per i quali è prevista un’esenzione, il comodato d’uso del veicolo a soggetti terzi richiede l’adempimento di precise formalità. L’intestatario del veicolo e il conducente devono infatti stipulare un contratto scritto di comodato, in cui siano indicati chiaramente i termini e le condizioni d’uso del mezzo, nonché la durata del rapporto. Tale contratto, una volta redatto, costituisce il presupposto per richiedere l’annotazione dei dati del comodatario sulla carta di circolazione.

La mancata osservanza di questi obblighi comporta conseguenze rilevanti. L’omissione dell’annotazione, infatti, espone sia il proprietario del veicolo sia il conducente a sanzioni amministrative, come previsto dal Codice della Strada (pagamento di una somma da € 727 a € 3.629, come previsto dall’art. 94, comma 3, CdS). Le sanzioni sono finalizzate a incentivare il rispetto delle norme e a garantire la tracciabilità dell’effettivo utilizzatore del veicolo, in un’ottica di sicurezza stradale e di corretta gestione delle responsabilità derivanti dalla circolazione.

Un ulteriore aspetto da considerare riguarda i controlli stradali: in caso di mancata annotazione del comodato d’uso del veicolo, le autorità competenti potrebbero presumere l’irregolarità dell’utilizzo e procedere con le relative contestazioni. Per evitare tali problematiche, è fondamentale che entrambe le parti coinvolte rispettino scrupolosamente le procedure previste dalla legge, documentando formalmente il rapporto di comodato e garantendo l’aggiornamento della carta di circolazione nei tempi richiesti.

Comodato d’uso del veicolo e consulenza legale

Il comodato d’uso del veicolo è un istituto spesso negletto e poco conosciuto, che bilancia le esigenze di tracciabilità e sicurezza nella circolazione stradale con la necessità di semplificazione per determinati rapporti giuridici.

Il quadro normativo presenta alcune incertezze applicative che possono generare dubbi su particolari adempimenti. In particolare, è fondamentale comprendere quando sia necessario procedere con l’aggiornamento della carta di circolazione e quali siano le implicazioni derivanti dalla mancata osservanza di tale obbligo. La presenza di eccezioni, come quella relativa al comodato d’uso del veicolo tra familiari conviventi, richiede una corretta documentazione della convivenza e una conoscenza approfondita dei requisiti previsti dalla legge.

Alla luce di tali considerazioni, appare evidente che una gestione conforme degli adempimenti previsti è essenziale per evitare sanzioni amministrative e contestazioni da parte delle autorità competenti.
Lo Studio Legale D’Agostino, grazie alla sua consolidata esperienza nel settore, è in grado di fornire un supporto completo e personalizzato per tutti gli aspetti legati al Codice della Strada.

Per chiunque desideri approfondire ulteriormente queste tematiche o necessiti di assistenza nella gestione di tali adempimenti, rimaniamo a disposizione per una consulenza legale qualificata e orientata alla soluzione di problematiche specifiche.

 

Codice della Strada: immagine di una strada extraurbana con pattuglia della polizia e scritta "DAGOSTINOLEX", dedicata all’assistenza legale per incidenti stradali, alcol, stupefacenti e tasso alcolemico a Roma.

Codice della Strada e comodato d’uso del veicolo: Studio Legale D’Agostino a Roma.

Riforma del CdS (Legge 177/2024): novità e sanzioni spiegate dall’avvocato

Riforma del CdS (Legge 177/2024): novità e sanzioni spiegate dall’avvocato

La Legge 25 novembre 2024 n. 177 di riforma del Codice della Strada (CdS) segna un cambiamento significativo nell’ambito della circolazione stradale, introducendo nuove disposizioni in materia di sicurezza e responsabilità degli utenti della strada. Questo intervento legislativo, entrato in vigore il 14 dicembre 2024, mira a rafforzare il sistema sanzionatorio e a promuovere un approccio più rigoroso alla disciplina della circolazione stradale.

Abbiamo esaminato nello specifico le nuove disposizioni concernenti la disciplina della guida in stato d’ebbrezza da alcol o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti in un precedente articolo; in questa sede si occuperemo di dare uno sguardo alle altre novità introdotte nel Codice della Strada (CdS) dalla Legge 177/2024.

L’intero impianto normativo si fonda su un concetto chiave: incrementare il livello di sicurezza sulle strade italiane mediante strumenti più efficaci e sanzioni più incisive. In particolare, le modifiche al CdS intervengono su una vasta gamma di aspetti, che spaziano dalle nuove regole per i neopatentati, fino a discipline specifiche per le violazioni commesse in ZTL o per eccessi di velocità, o relative all’utilizzo dei monopattini elettrici.

Nuove sanzioni per il superamento dei limiti di velocità nel Codice della Strada (CdS)

La riforma del Codice della Strada (CdS) introdotta con la Legge 25 novembre 2024 n. 177, ha apportato modifiche importanti anche al regime sanzionatorio per il superamento dei limiti di velocità, inasprendo le pene per chi commette queste violazioni. Tali modifiche riflettono la volontà del legislatore di adottare un approccio più severo, soprattutto nei casi di infrazioni reiterate o commesse in contesti particolarmente sensibili, come i centri abitati.

Per chi supera i limiti di velocità, le sanzioni amministrative pecuniarie restano proporzionate all’entità dell’infrazione, ma con alcune novità. Le multe per il superamento di oltre 10 km/h e fino a 40 km/h restano comprese tra 173 e 694 euro, mentre per il superamento di oltre 40 km/h e fino a 60 km/h si va da 544 a 2.174 euro, con la sospensione della patente da uno a tre mesi. La violazione più grave, ossia il superamento di oltre 60 km/h, comporta una sanzione tra 847 e 3.389 euro, oltre alla sospensione della patente da sei a dodici mesi.

Un’aggiunta rilevante riguarda i casi di violazioni reiterate all’interno dei centri abitati. La riforma al CdS prevede che il superamento dei limiti di velocità per almeno due volte in un anno, in queste aree, possa comportare la sospensione della patente da 15 a 30 giorni, in aggiunta alla sanzione pecuniaria. Questo inasprimento sottolinea l’attenzione verso la protezione degli utenti più vulnerabili, come pedoni e ciclisti, che frequentano maggiormente gli spazi urbani.

La modifica più innovativa riguarda il trattamento delle infrazioni multiple rilevate in un breve periodo. Con l’introduzione del comma 6-ter nell’articolo 142, il legislatore ha stabilito che, in caso di più violazioni commesse dallo stesso veicolo nell’arco di 60 minuti, venga applicata un’unica sanzione, calcolata sulla base della multa più grave tra quelle accertate, aumentata di un terzo. Questo approccio mira a evitare duplicazioni di sanzioni e garantire una maggiore proporzionalità nel trattamento delle infrazioni.

Nel complesso, la riforma rende più severo il regime sanzionatorio per le violazioni dei limiti di velocità, con l’obiettivo di rafforzare la sicurezza stradale e ridurre la sinistrosità.

CdS, uso di dispositivi elettronici alla guida e sospensione breve della patente

La Legge 25 novembre 2024 n. 177 ha introdotto il comma 3-bis all’articolo 173 CdS, rafforzando le misure sanzionatorie per chi utilizza dispositivi elettronici durante la guida in violazione delle regole previste. Sebbene l’articolo 173 già disciplinasse il divieto di utilizzo di apparecchi radiotelefonici, smartphone, tablet, computer portatili e dispositivi analoghi che comportano anche solo temporaneamente l’allontanamento delle mani dal volante, la riforma del 2024 ha introdotto specifiche sanzioni amministrative e accessorie di maggiore gravità per contrastare più efficacemente questa condotta.

In base al nuovo comma 3-bis, chiunque violi il divieto di cui al comma 2 è ora soggetto a una sanzione amministrativa pecuniaria compresa tra 250 e 1.000 euro, nonché alla sospensione della patente per un periodo che varia da quindici giorni a due mesi. Inoltre, in caso di recidiva nell’arco di un biennio, le pene vengono aggravate: la sanzione pecuniaria aumenta, passando da 350 a 1.400 euro, e la sospensione della patente è estesa da uno a tre mesi.

Questa nuova disposizione mira a contrastare la distrazione alla guida, che rappresenta una delle principali cause di incidenti stradali, e a incentivare l’uso esclusivo di dispositivi a viva voce o auricolari che non richiedono l’uso delle mani.

Va inoltre ricordato che le violazioni gravi, come l’uso del cellulare alla guida, possono incidere sul punteggio della patente. La sospensione breve, disciplinata dall’articolo 218-ter CdS, può essere applicata in aggiunta alle sanzioni pecuniarie, prevedendo la sospensione della patente per un periodo che varia in base al punteggio residuo del conducente, da sette giorni (se il punteggio è inferiore a 20 ma pari almeno a 10) fino a quindici giorni (se il punteggio è inferiore a 10).

 CdS e sospensione breve della patente: durata e applicazione

Una delle novità più rilevanti introdotte dalla Legge 25 novembre 2024 n. 177 riguarda l’introduzione dell’articolo 218-ter CdS che disciplina la sospensione breve della patente in relazione al punteggio residuo del conducente. Questa misura mira a colpire con tempestività e proporzionalità alcune violazioni specifiche, rafforzando il sistema sanzionatorio e incentivando comportamenti più responsabili alla guida.

L’articolo 218-ter prevede che, in caso di violazioni gravi, la patente possa essere sospesa per un breve periodo direttamente dall’organo accertatore, senza necessità di un provvedimento del Prefetto. La durata della sospensione varia in base al punteggio residuo del conducente al momento dell’accertamento. Nei casi in cui il punteggio sia inferiore a venti ma pari almeno a dieci, la sospensione avrà una durata di sette giorni.

Se il punteggio residuo è inferiore a dieci, la sospensione si estende a quindici giorni. In presenza di un incidente stradale causato dal conducente, anche senza coinvolgimento di terzi, la durata della sospensione è raddoppiata, segnalando l’intento del legislatore di trattare con maggiore severità i comportamenti che comportano un rischio concreto per la sicurezza stradale.

Tra le violazioni che possono comportare l’applicazione della sospensione breve rientrano il mancato rispetto di segnali di senso vietato e divieto di sorpasso, il superamento dei limiti di velocità, l’uso improprio del cellulare alla guida, la guida sotto l’effetto di alcol o droghe, e la mancata osservanza della distanza di sicurezza. L’elenco di tali infrazioni riflette un approccio mirato, volto a intervenire su comportamenti particolarmente pericolosi e spesso causa di incidenti gravi.

La sospensione breve decorre immediatamente dal momento del ritiro della patente da parte dell’agente accertatore e può essere applicata contestualmente alla contestazione della violazione. Se, per qualsiasi motivo, il ritiro non può avvenire contestualmente, la sospensione decorre dalla data di notificazione del verbale. La patente ritirata viene conservata presso l’ufficio dell’organo accertatore fino al termine del periodo di sospensione, dopo il quale sarà restituita al conducente o a un suo delegato. Questa procedura semplificata riduce i tempi amministrativi e garantisce l’efficacia immediata della misura.

Chiunque venga sorpreso a circolare durante il periodo di sospensione incorre in sanzioni severe, che includono una multa amministrativa compresa tra 2.046 e 8.186 euro, la revoca della patente e il fermo amministrativo del veicolo per tre mesi. Tali misure accessorie previste dal CdS dimostrano la volontà del legislatore di dissuadere in modo deciso i conducenti dal violare il divieto di guida durante il periodo di sospensione.

Sebbene queste disposizioni siano state accolte positivamente per la loro capacità di garantire una risposta immediata a comportamenti pericolosi, non mancano osservazioni critiche. Alcuni esperti evidenziano che la correlazione tra il punteggio residuo e la durata della sospensione potrebbe non sempre riflettere adeguatamente la gravità dell’infrazione, generando potenziali squilibri. Inoltre, l’efficacia della misura dipenderà dalla capacità degli organi accertatori di applicarla con uniformità e rigore.

Violazioni ripetute nel Codice della Strada (CdS): disciplina delle infrazioni multiple

La Legge 25 novembre 2024 n. 177 introduce un’importante innovazione nel CdS attraverso la disciplina delle violazioni ripetute, con l’obiettivo di rendere il sistema sanzionatorio più proporzionato e coerente. In particolare, la riforma interviene sull’articolo 142, inserendo il nuovo comma 6-ter, che regola le conseguenze di più infrazioni per il superamento dei limiti di velocità commesse dallo stesso veicolo nell’arco di un’ora. Questa modifica mira a evitare duplicazioni di sanzioni per condotte che, pur reiterate in un breve lasso di tempo, derivano dalla medesima situazione di violazione.

La nuova disciplina prevede che, qualora un veicolo commetta più infrazioni ai limiti di velocità nell’arco di sessanta minuti e all’interno della giurisdizione dello stesso ente, venga applicata un’unica sanzione. In tali casi, sarà calcolata la multa più grave tra quelle rilevate, aumentata di un terzo. Questo approccio consente di punire in maniera proporzionata il comportamento complessivo del conducente, evitando di infliggere pene cumulative che potrebbero risultare eccessivamente gravose. La decorrenza del periodo considerato inizia dalla prima infrazione accertata e si applicano le disposizioni dell’articolo 198-bis del Codice della Strada (CdS), che regolano la continuità delle infrazioni.

La ratio di queste disposizioni risiede nella volontà di garantire un’applicazione più equa e razionale delle sanzioni, riducendo al contempo i rischi di contenzioso. Tuttavia, la loro introduzione non è stata priva di critiche. Alcuni esperti hanno evidenziato che questa semplificazione potrebbe ridurre l’effetto deterrente delle sanzioni, incoraggiando comportamenti meno responsabili da parte di alcuni conducenti. Altri, invece, sottolineano che il calcolo di una sola sanzione potrebbe non riflettere adeguatamente la gravità complessiva delle violazioni commesse in un breve periodo.

ZTL, aree pedonali e il Codice della Strada (CdS): regole per le violazioni multiple

La Legge 25 novembre 2024 n. 177 introduce significative novità nel Codice della Strada (CdS), disciplinando in modo più razionale e proporzionato le violazioni commesse in Zone a Traffico Limitato (ZTL), aree pedonali urbane e altre zone soggette a limitazioni o divieti di accesso. Le modifiche, in particolare quelle apportate all’articolo 198 tramite l’inserimento del comma 2-bis, mirano a tutelare gli utenti della strada da una moltiplicazione delle sanzioni per infrazioni che, pur ripetute, possono essere considerate come un’unica condotta continuativa.

La nuova disciplina stabilisce che, in caso di più violazioni dello stesso tipo rilevate senza contestazione immediata tramite dispositivi di controllo remoto, venga applicata una sola sanzione per ciascun giorno di calendario. Questo principio si applica anche quando le infrazioni si verificano in fasce orarie diverse o in condizioni in cui le limitazioni si estendono a cavallo di due giorni consecutivi. Ad esempio, se un veicolo accede a una ZTL senza autorizzazione più volte nella stessa giornata, il conducente sarà sanzionato una sola volta per quella specifica giornata.

Questa innovazione normativa è stata concepita per garantire maggiore proporzionalità nel sistema sanzionatorio, evitando situazioni in cui una serie di violazioni possa portare a sanzioni cumulative particolarmente onerose per il conducente. Le sanzioni applicabili restano comunque significative e sono calcolate sulla base delle disposizioni vigenti per ciascun tipo di infrazione. Inoltre, nel caso di violazioni commesse su più giorni distinti, il principio dell’unica sanzione giornaliera non si applica, e ogni infrazione sarà sanzionata separatamente.

L’obiettivo di questa disposizione è duplice: da un lato, promuovere una maggiore equità nel trattamento delle violazioni, dall’altro, semplificare le procedure amministrative e ridurre il rischio di contenziosi. La riforma al CdS consente agli utenti di comprendere meglio l’entità delle sanzioni e di evitare contestazioni legate alla sovrapposizione di multe per condotte assimilabili.

CdS e obblighi assicurativi: responsabilità del proprietario del veicolo

Tra le novità introdotte dalla Legge 25 novembre 2024 n. 177, una particolare attenzione è rivolta alla responsabilità del proprietario del veicolo per quanto concerne la copertura assicurativa. La modifica all’articolo 193 CdS rafforza gli obblighi in capo al proprietario, ampliando la portata delle responsabilità per prevenire la circolazione di veicoli privi di regolare polizza assicurativa.

Il nuovo testo normativo stabilisce che il proprietario di un veicolo, indipendentemente dall’eventuale cessione del mezzo a terzi, deve vigilare affinché il veicolo sia coperto da un’assicurazione valida. Questo obbligo si applica anche qualora il veicolo venga ceduto a titolo di comodato, locazione o altra forma di disponibilità temporanea. La ratio della norma è evidente: evitare che veicoli non assicurati possano circolare, esponendo gli utenti della strada e i pedoni a rischi economici e legali in caso di incidenti. La modifica rafforza così la tutela collettiva, mirando a ridurre il fenomeno dell’elusione dell’obbligo assicurativo.

L’articolo 193 CdS prevede sanzioni severe per i proprietari inadempienti. Chiunque consenta la circolazione di un veicolo privo di copertura assicurativa è soggetto a una sanzione amministrativa pecuniaria significativa, oltre al fermo amministrativo del mezzo. Inoltre, la normativa consente alle autorità competenti di procedere al sequestro del veicolo fino alla regolarizzazione della posizione assicurativa. Il proprietario è altresì tenuto a coprire i costi derivanti dalla custodia del mezzo durante il periodo di fermo, aggiungendo un ulteriore aggravio economico per i trasgressori.

Questa innovazione normativa, pur rispondendo a un’esigenza di maggiore controllo e sicurezza, non è esente da critiche. Alcuni esperti hanno sottolineato che l’obbligo di vigilanza potrebbe risultare eccessivamente gravoso per i proprietari che concedono l’uso del veicolo a terzi in buona fede. In particolare, la responsabilità diretta del proprietario rischia di penalizzare chi non ha strumenti concreti per verificare costantemente la validità della polizza assicurativa, soprattutto in caso di utilizzi sporadici o temporanei del mezzo.

Nonostante queste perplessità, la riforma appare coerente con l’intento del legislatore di contrastare il fenomeno della circolazione senza copertura assicurativa, che rappresenta una delle principali cause di incertezza nella gestione degli incidenti stradali. La maggiore responsabilizzazione del proprietario si affianca a strumenti tecnologici sempre più avanzati, come i sistemi di rilevazione automatica, che consentono di individuare rapidamente i veicoli non assicurati.

Micromobilità e il Codice della Strada (CdS): nuove regole per monopattini e dispositivi elettrici

La Legge 25 novembre 2024 n. 177 introduce nel Codice della Strada (CdS) un quadro normativo più stringente per regolamentare l’uso dei dispositivi di micromobilità, con particolare attenzione ai monopattini elettrici. Questi mezzi, sempre più diffusi nelle aree urbane, sono stati al centro di un acceso dibattito per i rischi connessi alla loro circolazione e per l’assenza, fino a oggi, di regole uniformi. La riforma mira a garantire maggiore sicurezza per gli utenti e per i pedoni, attraverso una serie di disposizioni che disciplinano non solo l’uso dei monopattini, ma anche le modalità di parcheggio e i requisiti tecnici.

Tra le novità principali (apportate modificando la Legge 27 dicembre 2019, n. 160, e non direttamente il CdS), vi è l’introduzione dell’obbligo di assicurazione RC, una misura che pone i monopattini sullo stesso piano degli altri veicoli a motore in termini di responsabilità civile. L’obiettivo è quello di tutelare tutte le parti coinvolte in caso di incidenti, garantendo un adeguato risarcimento per eventuali danni causati da questi dispositivi. A ciò si aggiunge l’obbligo del casco per tutti i conducenti, senza distinzione di età, con una chiara volontà di ridurre il numero di incidenti gravi e lesioni legate alla scarsa protezione individuale.

Per quanto riguarda il parcheggio, la riforma stabilisce il divieto di sosta sui marciapiedi, salvo specifiche deroghe comunali. Questa misura risponde all’esigenza di evitare che i monopattini parcheggiati in modo disordinato costituiscano un ostacolo per i pedoni, in particolare per le persone con disabilità, e che compromettano il decoro urbano. Le amministrazioni locali saranno chiamate a regolamentare le modalità di sosta, prevedendo spazi dedicati per questi dispositivi, al fine di favorire un utilizzo più responsabile.

Le sanzioni per chi non rispetta le nuove disposizioni sono particolarmente incisive, con multe da 200 a 800 euro, a seconda della gravità della violazione. L’introduzione di tali sanzioni dimostra la volontà del legislatore di adottare un approccio più rigido nei confronti degli utenti di monopattini elettrici, spesso accusati di comportamenti imprudenti o pericolosi.

Nonostante le critiche, la riforma si configura come un tentativo di bilanciare l’innovazione con la sicurezza, rispondendo a un’esigenza reale di regolamentare la micromobilità in modo più efficace. Le nuove regole riflettono l’intento del legislatore di promuovere un uso responsabile dei monopattini elettrici, incentivando al contempo le amministrazioni locali a predisporre le infrastrutture necessarie per integrare questi mezzi nel sistema di mobilità urbana.

Resta ora da verificare se l’effetto deterrente delle sanzioni e l’applicazione uniforme delle regole saranno in grado di migliorare la sicurezza e l’ordine nelle città italiane, senza penalizzare eccessivamente gli utenti della micromobilità.

Sorpasso e velocipedi nel Codice della Strada (CdS): distanza di sicurezza obbligatoria

Una delle modifiche più significative introdotte dalla Legge 25 novembre 2024 n. 177 al Codice della Strada (CdS) riguarda il sorpasso dei velocipedi, con particolare attenzione alla sicurezza di questa categoria di utenti vulnerabili della strada. La nuova disciplina, che interviene sull’articolo 148 CdS, stabilisce l’obbligo per i veicoli a motore di mantenere una distanza laterale minima di 1,5 metri durante il sorpasso di biciclette, introducendo così una regola chiara e uniforme per ridurre i rischi di incidenti.

La norma impone al conducente che intenda sorpassare un velocipede di verificare preventivamente che la strada sia libera, che la manovra possa essere effettuata senza pericolo e che le condizioni di visibilità e spazio siano adeguate. La distanza di sicurezza laterale deve essere calcolata tenendo conto della velocità relativa dei mezzi e dell’ingombro del veicolo a motore, in modo da garantire la stabilità del velocipede e prevenire situazioni di pericolo per il ciclista. L’obiettivo di questa disposizione è quello di ridurre le situazioni di rischio derivanti da sorpassi troppo ravvicinati, che possono facilmente portare a cadute o a incidenti gravi.

Le sanzioni per la violazione di questa regola sono significative: il conducente che non rispetta la distanza di sicurezza è soggetto a una multa compresa tra 167 e 665 euro, oltre alla sospensione della patente da uno a tre mesi, secondo le disposizioni del Codice della Strada (CdS). Nei casi in cui il trasgressore sia un neopatentato, ossia in possesso della patente da meno di tre anni, la durata della sospensione è aumentata a un periodo compreso tra tre e sei mesi, a conferma della maggiore severità applicata ai conducenti meno esperti.

Questa modifica al CdS riflette la crescente attenzione del legislatore verso la protezione degli utenti più vulnerabili, in linea con gli obiettivi di sicurezza stradale promossi a livello europeo. La distanza minima di 1,5 metri, già adottata in altri Paesi dell’Unione Europea, rappresenta uno standard importante per garantire un livello di protezione adeguato ai ciclisti e per promuovere una cultura della condivisione responsabile della strada.

Tuttavia, l’introduzione di questa norma non è stata priva di critiche. Alcuni osservatori hanno evidenziato difficoltà pratiche nell’applicazione della regola in contesti urbani caratterizzati da strade strette o traffico intenso, dove il mantenimento della distanza laterale potrebbe non essere sempre possibile senza compromettere la fluidità della circolazione. Altri hanno sottolineato la necessità di accompagnare questa misura con una maggiore educazione stradale, rivolta sia ai conducenti di veicoli a motore sia ai ciclisti, per favorire un rispetto reciproco delle regole.

Motocicli 125 cc e il Codice della Strada (CdS): condizioni di circolazione su autostrade

Tra le novità introdotte dalla Legge 25 novembre 2024 n. 177, una delle più attese riguarda la possibilità, regolata dall’articolo 175 del Codice della Strada (CdS), di consentire ai motocicli di cilindrata 125 cc di circolare sulle autostrade e sulle strade extraurbane principali, purché vengano rispettate specifiche condizioni. Questa modifica, introdotta con il nuovo comma 2-bis, rappresenta una significativa apertura per i conducenti di veicoli di piccola cilindrata, offrendo loro una maggiore libertà di movimento, ma subordinata a rigidi requisiti di sicurezza.

La normativa di riforma al CdS prevede che i motocicli di cilindrata non inferiore a 120 cc se a motore termico, o di potenza non inferiore a 6 kW se a motore elettrico, possano circolare su queste strade, ma esclusivamente se condotti da persone maggiorenni. La restrizione mira a garantire che tali veicoli siano utilizzati da conducenti con una maggiore esperienza e maturità, riducendo il rischio di incidenti in contesti di traffico veloce e complesso, come quelli autostradali.

Questa deroga ai divieti tradizionalmente imposti dall’articolo 175 del Codice della Strada (CdS) risponde alla necessità di allinearsi alle tendenze europee in materia di mobilità leggera, consentendo un utilizzo più versatile dei motocicli di piccola cilindrata. Tuttavia, restano in vigore i divieti per veicoli con cilindrata inferiore a 120 cc o con potenza inferiore a 6 kW, nonché per i motocicli condotti da conducenti minorenni, confermando l’approccio prudenziale adottato dal legislatore.

Nonostante le opportunità offerte da questa modifica, la misura non è stata accolta unanimemente. Alcuni esperti hanno espresso preoccupazioni riguardo ai rischi potenziali per i conducenti di motocicli 125 cc, soprattutto in situazioni di traffico intenso o in presenza di veicoli pesanti. In particolare, l’assenza di adeguate barriere protettive o di corsie di emergenza sufficientemente ampie potrebbe rappresentare un pericolo significativo per questi utenti della strada.

Conclusioni: un Codice della Strada (CdS) più severo e moderno, ma con margini di criticità

La Legge 177/2024 ha introdotto un significativo aggiornamento del Codice della Strada (CdS), con l’obiettivo di rafforzare la sicurezza stradale e adeguare la normativa alle nuove esigenze di tutela degli utenti della strada.

Tra le principali novità si segnalano le restrizioni imposte ai neopatentati, con limiti di potenza dei veicoli e obblighi formativi aggiuntivi; la disciplina della sospensione breve della patente, applicabile in base al punteggio residuo e pensata per sanzionare condotte specifiche, come l’eccesso di velocità o il mancato rispetto della distanza di sicurezza; e le nuove regole per la micromobilità elettrica, che introducono l’obbligo di casco e polizza assicurativa per i monopattini. Di altre novità, riguardanti la guida in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, abbiamo trattato in un precedente articolo.

Sono stati inoltre introdotti il regime di accorpamento delle sanzioni per violazioni multiple ai limiti di velocità commesse in breve tempo e le modifiche all’articolo 173, con sanzioni più severe per l’uso improprio di dispositivi elettronici alla guida. Ulteriori innovazioni riguardano la sicurezza dei veicoli, con l’obbligo per i costruttori di avviare campagne di richiamo per correggere difetti che potrebbero compromettere la sicurezza, e la regolamentazione del sorpasso dei velocipedi, che impone una distanza minima laterale di 1,5 metri.

Da ultimo, il nuovo CdS prevede la possibilità per i motocicli 125 cc di circolare su autostrade, purché condotti da soggetti maggiorenni, e l’impiego delle auto di sicurezza per la regolazione del traffico in situazioni di emergenza.

Queste modifiche rappresentano un passaggio importante verso una mobilità più sicura e sostenibile, ma pongono anche sfide interpretative e applicative che richiederanno un costante monitoraggio.

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Nuovo Codice della Strada 2025: guida in stato di ebbrezza e stupefacenti

Nuovo Codice della Strada 2025: guida in stato di ebbrezza e stupefacenti

La Legge 25 novembre 2024 n. 177 di riforma del Codice della Strada segna un cambiamento significativo nell’ambito della circolazione stradale, introducendo nuove disposizioni in materia di sicurezza e responsabilità degli utenti della strada. Questo intervento legislativo, entrato in vigore il 14 dicembre 2024, mira a rafforzare il sistema sanzionatorio e a promuovere un approccio più rigoroso alla prevenzione degli incidenti stradali.

Tuttavia, tale riforma del Codice della Strada ha già suscitato ampie discussioni, lasciando adito a molti dubbi sia sul piano applicativo che su quello sostanziale. Secondo alcuni, le nuove disposizioni presentano profili di eccessivo rigore. Sebbene l’obiettivo dichiarato sia quello di incrementare la sicurezza sulle strade, non manca chi ritiene che alcune delle novità possano risultare sproporzionate rispetto alle situazioni che intendono disciplinare.

L’intero impianto normativo si fonda su un concetto chiave: incrementare il livello di sicurezza sulle strade italiane mediante strumenti più efficaci e sanzioni più incisive. In particolare, le modifiche al Codice della Strada intervengono su una vasta gamma di aspetti, che spaziano dalla guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, alle nuove regole per i neopatentati, fino a discipline specifiche per la micromobilità e l’utilizzo dei monopattini elettrici.

In questo articolo ci proponiamo di offrire una panoramica ragionata delle principali novità che riguardano la guida in stato d’ebbrezza e/o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.

Codice della Strada e guida in stato di ebbrezza: obblighi, dispositivi e sanzioni

La Legge 25 novembre 2024 n. 177 di riforma del Codice della Strada ha inasprito le misure volte a contrastare la guida in stato di ebbrezza e il consumo di sostanze stupefacenti da parte dei conducenti.
Una delle misure più significative è l’introduzione obbligatoria del dispositivo alcolock, che impedisce l’accensione del veicolo qualora il conducente presenti un tasso alcolemico superiore allo zero. Questo dispositivo, già ampiamente utilizzato in altri ordinamenti europei, viene ora prescritto anche dal Codice della Strada italiano per i conducenti recidivi, ossia coloro che sono stati condannati per guida in stato di ebbrezza.

L’obbligatorietà dell’alcolock si accompagna all’inserimento di codici unionali sulla patente di guida, come il “Codice 68” (divieto di consumo di alcol) e il “Codice 69” (obbligo di guida di veicoli dotati di alcolock). Tali prescrizioni restano valide per un minimo di due anni nei casi meno gravi e di tre anni per le infrazioni più gravi, salvo indicazioni diverse della commissione medica.

La mancata osservanza di queste disposizioni comporta sanzioni molto severe. Le pene previste per i reati di guida in stato di ebbrezza sono aumentate di un terzo per i conducenti obbligati all’uso dell’alcolock e raddoppiate in caso di manomissione o rimozione del dispositivo. Il Codice della Strada prevede, inoltre, la revisione della patente in tutti i casi di manomissione, a conferma della volontà del legislatore di adottare un approccio zero-tolerance nei confronti di tali comportamenti. La revisione è disposta dal Prefetto ai sensi dell’articolo 128, con l’obiettivo di garantire l’adeguamento delle patenti alle prescrizioni imposte.

In generale, resta invariata la classificazione delle violazioni in base al tasso alcolemico rilevato, articolata in tre fasce: da 0,5 a 0,8 g/l, da 0,8 a 1,5 g/l, e oltre 1,5 g/l. Tuttavia, la riforma del Codice della Strada ha aumentato le sanzioni pecuniarie e accessorie previste per ciascuna fascia, aggiungendo un ulteriore aggravio per i conducenti obbligati all’alcolock. Le multe sono aumentate di un terzo per chi è soggetto a tale obbligo, mentre il mancato rispetto delle prescrizioni o la manomissione del dispositivo comportano un raddoppio delle sanzioni e l’immediata revisione della patente ai sensi dell’articolo 128 del Codice della Strada.

Un altro elemento di continuità riguarda l’obbligo di sottoporsi agli accertamenti etilometrici in caso di sospetto da parte degli organi di polizia. La riforma non ha modificato le modalità operative dei controlli, che continuano a prevedere l’utilizzo di strumenti certificati per la rilevazione del tasso alcolemico. Restano invariate anche le conseguenze per il rifiuto di sottoporsi al test, assimilata quoad poneam alla guida con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l (art. 186, comma 7, Codice della Strada).

Permane l’obbligo per i conducenti professionali e per i neopatentati di mantenere un tasso alcolemico pari a zero, senza alcuna tolleranza. Questo principio, introdotto nelle precedenti riforme del Codice della Strada, è stato confermato e ulteriormente rafforzato attraverso l’incremento delle sanzioni pecuniarie e delle pene accessorie per le violazioni commesse da queste categorie di conducenti.

Codice della Strada e guida sotto l’effetto di stupefacenti: obblighi e sanzioni

Oltre alle disposizioni relative all’alcol, la riforma introduce cambiamenti significativi per la guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, intervenendo sull’articolo 187 del Codice della Strada. La nuova normativa elimina il riferimento allo “stato di alterazione psicofisica” del conducente, basandosi esclusivamente sulla positività agli accertamenti tossicologici.

Questa modifica, volta a semplificare l’applicazione delle sanzioni, ha suscitato critiche in quanto potrebbe portare a contestazioni fondate su dati meramente oggettivi, senza una valutazione completa dello stato del conducente. La revoca della patente è automatica per chi risulta positivo ai test, senza la necessità di dimostrare un’effettiva compromissione della capacità di guida.

La riforma introduce, inoltre, una procedura dettagliata per gli accertamenti tossicologici, basata sull’utilizzo di tecniche non invasive, come il prelievo di campioni dal cavo orale. Gli esami devono essere effettuati in laboratori certificati, garantendo così la massima affidabilità dei risultati. In caso di esito positivo al test preliminare, gli organi di polizia possono disporre il ritiro immediato della patente, vietando al conducente di continuare a guidare per un periodo massimo di dieci giorni, in attesa dei risultati definitivi.

Non mancano, infine, le misure accessorie. Il Prefetto può disporre la sospensione cautelare della patente e l’obbligo di visita medica entro sessanta giorni. Qualora l’esito della visita confermi l’idoneità alla guida, la validità della patente sarà limitata a un anno, con possibilità di rinnovo per periodi successivi di tre e cinque anni. Nei casi di inidoneità, invece, è prevista la revoca definitiva della patente.

Questa disciplina, pur riconoscendosi come rigorosa e innovativa, solleva interrogativi circa la proporzionalità delle pene e l’efficacia pratica delle misure adottate. Sebbene il legislatore abbia inteso rafforzare la prevenzione, non sono mancati rilievi critici, soprattutto per quanto riguarda l’impatto sulle libertà individuali e la gestione delle contestazioni. Resta da vedere se queste disposizioni contribuiranno effettivamente a una riduzione degli incidenti stradali, come auspicato, o se sarà necessario un ulteriore intervento normativo per correggere eventuali criticità emerse nella fase applicativa.

Codice della Strada e sostanze stupefacenti: accertamenti tossicologici e revoca della patente

La riforma del Codice della Strada introdotta dalla Legge 25 novembre 2024 n. 177 apporta significative modifiche alle disposizioni riguardanti la guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, con particolare riferimento all’articolo 187 Codice della Strada. Come premesso, la nuova normativa si distingue per la semplificazione del quadro sanzionatorio e per l’introduzione di procedure più stringenti e dettagliate volte ad accertare il consumo di tali sostanze da parte dei conducenti. Il legislatore, infatti, ha scelto di eliminare il riferimento allo “stato di alterazione psicofisica”, prevedendo che la positività agli accertamenti tossicologici sia sufficiente per l’applicazione delle sanzioni previste dalla legge.

In particolare, la nuova disciplina introduce una procedura di accertamento articolata in più fasi. Gli organi di polizia stradale possono sottoporre i conducenti a test qualitativi preliminari non invasivi, eseguibili anche tramite apparecchi portatili. Qualora questi test diano esito positivo, o qualora vi siano ragionevoli motivi per ritenere che il conducente abbia assunto sostanze stupefacenti, è previsto il prelievo di campioni dal cavo orale.

Gli esami successivi devono essere condotti esclusivamente in laboratori certificati, conformi agli standard forensi, per garantire la validità e l’affidabilità dei risultati. Questa attenzione alla qualità e alla sicurezza degli accertamenti riflette la necessità di tutelare i diritti del conducente, pur in un contesto di rigore crescente.

La riforma introduce anche un’importante novità in caso di accertamenti positivi. Gli organi di polizia possono disporre il ritiro immediato della patente, che rimarrà sospesa per un massimo di dieci giorni, in attesa degli esiti definitivi degli accertamenti. Durante questo periodo, è vietato condurre veicoli, e il mezzo sarà trasferito a spese del conducente presso una località indicata o un’autorimessa. Qualora non sia possibile completare gli accertamenti, il Prefetto dispone comunque la sospensione cautelare della patente e impone al conducente di sottoporsi a una visita medica entro sessanta giorni.

Le sanzioni previste per la guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti sono severe e comprendono la revoca automatica della patente in caso di esito negativo degli accertamenti medici. In tali circostanze, il conducente non potrà richiedere una nuova patente prima di tre anni. Per i conducenti che risultano idonei alla guida, invece, la patente avrà una validità limitata a un anno, con successive estensioni per periodi di tre o cinque anni.

La disciplina è particolarmente rigorosa per i conducenti minori di ventuno anni, che non potranno conseguire la patente fino al compimento del ventiquattresimo anno di età qualora abbiano commesso reati legati alla guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.

Queste disposizioni, pur rispondendo all’esigenza di garantire maggiore sicurezza sulle strade, sollevano dubbi in merito alla loro rigidità e alla proporzionalità delle sanzioni. In particolare, la possibilità che la sola positività ai test tossicologici sia sufficiente per l’applicazione delle pene pone interrogativi sul rispetto dei principi di tutela delle libertà individuali e di giustizia sostanziale.

Modifiche al codice penale: omicidio e lesioni stradali aggravati dalla guida sotto l’effetto di stupefacenti

Con la Legge 25 novembre 2024 n. 177, il legislatore è intervenuto sul testo degli articoli 589-bis e 590-bis c.p., relativi ai reati di omicidio e lesioni personali stradali, per adeguarli alle modifiche apportate all’articolo 187 del Codice della Strada. Quest’ultimo, infatti, non contiene più alcun riferimento allo stato di “alterazione psicofisica” conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti, eliminando tale requisito per l’applicazione delle sanzioni amministrative.

Nel nuovo quadro normativo, per configurare le aggravanti previste dai commi 2 degli articoli 589-bis e 590-bis c.p., è necessario provare che il conducente fosse in uno stato di alterazione psicofisica effettiva, determinato dall’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope. Questo implica che, a differenza di quanto richiesto per l’applicazione delle sanzioni amministrative, la mera positività agli accertamenti tossicologici non è sufficiente per contestare l’aggravante penale: occorre dimostrare l’effettiva alterazione delle capacità psicofisiche del conducente al momento del sinistro.

Al contrario, per l’applicazione delle sanzioni amministrative, l’accertamento della positività a sostanze stupefacenti è di per sè sufficiente, indipendentemente dall’effettivo stato di alterazione. In definitiva, la dimostrazione del concreto stato di alterazione psicofisica rileva soltanto per la contestazione della circostanza aggravante nei casi di omicidio o lesioni stradali, mentre non è necessaria per l’applicazione delle sanzioni amministrative.

Questa distinzione tra sanzioni amministrative e aggravanti penali mira a bilanciare esigenze preventive e garanzie costituzionali, ma solleva anche diversi dubbi.

Profili di incostituzionalità nella riforma del Codice della Strada

Invero, la Legge 25 novembre 2024 n. 177, che ha riformato il Codice della Strada, ha suscitato un ampio dibattito in dottrina riguardo a possibili profili di incostituzionalità. Le critiche si concentrano su alcune disposizioni che, secondo i detrattori, violano principi costituzionali fondamentali quali l’uguaglianza, la ragionevolezza delle norme, la tutela delle libertà individuali e il diritto al lavoro.

Un primo aspetto riguarda il principio di uguaglianza, sancito dall’articolo 3 della Costituzione. L’imposizione automatica del dispositivo alcolock per i conducenti condannati per guida in stato di ebbrezza non consente di valutare caso per caso la gravità dell’infrazione o le circostanze personali del trasgressore. La rigidità della norma potrebbe comportare un trattamento non proporzionato tra soggetti che, pur trovandosi in situazioni personali differenti, subiscono le medesime sanzioni, in contrasto con il principio di equità.

Altre critiche si concentrano sul principio di ragionevolezza, anch’esso tutelato dall’articolo 3. La revoca automatica della patente per positività ai test tossicologici, senza accertare uno stato di alterazione psicofisica o un’effettiva pericolosità alla guida, introduce una presunzione assoluta che alcuni ritengono eccessiva. La Corte Costituzionale ha in passato ribadito che le sanzioni devono essere proporzionate e collegate a comportamenti concreti, per evitare violazioni del principio di giustizia sostanziale.

La riforma solleva dubbi anche in relazione alla libertà personale, garantita dall’articolo 13 della Costituzione. Sebbene le misure come la revoca della patente o il ritiro immediato non configurino una privazione della libertà in senso stretto, esse incidono significativamente sull’autodeterminazione individuale, soprattutto se applicate in modo automatico senza possibilità di difesa preventiva.

Un ulteriore elemento di criticità riguarda il diritto al lavoro, tutelato dall’articolo 4 della Costituzione. La revoca della patente può avere conseguenze particolarmente gravi per i lavoratori che utilizzano il veicolo come strumento essenziale per la propria attività professionale. L’assenza di deroghe per specifiche categorie di conducenti potrebbe determinare una compressione del diritto al lavoro, con ripercussioni economiche e sociali rilevanti.

Ricordiamo peraltro che la Corte Costituzionale si è recentemente pronunciata (v. sentenza n. 52/2024) dichiarando l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni del Codice della Strada che sancivano automatismi applicativi. Ciò lascia supporre che, anche le novellate disposizioni, si espongono a censure di incostituzionalità.

In conclusione, sebbene la riforma del Codice della Strada miri a rafforzare la sicurezza stradale attraverso misure innovative e severe, essa pone interrogativi sul bilanciamento tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali. Una corretta applicazione delle norme, accompagnata da eventuali interventi correttivi del legislatore o della Corte Costituzionale, potrebbe essere necessaria per evitare tensioni con i principi costituzionali, garantendo così un’efficace protezione degli utenti della strada e il rispetto delle libertà individuali.

Neopatentati e il Codice della Strada: nuove restrizioni e obblighi formativi

La riforma introdotta dalla Legge 25 novembre 2024 n. 177 dedica particolare attenzione alla categoria dei neopatentati, modificando in modo significativo l’articolo 117 del Codice della Strada. L’obiettivo del legislatore è di aumentare la sicurezza stradale attraverso l’imposizione di limitazioni più stringenti e l’introduzione di obblighi formativi che mirano a garantire una maggiore consapevolezza e preparazione dei conducenti più giovani. Queste disposizioni, entrate in vigore il 14 dicembre 2024, rispondono all’esigenza di contrastare la frequenza degli incidenti stradali che coinvolgono conducenti inesperti.

Tra le novità principali, spiccano i nuovi limiti di potenza per i veicoli guidabili dai neopatentati. Per i primi tre anni dal conseguimento della patente di categoria B, è vietata la guida di veicoli con una potenza specifica superiore a 75 kW per tonnellata, salvo alcune eccezioni per i veicoli elettrici o ibridi plug-in, per i quali il limite è fissato a 105 kW. Questa limitazione si pone l’obiettivo di ridurre il rischio di condotte di guida pericolose, evitando che i neopatentati possano mettersi alla guida di mezzi particolarmente potenti o difficili da gestire.

Un altro aspetto innovativo della riforma riguarda l’obbligo di effettuare esercitazioni pratiche specifiche, come previsto dall’articolo 122, comma 5-bis del Codice della Strada. L’aspirante conducente dovrà svolgere esercitazioni su autostrade, strade extraurbane principali e in condizioni di visione notturna. Tali esercitazioni, che dovranno essere certificate da una scuola guida accreditata, costituiscono un prerequisito essenziale per ottenere l’idoneità alla guida. Questa misura mira a preparare i neopatentati a gestire situazioni di traffico complesse e condizioni di guida impegnative, riducendo così il rischio di incidenti.

La riforma introduce anche una maggiore severità nelle sanzioni per i neopatentati che violano le norme del Codice della Strada. In caso di trasgressioni gravi, come il superamento dei limiti di velocità o la guida sotto l’effetto di alcol o sostanze stupefacenti, le pene accessorie, quali la sospensione della patente, risultano aggravate rispetto a quelle previste per i conducenti più esperti. Questa differenziazione, basata sul principio di maggiore responsabilità proporzionale all’esperienza di guida, intende agire come deterrente per comportamenti pericolosi.

Le nuove disposizioni per i neopatentati, pur essendo accolte positivamente per il loro intento di promuovere una guida più sicura, non mancano di suscitare critiche. In particolare, alcuni osservatori hanno evidenziato che l’obbligo di esercitazioni pratiche potrebbe rappresentare un onere economico significativo per le famiglie, penalizzando soprattutto chi dispone di risorse limitate. Inoltre, i limiti di potenza sono stati talvolta considerati troppo restrittivi, limitando la possibilità di scegliere veicoli adeguati alle esigenze quotidiane, come l’utilizzo familiare. Tuttavia, il legislatore sembra aver adottato un approccio prudenziale, valutando prioritario l’interesse collettivo alla sicurezza rispetto a eventuali difficoltà individuali.

Conclusioni: un Codice della Strada più severo, ma con margini di criticità

La Legge 25 novembre 2024 n. 177 di riforma del Codice della Strada, ha inasprito le sanzioni per promuovere una maggiore sicurezza stradale. Con l’introduzione di nuove regole sulla guida in stato di ebbrezza, sugli accertamenti tossicologici, sulle limitazioni per i neopatentati, il legislatore ha inteso adattare la normativa alle esigenze di un sistema in costante evoluzione.

Le modifiche apportate evidenziano un approccio improntato al rigore e alla prevenzione. Si tratta, tuttavia, di una riforma che non va esente da criticità. In particolare, alcune delle nuove disposizioni sono state giudicate da più parti eccessivamente rigide, sollevando dubbi sulla proporzionalità delle sanzioni e sull’impatto sociale di alcune regole. Inoltre, il successo della riforma dipenderà in larga misura dalla capacità di garantire una corretta informazione e sensibilizzazione degli utenti della strada.

In conclusione, il nuovo Codice della Strada segna un passaggio significativo verso una mobilità più sicura e responsabile, ma richiede una riflessione costante per bilanciare rigore e proporzionalità. Gli utenti della strada sono chiamati a un ruolo attivo nel recepire e rispettare le nuove regole, contribuendo così a rendere le strade italiane un luogo più sicuro per tutti.

Per qualsiasi chiarimento o per ricevere assistenza legale sul Codice della Strada o su sinistri, lo Studio Legale D’Agostino è a disposizione per fornire consulenze personalizzate, affiancando gli utenti nella comprensione e nell’applicazione delle normative, tutelando i loro diritti con competenza e professionalità.

 

Codice della Strada: immagine di una strada extraurbana con pattuglia della polizia e scritta "DAGOSTINOLEX", per assistenza legale a Roma.

Codice della Strada: assistenza legale dello Studio Legale D’Agostino per casi di incidenti stradali, alcol e stupefacenti a Roma.

I reati informatici nel D. Lgs. 231/2001. Modelli organizzativi e responsabilità dopo la Legge 90/2024.

I reati informatici nel D. Lgs. 231/2001. Modelli organizzativi e responsabilità dopo la Legge 90/2024.

In un contesto socio-economico sempre più caratterizzato dall’utilizzo delle tecnologie digitali, i reati informatici costituiscono per le imprese un fattore di rischio trasversale. Questo rischio si manifesta non solo per la possibilità di attacchi esterni, come un’intrusione informatica volta a compromettere la sicurezza dei dati aziendali, ma anche per condotte dannose provenienti dall’interno dell’impresa stessa.

Il legislatore, consapevole della crescente rilevanza di tali minacce, ha adeguato la normativa di settore, introducendo nuovi strumenti per contrastare tali fenomeni. Un esempio significativo è l’inclusione dei reati informatici tra i reati presupposto della responsabilità amministrativa dell’ente ai sensi dell’art. 24-bis del D. Lgs. 231/2001, una norma che è stata recentemente modificata per estendere la responsabilità anche ai reati connessi alla sicurezza cibernetica nazionale.

L’inclusione di tali fattispecie rappresenta un rilevante presidio di legalità nell’ambito aziendale, poiché essa si applica non solo alle imprese operanti nel settore digitale, ma a tutte le imprese che utilizzano strumenti informatici. Le aziende, infatti, sono oggi profondamente informatizzate, e l’abuso dei sistemi informatici, da parte di soggetti apicali o dipendenti, è una delle minacce più concrete e visibili. Non è raro, ad esempio, che reati informatici vengano commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente, come nel caso di un dipendente che, al fine di incrementare il fatturato, accede abusivamente a server aziendali contenenti informazioni riservate di altre aziende.

Analogamente, il dirigente che distrugge file per evitare una sanzione amministrativa a seguito di un’indagine di vigilanza agisce in modo da tutelare l’interesse dell’azienda. Questi comportamenti evidenziano come l’adozione di un sistema di gestione della sicurezza informatica, attraverso procedure operative e controlli adeguati, sia cruciale per prevenire tali condotte.

L’introduzione dei reati informatici nel catalogo della responsabilità amministrativa dell’ente ai sensi del D. Lgs. 231/2001 dimostra come la compliance penale svolga un ruolo centrale nell’innalzamento del livello di sicurezza aziendale. Attraverso l’implementazione di modelli organizzativi che regolino l’uso dei sistemi informatici e la definizione di procedure interne chiare (ad esempio, l’autorizzazione all’accesso ai sistemi, l’utilizzo dei privilegi di amministratore, o la gestione delle password), le imprese possono ridurre il rischio di essere coinvolte in reati di natura informatica, prevenendo così danni significativi sia dal punto di vista economico che reputazionale.

Parallelamente, sul piano della sicurezza cibernetica e della prevenzione delle minacce esterne, la legislazione ha subito importanti sviluppi, con un quadro normativo sempre più articolato. A livello europeo, l’approvazione delle Direttive NIS ha rappresentato un passaggio fondamentale, imponendo alle imprese l’adozione di misure tecniche e organizzative adeguate per la gestione dei rischi cibernetici, al fine di garantire la continuità operativa e minimizzare gli impatti degli incidenti. Oltre a ciò, la normativa prevede l’obbligo per le imprese di notificare tempestivamente alle autorità competenti eventuali incidenti con impatti rilevanti, evitando ritardi che potrebbero compromettere la sicurezza complessiva del sistema.

Infine, è importante evidenziare come questa normativa si sia progressivamente estesa anche ad altri settori critici, quali quello finanziario, rafforzando ulteriormente la protezione delle infrastrutture essenziali e dei servizi di pubblica utilità. L’obiettivo del presente articolo è fornire un quadro delle novità introdotte dalla Legge 90/2024, che ha ulteriormente ampliato la responsabilità amministrativa degli enti in relazione ai reati informatici e rafforzato il sistema di sanzioni previste per tali illeciti. Per una disamina di tutte le novità introdotte da tale legge, rinviamo al nostro precedente articolo.

I reati informatici presupposto della responsabilità dell’ente

L’art. 24-bis del D. Lgs. 231/2001, introdotto dalla legge 18 marzo 2008, n. 48, in attuazione della Convenzione di Budapest, ha incluso tra i reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti gran parte dei reati informatici. La normativa considera, in modo specifico, quei reati che richiedono necessariamente, per la loro consumazione, l’utilizzo di tecnologie dell’informazione e dei sistemi informatici.

Tuttavia, l’art. 24-bis non esaurisce la propria portata con riferimento ai soli reati informatici in senso stretto, ma abbraccia anche fattispecie che possono essere commesse o facilitate attraverso la rete o il web, quali i reati in materia di terrorismo (art. 25-quater), la pedopornografia virtuale (art. 25-quinquies) e il riciclaggio (art. 25-octies). Si tratta di reati che, pur non essendo strettamente legati all’informatica, trovano un terreno fertile di sviluppo nell’ambito digitale.

Per quanto concerne i reati informatici in senso stretto, è necessario sottolineare che essi sono volti a tutelare tre ambiti specifici: la riservatezza dei dati e delle comunicazioni informatiche, l’integrità dei dati e dei sistemi informatici, e la fede pubblica. Il primo di questi ambiti è protetto dall’art. 615-ter c.p., che punisce l’accesso abusivo a un sistema informatico o telematico. Questa fattispecie sanziona il comportamento di chi, senza autorizzazione, accede a un sistema informatico o telematico, o vi si trattiene oltre i limiti consentiti.

In merito a tale reato, la giurisprudenza ha spesso dibattuto sulla rilevanza della permanenza non autorizzata all’interno di un sistema informatico da parte di un soggetto che, pur essendo in possesso delle credenziali di accesso, utilizza il sistema per scopi diversi da quelli consentiti. Nella stessa area di protezione della riservatezza si collocano anche i reati di detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici (art. 615-quater c.p.), i quali rappresentano condotte prodromiche rispetto all’accesso abusivo, nonché le fattispecie di intercettazione abusiva di comunicazioni informatiche o telematiche (artt. 617-quater e quinquies c.p.).

Il secondo ambito di tutela, relativo all’integrità dei dati e dei sistemi informatici, è presidiato dalle fattispecie di danneggiamento introdotte dal legislatore con la legge n. 48 del 2008. Il legislatore ha articolato la risposta sanzionatoria distinguendo tra il danneggiamento di dati, programmi o sistemi informatici privati e il danneggiamento di sistemi pubblici o di pubblica utilità.

Le fattispecie più significative in questo ambito sono gli artt. 635-bis e 635-ter c.p., che tutelano rispettivamente i dati e i programmi informatici privati e pubblici, con una protezione anticipata per questi ultimi, e gli artt. 635-quater e 635-quinquies c.p., che puniscono le condotte di danneggiamento mediante l’utilizzo di virus o altri programmi dannosi. Una novità rilevante introdotta di recente è l’art. 635-quater.1 c.p., il quale punisce la produzione, diffusione o semplice detenzione di programmi informatici progettati per danneggiare sistemi o dati, configurando una protezione avanzata per i sistemi di pubblica utilità.

Infine, tra i reati informatici, l’ultimo ambito di tutela riguarda la fede pubblica, con due fattispecie specifiche: l’art. 491-bis c.p., che estende la disciplina della falsità documentale anche al documento informatico, e l’art. 640-quinquies c.p., che punisce le frodi informatiche connesse all’alterazione di dati, specialmente se finalizzate a trarre un ingiusto profitto a discapito della pubblica amministrazione. Questi reati rappresentano una minaccia particolarmente rilevante nell’ambito dei rapporti con le pubbliche amministrazioni, ove l’utilizzo fraudolento di dati può compromettere la trasparenza e la correttezza delle transazioni pubbliche.

Accanto ai reati informatici tradizionali, il legislatore ha recentemente introdotto, attraverso il decreto-legge n. 105 del 2019 (convertito in legge n. 133 del 2019), un’ulteriore figura di reato volta a tutelare la sicurezza cibernetica nazionale. L’art. 24-bis del D. Lgs. 231/2001 è stato infatti modificato per includere la sanzione della falsa o omessa comunicazione di dati o informazioni rilevanti per la sicurezza nazionale, nell’ambito del cosiddetto Perimetro di Sicurezza Nazionale Cibernetica. Questo nuovo reato mira a garantire la tempestiva e accurata trasmissione di informazioni alle autorità preposte, al fine di prevenire o mitigare minacce alla sicurezza dei sistemi informatici che svolgono funzioni critiche per il Paese.

Reati informatici e 231. Le novità introdotte dalla Legge 90/2024

La Legge n. 90 del 2024 ha apportato ulteriori modifiche significative all’art. 24-bis del D. Lgs. 231/2001, inasprendo le sanzioni pecuniarie previste per i reati informatici e introducendo nuove fattispecie di reato, come l’estorsione informatica, comunemente associata all’uso di ransomware. Il legislatore ha così inteso rafforzare il sistema sanzionatorio per gli enti coinvolti in reati informatici, con un chiaro intento deterrente. Le sanzioni pecuniarie sono state aumentate, con un massimo che ora raggiunge le settecento quote, mentre per i reati di estorsione informatica è stata prevista una sanzione specifica che può arrivare fino a ottocento quote.

Un ulteriore aspetto rilevante introdotto dalla Legge n. 90 del 2024 è la previsione di sanzioni interdittive per gli enti condannati per reati di estorsione informatica, con la possibilità di interdizioni dall’esercizio dell’attività per un periodo non inferiore a due anni. Tale misura dimostra l’importanza che il legislatore attribuisce alla prevenzione di tali reati, i quali rappresentano una minaccia sempre più concreta per le imprese, specie quelle che operano nel settore critico delle infrastrutture digitali.

In sintesi, l’art. 24-bis del D. Lgs. 231/2001, grazie anche alle modifiche introdotte dalla Legge n. 90 del 2024, si configura come uno strumento fondamentale per la responsabilizzazione delle imprese nell’ambito della sicurezza informatica “interna” all’ente. Le nuove disposizioni, oltre a incrementare le sanzioni, rafforzano la capacità delle autorità di contrastare efficacemente il fenomeno dei reati informatici, ponendo l’accento sulla necessità per le imprese di adottare misure di compliance adeguate a prevenire tali condotte.

Modelli organizzativi per la prevenzione dei reati informatici

L’adozione di modelli organizzativi per la prevenzione dei reati informatici è un processo complesso che richiede un’attenta pianificazione e l’implementazione di strategie mirate a ridurre il rischio derivante dall’uso delle tecnologie informatiche all’interno dell’azienda. La creazione di questi modelli deve essere specificamente adattata alle caratteristiche della singola impresa, considerando la natura delle sue attività e il contesto tecnologico in cui opera.

Uno degli aspetti più critici nella costruzione di un modello organizzativo è la possibilità che un reato informatico venga commesso utilizzando un dispositivo aziendale, anche senza che sia stato identificato l’autore della condotta criminosa. L’impresa, in questi casi, potrebbe trovarsi a rispondere per un illecito, nonostante l’impossibilità di ricostruire con precisione la dinamica del fatto o l’identità del responsabile.

Per tale ragione, l’adozione di una disciplina interna rigorosa sull’uso dei sistemi informatici e dei software aziendali diventa un passaggio imprescindibile per una gestione efficace del rischio.

La prevenzione dei reati informatici richiede l’implementazione di una politica di sicurezza equilibrata che comprenda sia misure tecniche che misure organizzative. Prima di tutto, è necessario condurre una mappatura completa di tutti i componenti dell’infrastruttura IT dell’azienda, inclusi i software installati e i dispositivi utilizzati. Successivamente, si procede con un’analisi dei rischi (risk assessment), finalizzata a identificare le vulnerabilità presenti e a sviluppare procedure adeguate per la gestione dei rischi legati agli asset immateriali dell’azienda, come i dati e le informazioni riservate.

Un aspetto centrale nella costruzione del modello organizzativo è la corretta assegnazione di ruoli e responsabilità all’interno dell’azienda. Questo comprende la regolamentazione dell’accesso ai sistemi informatici mediante l’uso di registrazioni, autenticazioni e log sui server aziendali, oltre al controllo costante del loro utilizzo, come ad esempio la verifica dei software installati e il monitoraggio delle attività svolte sui sistemi aziendali. Questi controlli devono essere adeguati e continui per garantire una tracciabilità efficace delle operazioni compiute e prevenire usi impropri dei sistemi.

Nel contesto della prevenzione degli attacchi informatici, la normativa prevista dal D. Lgs. 231/2001 si affianca ad altre importanti disposizioni legislative, come la Direttiva NIS e il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR). Questi strumenti normativi pongono l’accento sulla accountability delle imprese, incentivandole a sviluppare sistemi di sicurezza avanzati per proteggere i propri dati e le proprie infrastrutture.

Tuttavia, in alcune circostanze, la disciplina del D. Lgs. 231/2001 non trova applicazione, come nel caso in cui l’impresa sia il bersaglio di un attacco esterno. In questi casi, non si configura un reato commesso “nell’interesse o a vantaggio” dell’ente, requisito essenziale per la responsabilità prevista dalla normativa.

I modelli organizzativi finalizzati alla prevenzione dei reati informatici devono concentrarsi su tre principali contesti di rischio. Il primo è quello degli accessi abusivi a sistemi informatici e telematici, spesso compiuti per ottenere dati sensibili, come le liste clienti o informazioni riservate.

Il secondo riguarda la manipolazione dei dati nel contesto dei rapporti con la Pubblica Amministrazione, come nei casi di sovrafatturazione o alterazione di dati fiscali per ottenere vantaggi indebiti. Il terzo contesto è legato a condotte di danneggiamento o interruzione del funzionamento dei sistemi informatici, finalizzate a causare disservizi o danni all’immagine aziendale.

Negli ultimi anni, la consapevolezza dell’importanza della cybersecurity è aumentata significativamente all’interno delle imprese. Diversi documenti e iniziative, come il Framework Nazionale per la Cybersecurity e la Data Protection, sviluppato dal CINI in collaborazione con università e centri di ricerca, offrono linee guida per migliorare i controlli di sicurezza informatica nelle aziende. Tra le principali misure raccomandate vi sono la gestione degli inventari di dispositivi e software, la protezione contro i malware, la gestione di password e account, nonché la formazione e sensibilizzazione del personale in materia di cybersicurezza.

In definitiva, l’adozione di un modello organizzativo che includa queste misure di prevenzione è cruciale per ridurre il rischio di commissione di reati informatici. L’implementazione di un sistema di sicurezza robusto non solo tutela i dati e i sistemi aziendali, ma contribuisce anche a migliorare la reputazione e la competitività dell’azienda, garantendo il rispetto delle normative vigenti.

Reati informatici e 231: l’importanza nella corporate compliance

In conclusione, la crescente complessità dei reati informatici e la loro incidenza sulle attività aziendali rendono indispensabile una consulenza legale qualificata per la valutazione dei rischi, la definizione di processi di sicurezza e la costruzione di un modello organizzativo adeguato a prevenire tali condotte illecite. Rivolgersi a un avvocato specializzato in diritto penale consente di affrontare queste problematiche con una prospettiva mirata e strategica, garantendo il rispetto della normativa vigente e la protezione del patrimonio aziendale.

Lo Studio Legale D’Agostino vanta una expertise trasversale nell’ambito della criminalità informatica e della corporate compliance, offrendo un supporto legale di alto livello che garantisce l’adozione di soluzioni efficaci e innovative per la gestione dei rischi cibernetici.

Grazie alla consolidata esperienza in questi settori, lo Studio è in grado di assicurare un elevato standard qualitativo, accompagnando le imprese nella realizzazione di un sistema di compliance solido e conforme alle esigenze normative più attuali, in materia di prevenzione dei reati informatici.

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